Settembre 2008

Prospettive per l’italia e per il sud

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Priorità per la ripresa
M.B. - D.M.B.
 
 

 

 

 

Dopo le amare stagioni delle
migrazioni, che hanno succhiato
il miglior sangue delle genti del Sud, ad essere emarginati,
penalizzati, esclusi sono ora i giovani.

 

La situazione economica italiana è così complessa e difficile, che impone un’estrema urgenza nell’affrontare i gravi problemi che la determinano. In termini reali, il reddito disponibile degli italiani è fermo ai livelli dei primi anni Novanta. Ciò riflette l’incremento della pressione fiscale (salita di circa tre punti percentuali tra il 2005 e il 2007) e la bassa crescita della produttività. Poi si è aggiunto lo shock inflazionistico. L’esigenza politica di fare qualcosa che desse un sollievo immediato è stata evidente. Ma i problemi di cui soffre l’economia della Penisola non possono essere risolti dall’oggi al domani. Allo stato delle cose, è essenziale concentrarsi sugli obiettivi di lungo periodo, senza limitarsi a misure di piccolo cabotaggio o a palliativi estemporanei.
Cominciamo dalle cose da non fare. L’impennata dei prezzi è dovuta alla variazione di alcuni prezzi relativi: energia e prodotti alimentari. È probabile che la situazione duri a lungo, perché riflette nuovi equilibri nell’economia mondiale. Alcuni settori, come la pesca o i trasporti, sono particolarmente colpiti dal rincaro energetico? Purtroppo, c’è ben poco da fare: se alcuni beni diventano più scarsi, i loro prezzi devono salire per guidare la riallocazione di risorse.
Contrastare gli aumenti con sussidi mirati o con prezzi amministrati sarebbe controproducente e fonte di inefficienze. Inseguire gli aumenti con rincorse salariali sarebbe altrettanto vano. Come è stato più volte messo in evidenza, la Banca centrale europea continuerà a vigilare, per evitare un aumento duraturo dell’inflazione, anche perché la rincorsa salariale si tradurrebbe soltanto in una maggiore disoccupazione.

Nulla da fare, allora? Non è detto. Si possono sostenere i redditi più bassi, nell’ambito delle compatibilità di bilancio. Ma si deve trattare di interventi rivolti ai cittadini bisognosi, non un aiuto ad alcuni settori produttivi.
Naturalmente, la vera sfida è un’altra: rilanciare la crescita. Per questo, sono state indicate tre fondamentali linee di azione. Innanzitutto, deve rallentare la dinamica della spesa pubblica corrente. I vincoli di bilancio sono chiari. Per raggiungere l’obiettivo di bilancio in pareggio nel 2011 e per far scendere la pressione fiscale al 40 per cento, la spesa corrente deve diminuire di circa l’1 per cento all’anno, in termini reali, per i prossimi cinque anni. Negli ultimi dieci anni, invece, è cresciuta poco più del reddito. Una riforma incisiva della Pubblica Amministrazione è un passo cruciale per raggiungere questi obiettivi. Ma occorrerà anche mettere mano ai grandi programmi di spesa, incluse le pensioni. Incrementare l’età media di pensionamento è un obiettivo irrinunciabile, che può essere conseguito anche con strumenti non eccessivamente costrittivi.
In secondo luogo, occorre affrontare il nodo irrisolto della produttività. Anche in questo caso, non è sufficiente un singolo provvedimento. Tutta l’azione di governo, dagli interventi fiscali alla riforma della pubblica amministrazione, alle liberalizzazioni, alle riforme sul mercato del lavoro, deve essere finalizzata al raggiungimento di questo obiettivo.
Infine, bisogna imprimere una svolta alle politiche per il Mezzogiorno. Il Sud non ha bisogno soltanto di risorse finanziarie e di infrastrutture moderne, ma anche – se non soprattutto – di più legalità, di un miglior funzionamento della pubblica amministrazione, di più capitale sociale.
Controllo della spesa pubblica, accelerazione della produttività del lavoro, svolta nelle politiche in favore del Mezzogiorno: non si tratta di cose realizzabili nel breve spazio di un mattino. Anche nell’ipotesi migliore, i risultati li vedremmo nel corso degli anni.
E nel frattempo? Per indurre un miglioramento immediato delle aspettative, l’azione d’intervento andrebbe impostata in una prospettiva pluriennale. Ad esempio, si potrebbe definire un programma strutturale di tagli d’imposta, accompagnato da precisi obiettivi sul lato della spesa. Se il percorso è credibile, ciò potrebbe anticipare la reazione favorevole dell’economia e facilitare l’azione dell’Esecutivo.

