Settembre 2008

Mondo delle piccole e medie imprese

Indietro
Il Sud che va
Monica Marano - Carla Stagno - Giulio Faretti
 
 

 

 

 

Allora, dove sta
il Mezzogiorno che non ti aspetti? Ovunque: in quelle stesse regioni
dove purtroppo
restano irrisolte le più gravi anomalie del Paese.

 

La metafora è eloquente: il Sud è come un’auto da corsa nuova e scintillante, ma costretta a gareggiare con il motore imballato su strade piene di ostacoli. Questa è la condizione in cui operano molte piccole e medie imprese del Mezzogiorno: società anche giovani, dinamiche e spesso proiettate verso i mercati internazionali, ma penalizzate dal fatto di operare in un contesto reso vischioso dall’emergenza continua.
Nonostante anni di rincorsa, infatti, allo stato delle cose l’industria del Sud ha ancora il fiato corto: se da un lato continua a soffrire il gap di sviluppo e di capitali nei confronti delle grandi imprese del Nord, dall’altro non riesce nemmeno a “monetizzare” la sua condizione di svantaggio, come accade per altre analoghe aree del resto d’Europa, per offrire costi competitivi e per attrarre in questo modo maggiori investimenti.
Il risultato è pesante: se le cinque regioni meridionali (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia; il Molise e l’Abruzzo essendo ormai considerate regioni dell’Italia centrale) fossero uno Stato autonomo, sarebbero di gran lunga il più povero dell’area euro, tallonato da vicino persino dalla Macedonia e dal Montenegro. I problemi sono quelli che sono stati alla base della vecchia “questione”: infrastrutture insufficienti (al Mezzogiorno finisce soltanto il 31,3 per cento degli investimenti, e i cantieri continuano ad essere i più lenti d’Europa), amministrazioni locali farraginose, micro-imprese sottocapitalizzate, illegalità diffusa e condizionante. Ma specularmente, come spesso accade, le grandi emergenze spesso nascondono anche grandi opportunità per gli imprenditori più disposti a rischiare: e in questi anni ce ne sono stati molti. Sono i numeri a confermarlo: le piccole imprese del Sud rappresentano solo l’8 per cento del totale italiano – osservano alla Svimez – ma negli ultimi due anni sono cresciute di più rispetto alla media.

Svimez ha presentato a luglio il dossier “Sud 2008”: per le regioni meridionali nel loro complesso – vi si legge – il saldo d’impresa è attivo, produttività e margini crescono, con fusioni e crediti all’export. È vero, restano ancora molte incognite: il Pil, ad esempio, dipende troppo da settori maturi come l’agroalimentare, la siderurgia o la piccola manifattura; gli investimenti esteri latitano e le stesse condizioni ambientali sono quelle che sono.
Ma è emersa una vitalità che negli anni precedenti non si vedeva. Paradossalmente, questo nuovo corso inaugurato da tantissimi piccoli imprenditori è figlio dei disastri ereditati dalla gestione dell’emergenza-Sud. Si è cioè convinti che il flop dell’industrializzazione di Stato non abbia lasciato qui soltanto cattedrali nel deserto, di montanelliana memoria, ma anche un buon indotto di aziende tecnologiche.
La crisi della manifattura tradizionale ha dato vita a distretti e a reti d’impresa dinamici. E la sensazione di essere un corpo estraneo rispetto al ricco Nord ha portato alla riscoperta e alla valorizzazione del territorio, per esempio sul fronte turistico, del patrimonio storico e artistico e su quello dei prodotti enogastronomici.
Nate da qui, da questa cultura del tutto nuova, piccole e a volte piccolissime imprese, che spaziano dall’hi-tech al tessile, dall’agricoltura ai servizi; spesso fondate da giovani i quali, per inseguire un sogno di business, hanno abbandonato posti di lavoro ben più sicuri e remunerati, senza stare troppo a riflettere sui ritardi abissali della Salerno-Reggio Calabria, sulla burocrazia asfissiante o sulla paura che prima o poi qualcuno bussi alla porta per reclamare il pizzo. E sono proprio queste storie a dimostrare che un altro Sud è davvero possibile.
Allora, dove sta il Mezzogiorno che non ti aspetti? Ovunque, si potrebbe rispondere: in quelle stesse regioni dove purtroppo restano irrisolte le più gravi anomalie del Paese. Una presenza letale della malavita diffusa e dei cartelli del crimine, una povertà terzomondista delle infrastrutture, una classe dirigente spesso opaca e autoreferenziale.
Certo: il Mezzogiorno che funziona in economia, come persino in politica, lo si deve andare a cercare. Perché non è facile trovarlo sui giornali che grondano di notizie di cronaca nera e di emergenze, dalla spazzatura che non è un problema soltanto di Napoli alla disoccupazione giovanile, che non è soltanto presente nelle cinque regioni considerate, ma anche del Molise e dell’Abruzzo, oltre che dell’area laziale un giorno compresa nel territorio di competenza della Cassa per il Mezzogiorno, e della Sardegna; giornali che in alcuni casi cedono alla tentazione di non cercare (o di non parlare per ragioni non proprio misteriose) e valorizzare quanto esiste di buono, persino di eccellente, nel Sud “a macchia di leopardo”, (o “a macchia di Gattopardo”, se proprio volessimo pensare all’espressione centrale, folgorante, del romanzo di Tomasi di Lampedusa, con il suo ammonimento sul cambiamento, necessario perché nulla debba cambiare).

