Settembre 2008

Emittenza radiotelevisiva

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L’anomalia italiana
Filippo Cucuccio
 
 

 

 

 

E che dire di un servizio pubblico radiotelevisivo
che continua ad essere finanziato con i due canali del canone e della pubblicità?

 

Sarà sicuramente uno dei “temi caldi” di questa legislatura e non solo per la dimensione economica nazionale ad esso legata. Il tema della disciplina dell’emittenza radiotelevisiva costituisce, infatti, dalla sua origine sia un terreno di scontri accesi tra le diverse parti politiche, sia soprattutto il luogo ideale in cui si intersecano aspetti normativi, economici e tecnologici di particolare complessità. È sufficiente, in realtà, ricordare sia pure sinteticamente le diverse tappe attraverso cui è passata la normativa italiana per rendersi facilmente conto di questa complessità. Leggi di sistema (come la legge Mammì del 1990, la legge Maccanico del 1997, fino al più recente Testo Unico successivo alla legge Gasparri del 2004) non hanno in effetti risolto i nodi che, per una parte degli studiosi italiani e non, fanno dell’emittenza radiotelevisiva un’anomalia nazionale.
Andando per ordine nella ricostruzione di questa vicenda, c’è subito da sottolineare il primo punto sulla presenza determinante dell’innovazione tecnologica che sia nel campo delle telecomunicazioni che in quello più specifico della radiotelevisione ha nei fatti sbaragliato la situazione iniziale di monopolio dettato da ragioni naturali (l’etere non è infatti una risorsa illimitata!) oltreché economiche (gli investimenti richiesti inizialmente erano particolarmente cospicui). Un’innovazione tecnologica che – è bene ricordarlo – negli ultimi anni ha favorito il processo di convergenza tecnologica con cui si è frantumato il tradizionale rapporto univoco mezzo di trasmissione-tipo di prodotto, vero caposaldo di questa materia.

Secondo punto. Balza agli occhi la diversa velocità con cui si sono mossi il legislatore ordinario e la Corte Costituzionale, svolgendo la seconda un prezioso ruolo di guida nel prendere consapevolezza dei mutamenti tecnologici e dei suoi riflessi sul piano normativo. Non si è trattato solo di un ruolo di indirizzo, ma soprattutto di impulso nei confronti del legislatore ordinario a dettare regole coerenti con le nuove frontiere tecnologiche (su questo aspetto vi sono cenni significativi nell’intervista al professore Cheli). E qui non possono passare inosservate una sorta di discutibile inerzia del legislatore ordinario, né una forma di resistenza passiva, dissimulata sotto la scelta della provvisorietà e della transitorietà per evitare di prendere posizione in modo netto su questioni in cui gli interessi economici e la libertà di iniziativa privata avevano acquisito delle formidabili posizioni di vantaggio.

Un terzo punto che non sfugge all’osservazione è l’interazione tra i due livelli di legislazione, nazionale e comunitario, e la conseguente necessità di adeguamento del primo al secondo. Anche su questo versante non sono mancate le criticità, come ricorda nella sua intervista la professoressa Cappello, segnatamente nei casi della pubblicità televisiva e della gestione delle frequenze. Proprio su quest’ultimo aspetto non può non evidenziarsi una divergenza sostanziale con la Direttiva comunitaria delle autorizzazioni (Dir. 2002/21), che in tema di procedure per l’assegnazione delle frequenze alle imprese richiede l’applicazione di criteri pubblici, obiettivi, non discriminatori e trasparenti, delineando uno scenario in cui non sono certamente ben viste né l’occupazione di fatto delle frequenze, né la conseguente assenza di situazioni di titolarità giuridica.

Non c’è, poi, da trascurare un quarto punto aperto dalla rivisitazione nel 2001 dell’articolo 117 della Carta Costituzionale, laddove tra le competenze assegnate alle Regioni sul piano di legislazione concorrente con quella statuale figura l’ordinamento della comunicazione. Regioni che sono oggetto di considerazione particolare anche nell’ottica del regulator, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, in quanto delegatarie di specifiche funzioni attraverso i Co.Re.Com (Comitati Regionali per le Comunicazioni).

Ma i punti delicati della situazione italiana dell’emittenza radiotelevisiva non si esauriscono qui. Aree di problematicità legate alla vigente normativa non mancano quando, ad esempio, si affronta il tema dei limiti imposti allo stesso fornitore di contenuti, mettendo in un unico contenitore programmi diffusi su rete analogica e su rete digitale separata; oppure quando si punta il dito sull’assenza di limiti al possesso di reti, tollerando in prospettiva possibili situazioni di oligopolio in netto contrasto con il principio di pluralismo informativo; così come desta perplessità anche la configurazione del SIC (Sistema integrato di comunicazioni), un enorme paniere di prodotti su cui si determina la posizione dominante sul mercato. E che dire, infine, di un servizio pubblico radiotelevisivo che continua ad essere finanziato con i due canali del canone e dei proventi pubblicitari, legittimando di fatto una situazione di ambiguità per la inevitabile soggezione ai criteri dell’audience commerciale in contrapposizione al principio di qualità che dovrebbe essere l’unico suo marchio di distinzione?
Sono tutti interrogativi ai quali si dovrà trovare una risposta adeguata e coerente. Infatti, avviare a soluzione questi nodi in un senso o nell’altro non costituirà per la radiotelevisione italiana solo la premessa per dibattiti appassionati e confronti di visioni diverse sulla cosiddetta “anomalia” italiana, ma la condizione essenziale per continuare un percorso democratico in un’ottica di convergenza europeistica.

 

   
   
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