La classe dirigente nazionale di
questo tema non
parla volentieri, forse perché
rappresenta una delle sue sconfitte più brucianti.
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Il Sud va sempre più indietro. Che fosse economicamente
la parte più debole del Paese era risaputo fin dai tempi
dellUnità dItalia. Ma ora sta accadendo qualcosa
di diverso, a cui probabilmente siamo meno preparati. La novità
è che, se non inverte rapidamente la rotta, il Mezzogiorno
rischia di trovarsi molto presto da solo ad arrancare in coda allEuropa,
sensibilmente staccato persino dagli ultimi arrivati.
Da qualche anno, infatti, le altre aree depresse del Vecchio Continente,
non soltanto in Spagna, Germania e Irlanda, ma anche nei Paesi dellEst,
si sono svegliate e hanno cominciato a correre. Niente a che vedere
con le nostre regioni meridionali, che fanno fatica persino a tenere
il passo con il ritmo non proprio brillante delleconomia nazionale.
Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, Sardegna e altre fasce del
Molise e dellAbruzzo sono destinate al ruolo di retroguardia
delle graduatorie dellUnione europea sul tasso di sviluppo?
È quel che dicono gli indicatori economici più importanti.
Le regioni del Sud si legge nellindagine Check
up Mezzogiorno, pubblicata dal Centro Studi dellIstituto
per la Promozione Industriale e dallArea Mezzogiorno
di Confindustria sono lultima grande area rimasta dellEuropa
pre-allargamento, in cui il Prodotto interno lordo pro capite resta
inferiore al 75 per cento della media europea dellUe a 27.
Dal 2003, dopo qualche anno di recupero, la crescita del Pil è
tornata a livelli inferiori di quella del resto dItalia e
soprattutto è iniziata una parabola discendente che non accenna
a fermarsi rispetto allEuropa: in quattro anni il Prodotto
interno lordo pro capite del Sud è passato da oltre il 62
al 56 per cento della media continentale. Ben al di sotto del livello
del 1995.

Ma ci sono molti altri dati negativi nelle ultime indagini relative
allandamento delleconomia meridionale. Il livello della
produttività è tornato a calare nel 2005, dopo un
breve periodo di recupero. Allo stato attuale è intorno all82,3
per cento di quello nazionale. Il divario, a quanto emerge dalle
elaborazioni dellIstituto Tagliacarne, è particolarmente
grave nel settore manifatturiero (con livelli pari al 75 per cento
di quello nazionale), nellalimentare (68 per cento) e nel
tessile (65 per cento).
Non si salva neanche il turismo, per il quale evidentemente non
sono sufficienti più il sole e il mare: nellultimo
periodo rilevato dalle indagini, lutilizzazione delle strutture
ricettive è stata del 18,1 per cento, contro il 24 per cento
del Centro-Nord, con un divario di crescita rispetto allinizio
dellanno-base, il 2000. I dati, insomma, vanno tutti nella
stessa direzione e sono più che sufficienti a lanciare un
ulteriore allarme. Che solo in pochi, tuttavia, sono disposti a
voler ascoltare.
Il risveglio delleconomia meridionale è la prima condizione
per una ripresa italiana, visto che ha margini di crescita di gran
lunga superiori al resto del Paese. Le energie ci sono, come dimostra
la battaglia coraggiosa degli imprenditori siciliani contro il pizzo.
Il problema è lattenzione della classe dirigente nazionale,
che di questo tema non parla volentieri, forse proprio perché
rappresenta una delle sue sconfitte più brucianti.
E in effetti, avendo sottocchio la situazione di questi nostri
tempi, fa una certa impressione rammentare le meraviglie promesse
dal meridionalismo di qualche anno fa. Qualcuno ricorda la carovana
di imprenditori che avrebbero dovuto darsi manforte per portare
lo sviluppo nelle regioni meridionali? Per spianare la strada è
stata messa in campo una sventagliata di agevolazioni mai conosciuta
nel passato: contratti darea, patti territoriali, contratti
di programma, finanziamenti a fondo perduto
Sono trascorsi
dieci anni, e la carovana si è perduta nel deserto.
Lo rivela anche la statistica sul tasso di sopravvivenza delle imprese,
che in soli cinque anni, dal 1999 al 2004, è stato di quattro
o cinque punti più basso di quello nazionale in tutti i settori.