Una pioggia di denaro, 100 miliardi di euro tra fondi europei e nazionali, continuerà a bagnare fino al 2013 zone costiere e zone interne del Sud. Cioè: i soldi ci sono. E non è vero che nel passato, anche recente, ne sono stati spesi in abbondanza tra sprechi, corruzione e clientele. Negli ultimi anni si è consolidato un tessuto di piccole imprese, con buoni margini di profitto e anche con nuove opportunità di lavoro per quelle generazioni che vogliono uscire dal pozzo senza fondo dell’assistenzialismo e del cosiddetto impiego socialmente utile, che nella maggior parte dei casi è del tutto inutile. Ovunque sono nate nuove e interessanti aziende, proiettate sui mercati internazionali, nelle nuove tecnologie, nella meccanica, nei servizi, nelle fonti di energia alternativa, dall’eolico al solare. Brilla un artigianato di qualità, quindi meno esposto al vento di una pesante recessione mondiale: sartoria, oreficeria, prodotti locali. Moda e design, imprese che riescono a fare persino la necessaria massa critica in termini di fatturato e di ammortamento dei costi, attraverso un associazionismo commerciale che lascia ben sperare per il futuro.
Si tenga conto poi che gli impieghi delle banche alle piccole imprese hanno segnato un incremento del 14 per cento nel Sud, contro il 12 per cento italiano; e che tra le venti province con tassi di crescita più elevati, undici sono del Mezzogiorno. In parallelo, scende il divario tra Centro-Nord e Sud in termini di qualità del credito, e per le banche questo è un invito ad essere sempre più propositive, con un’offerta più specializzata.
Lo stesso turismo, la principale opportunità sprecata del Sud per mancanza di un progetto generale di iniziative coordinate, ha finalmente fatto significativi passi avanti: ormai in tutte le regioni del Mezzogiorno si scoprono in attività strutture ricettive, piccole e medie, che sono autentici gioielli dell’industria del tempo libero.

Dunque: che cosa serve, urgentemente? Di sicuro, un uso accorto, mirato e trasparente dei fondi pubblici per la rete infrastrutturale, dove fatto 100 l’indice di dotazione nazionale, nel Mezzogiorno si raggiunge appena un valore di 51,8. Di sicuro, una presenza dello Stato intransigente per contrastare la malavita organizzata, che ogni anno fattura i suoi 75 miliardi di euro (il dato, approssimato per difetto, è della Confesercenti). Di sicuro, una politica degna di questo nome e della sua funzione al servizio della collettività e non del familismo meridionale.
Ma serve anche – e qui ci si rivolge agli imprenditori – uno scatto in avanti sul piano della responsabilità e della consapevolezza dei diritti-doveri. Chiunque faccia con rigore e con passione il mestiere di imprenditore nel Sud, rischiando faccia, soldi, e qualche volta anche la pelle, merita una medaglia al valore civile. Ma è fondamentale, a questo punto, capire per esempio che qualsiasi zona grigia, a cavallo tra economia, pubblica amministrazione e malavita, va asciugata con la massima fermezza. Come hanno fatto in Sicilia con la Confindustria di Ivan Lo Bello, e come ha provato a fare in Calabria l’ottimo Filippo Callipo. A volte ci sono gesti, azioni, che valgono molto più di una semplice testimonianza: possono mettere in moto processi virtuosi, e cambiare in questo modo il destino di un luogo.