Rilanciare una nuova – e ultimativa – “questione meridionale” come momento essenziale e indifferibile dello sviluppo complessivo del Paese, significa oggi mettere in campo una “questione generazionale”. Come ha affermato il Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, «i protagonisti della ripresa devono essere coloro che hanno in mano il futuro: i giovani, oggi mortificati da un’istruzione inadeguata, da un mercato del lavoro che li discrimina a favore dei più anziani, da un’organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito, non valorizza le capacità».

Emarginati, penalizzati, discriminati. Dopo le amare stagioni delle migrazioni, che hanno succhiato il miglior sangue delle genti del Sud per lo sviluppo, a costo vile, di altre aree del Paese, nella nostra società contemporanea i giovani sono gli esclusi.
Invece di essere considerati una risorsa su cui costruire il domani, sono visti come una minaccia per le generazioni che hanno in pugno le leve del comando. E faticano ad aprirsi una loro strada. Non mancano spunti a favore di questa tesi. Sull’educazione, per esempio, è stato affermato che la distanza che separa i quindicenni italiani dalla media dell’Ocse equivale alle competenze che si possono acquisire con un semestre di scuola per le scienze e la lettura e con un anno per la matematica. Non raggiungono il livello minimo di competenze giudicato necessario in una società avanzata il 50,9 per cento dei ragazzi nella lettura e nella comprensione dei testi, il 32,8 per cento in matematica, e il 25,3 per cento in scienze (42,8 per cento, 21,3 per cento e 23,2 per cento rispettivamente, nella media europea). Un divario pesante proprio là, la cultura di base, dove sono poggiate le fondamenta delle conoscenze più avanzate.

Una volta superata la boa dell’ingresso nell’attività produttiva, la situazione non migliora: i consumi continuano a risentire della instabilità dei rapporti di impiego, diffusa specialmente fra i giovani e nelle fasce marginali del mercato del lavoro. L’incertezza sul reddito corrente, sulle sue prospettive di crescita futura, frena le decisioni di spesa, anche per l’inadeguatezza della rete di protezione sociale. Malgrado i miglioramenti conseguiti negli ultimi anni, ad esempio, manca ancora un disegno organico e rigoroso delle garanzie offerte, essenziale per un mercato del lavoro che coniughi flessibilità ed equità.
È necessario dunque un nuovo sistema di Welfare che, senza ripristinare dannose rigidità del mercato del lavoro, assicuri a chi è temporaneamente privo di occupazione un reddito dignitoso. Per costruirlo, però, occorre travasare risorse da altri canali di spesa. In modo particolare dalla previdenza, dove non va per niente bene che il 30 per cento della spesa per pensioni di vecchiaia e anzianità sia oggi corrisposto a cittadini con meno di 65 anni.
E non va neanche bene che il 19 per cento soltanto degli italiani tra i 60 e i 64 anni svolga un’attività lavorativa, contro il 33 per cento degli spagnoli e dei tedeschi, il 45 per cento dei britannici, il 60 per cento degli svedesi.
Infine, c’è il pozzo quasi senza fondo del debito pubblico, con i problemi di equità intergenerazionale che esso pone. Esistono dei modelli per valutare quanto i cittadini, divisi per coorti (sulla base dell’anno di nascita), ricevono dal settore pubblico e versano sotto forma di tasse e di contributi nel corso della vita.
È stato rilevato che qualora l’onere dell’aggiustamento necessario a rendere sostenibili le politiche di bilancio fosse interamente addossato agli individui appartenenti alle generazioni future, il loro saldo generazionale sarebbe negativo e pari a circa tre volte il loro reddito medio annuo: un autentico disincentivo a mettere al mondo figli!

 

   
   
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