Laltra ragione per la quale il tema non sfonda, sembra essere
la scarsa disponibilità della politica a mettere in cantiere
interventi di lungo periodo. Per uscire dalla stagnazione di questi
anni sostengono i responsabili di Unioncamere è
necessario puntare sulle grandi infrastrutture e sulla tutela della
legalità, i due grandi handicap che bloccano storicamente
il Sud. Ma una cosa e laltra richiedono politiche di lungo
periodo, i cui risultati si vedono in termini di anni. Nel frattempo
si può solo sperare che la società meridionale riesca
a ritrovare una propria dimensione creativa e cominci a fare la
sua parte, senza continuare ad aspettarsi troppo dalla politica
nazionale. Alcuni segnali positivi in questo senso sarebbero visibili,
secondo il parere del sociologo Aldo Bonomi, che nel 1998 scrisse
il Manifesto dello sviluppo locale insieme con Giuseppe De Rita,
e che poco tempo fa ha battuto il Sud palmo a palmo, in una grande
immersione nelleconomia meridionale. Bonomi sostiene di aver
visto anche realtà promettenti. Ma per capirle precisa
bisogna imparare a distinguere fra un Mezzogiorno e laltro:
ci sono in Campania, in Basilicata, in Puglia, in Sicilia delle
fasce in cui qualcosa si sta muovendo.
Paradossalmente, secondo i maggiori osservatori contemporanei, è
proprio dal fallimento delle diverse campagne per il
recupero e lo sviluppo delle regioni meridionali che si possono
trarre le basi per un nuovo e diverso inizio. Per
decenni, lintero Sud ha sperato nel grande sviluppo proveniente
dallalto: prima il modello fordista, poi quello
dei parchi tecnologici, i patti territoriali e il turismo, e infine
lidea, più recente di tutte, della piattaforma logistica
in mezzo al Mediterraneo. Nessuno ha avuto successo, ma tutti hanno
lasciato qualcosa. E soprattutto hanno fatto capire alla gente che
lo sviluppo economico verrà dalle iniziative del Sud, più
che dal centro, cioè dallo Stato nazionale.

Per vincere la scommessa, tuttavia, non bastano le iniziative degli
imprenditori. È necessario che anche la politica locale cominci
a fare la sua parte. E qui i segnali non sembrano troppo incoraggianti.
Basti pensare a come vanno le cose nella celeberrima Etna
Valley, fiore allocchiello della più importante
area di sviluppo industriale della Sicilia. Nella piana a sud di
Catania sono concentrate più di 400 aziende, molte delle
quali di alta tecnologia. Ma ci sono imprenditori per i quali lEtna
Valley è una sorta di calvario, dal quale un giorno sì
e uno no sognano di fuggire.
Infatti, basta un temporale ad allagare la zona. Il che significa
che bisogna chiamare la Protezione Civile per uscire dagli uffici.
Per non parlare delle continue interruzioni di acqua e di elettricità.
Nel resto dEuropa hanno problemi del genere? Neanche in quelle
che un giorno erano considerate aree depresse in Inghilterra, in
Germania, in Francia, nella Penisola Iberica e in quella Greca.
Perché, allora, persistono nel Mezzogiorno dItalia?
Intanto, per lanchilosi progettuale che ha sempre penalizzato
il Sud. Poi, per le scelte territoriali: quella era una zona paludosa,
si chiama Pantano dArci, e gli antichi non sbagliavano quando
attribuivano i nomi.
Secondo leconomista Mario Deaglio, è unItalia
che «si scolla», in cui ciascuna parte va per conto
proprio: difficile credere che si tratti di un programma politico,
piuttosto è una constatazione sullandamento economico
del Paese: «Dopo un periodo di diminuzione, i divari sono
aumentati e, comunque misurata, su un arco di tempo ragionevolmente
lungo, la crescita delle regioni e delle province del Nord e del
Centro risulta sensibilmente superiore a quella del Mezzogiorno
(con leccezione di alcune isole felici)».
Di conseguenza, anche da quel che risulta da un recente studio della
Fondazione Edison, si assiste al paradosso che, nella classifica
del prodotto interno per abitante un indicatore molto rozzo,
ma sostanzialmente efficace, dei confronti internazionali di prosperità
allinterno dellUnione europea lo Stivale annovera
nello stesso tempo alcune tra le regioni di vertice e alcune tra
le regioni di assoluta retroguardia.