La responsabilità, per gli imprenditori che giocano la loro partita non abbandonando il Sud alla sua deriva, significa anche fare “reti larghe e lunghe”: in termini di sistema, di mercati e di alleanze sul territorio. E significa assumere ruoli da classe dirigente, cercando anche di non avvitarsi nel solipsismo meridionale, nei giochi proibiti di interdizioni a catena, nelle porte chiuse ai giovani più intraprendenti.
Perché ci sono battaglie che non si possono giocare in solitudine, e che diventano perse in partenza quando si pensa di delegare ad altri, magari per opportunismo, i ruoli centrali della vita pubblica. La scommessa per un Sud meno a macchia di leopardo (e di Gattopardo) e più contiguo alla normalità dei Paesi sviluppati e civili appartiene a questa categoria di battaglie per lo sviluppo e per la modernizzazione.

La rivoluzione culturale che va prendendo piede, faticosamente ma inesorabilmente, nel Mezzogiorno ha un principio teorico fondamentale, secondo il quale l’innovazione si addice a tutte le latitudini, senza alcuna eccezione. Noi abbiamo dibattuto per secoli sulle determinanti dello sviluppo, a far data ufficiale dalla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, individuando tra esse il libero mercato, il basso costo del lavoro, la distribuzione del reddito o la domanda aggregata. Ogni spiegazione finiva con l’arenarsi sulla spiaggia della realtà: il libero mercato è una figura teorica; il basso costo del lavoro non dura, né stimola le imprese a fare meglio; la distribuzione del reddito senza crescita scoraggia l’intrapresa e non appaga mai i beneficiari, e lo stimolo della domanda aggregata porta inflazione, se l’offerta non segue. E l’offerta non segue se le condizioni generali del sistema non inducono le imprese a investire e a produrre di più. Un pesce sano non vive certamente nell’acqua inquinata.

Oggi l’attenzione degli studiosi e degli operatori è concentrata sulla produttività, considerata la variabile centrale della competizione, e, di conseguenza, dello sviluppo. Il veicolo naturale della produttività è l’investimento, che consente di utilizzare macchine e metodi sempre più sofisticati e ormai anche appositamente studiati per accrescere il prodotto per occupato.
La scelta delle tecnologie che meglio consentono di competere sul mercato globale è un diritto e un dovere dell’imprenditore, ma se il sistema politico (economico e sociale) che lo circonda non è favorevole all’intrapresa produttiva, le scelte innovative non verranno mai attuate, la produttività resterà bassa e la società scivolerà sempre più nel degrado.
In queste condizioni, le invidie e gli odii di classe si accentuano, si invoca e di ottiene sempre più redistribuzione del reddito, e si alimentano crescenti illusioni che con le tasse e l’assistenza si possa ottenere ciò che invece si ottiene soltanto con aumenti di produttività. In breve, il problema nasce economico e finisce con il divenire sociale. Il mercato globale e lo sviluppo dei Paesi emergenti erano stati percepiti dalle imprese italiane come un pericolo al loro sviluppo: ora hanno capito che essi offrono opportunità, se le si sanno cogliere.
Inizialmente, si riteneva che fosse necessaria la grande dimensione per competere in campo internazionale; ora si scopre che la media dimensione è quella che ha reagito meglio e che ha conquistato nuovi spazi di mercato. Ma anche la piccola impresa comincia a capire l’importanza dell’innovazione e della presenza globale, dopo aver lanciato i propri marchi di fabbrica (il Made in Italy, una forma legittima di protezionismo legato alla qualità dei prodotti) e avere sviluppato i distretti industriali (simulando i vantaggi delle grandi dimensioni). Questo è il motivo per cui l’attenzione va rivolta quasi esclusivamente alle idee innovative, che hanno consentito, o che consentiranno a queste imprese una presenza internazionale. Sono tutte, ancora una volta, storia di successo del nostro Paese.
Ma la soluzione che questi imprenditori hanno dato ai problemi economici lascia un’eredità sociale non facile da trattare: il reddito interno ristagna e l’occupazione non cresce, soprattutto tra i giovani del Mezzogiorno; l’inflazione erode il potere di acquisto salariale e i risparmi faticosamente accumulati; i conti pubblici sono sempre in affanno e l’imposizione fiscale diventa il solito, opprimente rimedio.
Le autorità fanno a gara nel denunciare questi rischi, ma non si capisce chi, secondo loro, debba affrontarli. Quando un collaboratore gli sollevava un problema, Guido Carli bloccava la presentazione sul nascere: «Mi porti una soluzione», diceva, «perché i problemi so sollevarli anch’io».

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2008