Province come Milano, Biella, Modena, Bologna, per citarne solo
alcune, sono ai vertici europei dei consumi individuali, del reddito
disponibile alle famiglie e, più in generale, della qualità
della vita; consumi e reddito disponibile per abitante risultano
sensibilmente inferiori alla media europea in province come Caserta,
Caltanissetta o Crotone, nelle quali, inoltre, lambiente è
spesso più offeso, deturpato o maggiormente inquinato.
Oltre che povere, molte parti del Sud risultano anche assai poco
dinamiche: alcuni dei nuovi Stati membri dellUe, come la Slovenia
e lUngheria, sono sul punto di sorpassarle. Il divario Nord-Sud
sta tornando a crescere in maniera preoccupante anche per questo,
con un motivo di allarme forse maggiore derivato dal fatto che,
dopo aver dominato per decenni la politica italiana, la Questione
meridionale non sembra più interessare nessuno a livello
politico. Al di là di qualche rituale riferimento nei programmi,
le forze politiche non sembrano più animate da alcuna vera
volontà di cambiare le cose, né, daltra parte,
sono emerse idee nuove per affrontare questo problema, evitando
i fallimenti del passato.
Nel frattempo, i processi redistributivi del reddito dal ricco Nord
al povero Sud si sono fortemente ridotti per la crescente opposizione
dellopinione pubblica settentrionale a un trasferimento di
risorse che non basta a mettere in moto la crescita meridionale,
per le difficoltà in cui versano i bilanci pubblici, per
lattenuarsi delle rimesse dei lavoratori meridionali emigrati
al Nord.
Al tempo delle grandi migrazioni dal Sud al Nord, negli anni Cinquanta
e Sessanta, il divario produttivo era infatti accettato e spontaneamente
compensato, in larga misura, dalle rimesse che i meridionali emigrati
nel Triangolo industriale Milano-Torino-Genova rimandavano
alle famiglie rimaste nei luoghi dorigine; negli anni Settanta
e Ottanta si cercò vigorosamente di colmarlo con la costruzione
di grandi infrastrutture e di grandi poli industriali, in campo
chimico, petrolifero, siderurgico e automobilistico. Qualche risultato
venne ottenuto, sia pure in mezzo a molti errori e a prezzo assai
alto. Ma, con il rallentamento delleconomia italiana negli
anni Novanta, il Sud ha frenato più del Nord, e i progressi
là dove erano stati sia pure relativamente conseguiti
vennero cancellati, con la sola eccezione di alcune regioni
del Centro (lAbruzzo, per esempio) che erano riuscite ad agganciarsi
in qualche modo al Nord.
(Da non dimenticare, tuttavia, le polemiche meridionaliste per il
tipo di sviluppo impostato per il Sud: si parlò del Nord
che, fingendo trasferimenti industriali al Sud, si era praticamente
liberato di imprese ormai obsolete; di aziende come la petrolifera
altamente inquinanti; di poli industriali come quello
siderurgico destinati al tramonto. In altri termini, si avanzò
la più che legittima suspicione che il Nord avesse rinnovato
tanti impianti produttivi, trasferendo a Sud quelli tecnologicamente
superati e appropriandosi così della parte più cospicua
dei finanziamenti a fondo perduto e dei finanziamenti agevolati
nominalmente a favore del Mezzogiorno. Ed è, questa, una
polemica che si è, se non del tutto spenta, quanto meno sopita,
per stanchezza e logoramento delle stesse forze critiche meridionali).
Più ancora del fenomeno quantitativo del distacco
sostiene ancora il professor Deaglio preoccupa laspetto
qualitativo del distacco crescente che separa il Mezzogiorno dal
resto del Paese. Resta ancora più basso lindice di
lettura, le università sono più affollate e fanno
maggiore fatica a rispondere alle domande di uneducazione
moderna, la ricerca vi è quasi assente; negli ultimi ventanni
il Mezzogiorno ha perduto molti dei suoi cervelli migliori, emigrati
al Nord o al Centro; molte regioni meridionali fanno registrare
risultati nettamente negativi nei test internazionali dellistruzione
secondaria, mentre nelle università del Sud (in alcune delle
quali si è dispiegato un persistente e impunito amoral familism)
la ricerca è molto difficile. Queste magagne non si curano
semplicemente con lelargizione di contributi o con la costruzione
di qualche strada, come purtroppo pensa ancora oggi la gran parte
dei politici, meridionali compresi.
Esplicito lex presidente di Confindustria, Antonio DAmato:
«Il Sud sprofonda? Cè poco da sorprendersi. È
la cronaca di una morte annunciata e di cui, in realtà, nessuno
si cura se non alla vigilia di tornate elettorali». E tanto
per chiarire: «Mezzogiorno, una battaglia persa? Non lo ammetterò
mai, piuttosto cominciamo a combattere. Io sono un figlio del Sud
e lo considero pieno di opportunità. Stiamo seduti su un
enorme giacimento petrolifero e invece di tirare fuori il greggio
continuiamo a imbrattarci e basta. Ma io continuo a mantenere nel
Mezzogiorno i centri decisionali della mia azienda». Lazienda
dellimprenditore cartotecnico partenopeo oggi esporta nel
mondo il 70 per cento della produzione e possiede stabilimenti in
Gran Bretagna, in Portogallo e in Germania.
Dice DAmato: «Fare impresa al Sud è difficile
ma non impossibile. Il problema è che la presenza di imprese
sane non basta a rilanciare il Mezzogiorno. Bisogna intervenire
con politiche strutturali, per assicurare lordine pubblico,
rilanciare le infrastrutture, utilizzare bene i fondi comunitari,
assicurare la vivibilità nelle città. Sono problemi
antichi, ma sempre attuali». Il Sud, peraltro, può
essere un grande acceleratore, ma anche un potente freno per lintero
Paese. Inoltre, è una sorta di lente dingrandimento,
un anticipatore rispetto ai trend nazionali. Quel che accade al
Sud, prima o poi si verifica nella Penisola: «Questa è
la verità, bisogna che il nostro Meridione esprima un suo
protagonismo progettuale, politico e imprenditoriale».
Per quel che riguarda le amministrazioni locali, continuano a pesare
su di loro tre gravosi problemi: la stratificazione di vecchie questioni,
talmente pesante da richiedere una ristrutturazione straordinaria,
come nel caso della sanità, che ha una spesa enorme e di
pessima qualità; lincapacità di valorizzare
le vocazioni territoriali, come nel caso del turismo; la necessità
di un radicale ricambio di classe dirigente, in grado di progettare
e controllare tutti i flussi economici che arrivano a Sud.
In questo quadro, si deve prendere atto che le Regioni non sono
in grado di gestire queste risorse. Ogni volta che le decisioni
si prendono a livello locale, aumentano larbitrarietà
e lirregolarità. Non per niente la Spagna, che è
un modello di spesa, decide e controlla centralmente e poi spende
localmente. Da noi accade il contrario, e ogni volta ci ritroviamo
a piangere sul latte versato. Il riferimento è soprattutto
ai 100 miliardi di euro di fondi Ue che nei prossimi sette anni
si riverseranno nelle regioni meridionali. Si ha paura che possano
rappresentare lennesima occasione sprecata. Sicché
serve un ripensamento del meccanismo di spesa, anche perché
sono anni che ripetiamo gli stessi (interessati?) errori. Fra laltro,
inseguiamo la chimera di un federalismo a tutti i costi che non
ha mai dato frutti: «Dagli anni Settanta ad oggi abbiamo misurato
lincapacità delle Regioni di risolvere i problemi localmente.
Altro che federalismo fiscale. Bisognerebbe fare marcia indietro».
Non è che gli imprenditori del Sud siano esenti da colpe,
in modo particolare quelli che hanno costantemente la mano tesa,
per ottenere incentivi e denaro pubblico. Costoro, comunque, in
un mercato globale e fortemente competitivo, saranno sicuramente
spazzati via. Ma che cosa accade a quelli che vogliono rischiare
e investire? Li si spaventa. Allora, chi vuole investire in un Paese
nel quale si pagano le tasse più alte del mondo, dove non
cè certezza del diritto? In un Paese che aumenta la
spesa pubblica, stabilizza i precari e vara leggi che accrescono
il numero dei pensionati giovani? Come si fa, in queste condizioni,
a pretendere di attrarre capitali dallestero?
La vera partita per il Sud si gioca nel rilanciare la competitività
complessiva del Paese, ma partendo dalla carta migliore: la centralità
del Mediterraneo. Siamo in una posizione strategica, non possiamo
accontentarci di fare lhub di passaggio. Puntiamo in alto,
per non morire.
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