Settembre 2008

Il corsivo. la caduta dei semidei (intellettuali)

Indietro
La casta nana
Aldo Bello
 
 

 

 

 

L’arte di tacere...
Solo a pensare
a quante parole
girano per
il pianeta in un
singolo momento viene davvero
l’angoscia, sorge un’improvvisa
nostalgia del
silenzio.

 

Arrivato buon ultimo, Eugenio Scalfari sentenziò in un editoriale domenicale: Bassolino e la Jervolino devono dimettersi! E a noi, che di politica qui non ci interessiamo, ma che abbiamo buona memoria dei dati di cronaca, emerse un atroce sospetto: ma non era stata proprio “Repubblica” il principale cantore del cosiddetto “Rinascimento napoletano”, sbocciato proprio quando i due personaggi sopra citati erano stati eletti presidente della Regione, il primo, e sindaco di Napoli l’altra? Un Rinascimento che, ha poi raccontato Ermanno Rea, sul “Corriere della Sera”, «è stato un grande equivoco, fu un momento di euforia, poi deformato da quella parola insulsa: rinascimento. I politici ci hanno marciato. Anche Bassolino».
Già. Ma ci hanno marciato anche gli intellettuali. Lui stesso, per dire, come racconta Fabrizio dell’Orefice, ebbe nel ‘99 un contributo dal Comune per narrare la favola della bonifica di Bagnoli, mai completata, e oggi simbolo della nullafacenza partenopea. Tutto qui? No. «Ora torno in fabbrica, torno alla classe operaia che va in paradiso», annunciava alla fine della torrida estate di quell’anno. Scrisse, invece, un libro, “La dimissione”, pluripremiato. E quattro anni dopo, quando già si aprivano le prime crepe sulla “Napoli rinata”, era tra i fondatori di “Diametro”, un’associazione di fedelissimi di Bassolino, nata per sostenerne l’immagine ormai in via di sbiadimento.

L’opportunista Rea era in buona compagnia. Mario Martone, nel ‘97, aveva dedicato al presidente campano addirittura un episodio, “La salita”, del film “Vesuviani”. Eravamo in piena agiografia filmica, come riferisce Dell’Orefice, visto che l’“opera” usciva a poche settimane dal voto che avrebbe portato l’allora primo cittadino partenopeo al secondo mandato. Il film aveva avuto anche un contributo dalla Rai. Scoppiata la polemica, Martone sosteneva fra l’altro: «Ho il diritto di esprimermi come cittadino e come artista», e aggiungeva: «Mi auguro che Bassolino venga rieletto». E incautamente sottolineava che nell’episodio si parlava «di un uomo, in questo caso un simbolo, che messosi alle spalle le utopie giovanili, si misura con la realtà e i problemi della città». Nel 2006, firmava un appello a favore di un “maestro di strada” (Marco Rossi D’Oria) che recuperava i ragazzi altrimenti destinati alla delinquenza. Incipit dell’appello: «Napoli è in ginocchio».

Chi contrastava il potere? Non il senatore a vita Francesco De Martino («I nodi aperti? La soluzione non dipende dall’amministrazione comunale»); non l’ex deputato diessino, e già elettore monarchico Biagio De Giovanni, secondo il quale se il partito abbandonava Bassolino, «per Napoli sarebbe il sacrificio di un patrimonio che non deve essere buttato via»; né il presidente dell’Istituto per gli Studi Filosofici, Gerardo Marotta, che decise di riaprire il portone principale del Palazzo Serra di Cassano, chiuso da due secoli, precisamente dal giorno in cui (il 20 agosto 1799) il figlio del proprietario, Gennaro, patriota repubblicano, lo aveva varcato per andare al patibolo. Era il 25 aprile 1995, quando venne deviata la storia per celebrare i fasti del “grande sindaco” napoletano. Il quale, parlando ai colti e alle inclite, non mancò di ricordare i partigiani del ‘44, e con gran solennità annunciò che il 20 agosto 1999 avrebbe rappresentato la vera ricorrenza, perché si realizzava «la nuova data». Il Rinascimento napoletano doveva nascere quel mattino. Oggi, a poco meno di dieci anni di distanza, dopo le immagini di Napoli soffocata dalle immondizie, ripulita dagli avversari politici, e defraudata dall’incapacità di gestione e da quella che lo stesso De Giovanni ha definito «una deriva monocratica» che ha creato «un sistema che per nutrirsi aveva bisogno di consenso e di separarsi dalle forze vitali della città», nessuno parla più di Rinascimenti né tira in ballo altre retoriche immagini e servili espressioni. Tutti, anzi, ne disconoscono la paternità.

Abbiamo detto di Napoli, e lo ribadiamo, non per gli aspetti politici, anche se proprio la politica di più bassa lega ha ridotto quella che fu la capitale europea del Settecento a un mosaico di corti dei miracoli; né per il versante igienico-sanitario, che ha trasformato in una maleodorante discarica questa città che, prima al mondo, nel 1832, con un’ordinanza della Prefettura di polizia borbonica, vedeva regolamentati nei dettagli “spazzamento ed innaffiamento” delle strade, compresa una raccolta differenziata del vetro; ma come esempio della piaggeria degli intellettuali nostrani, sempre organici al potere, e come emblema di uno zelo a traiettoria variabile, in grado di garantire la sopravvivenza in ogni circostanza e in qualunque mutazione della storia. È vero che – come scriveva Manzoni – se uno il coraggio non ce l’ha, non può darselo, soprattutto oggi, mentre dilagano sugli schermi della Tv e fra le pagine dei libri volgarità e violenze che dovrebbero far arrossire ogni persona perbene. Ed è altrettanto vero, di conseguenza, che il confronto con il passato, anche recente, è perdente.
Nel Novecento, sfigurato dal doppio totalitarismo stalinista e nazifascista, in Russia, in Italia, in Germania, poi in tutta Europa, tranne che nell’indomabile Gran Bretagna di Churchill, il destino degli scrittori coraggiosi è stato il silenzio, l’esilio, la morte. García Lorca fu assassinato nei primi giorni della guerra civile spagnola. Cesare Pavese, Carlo Levi, Leone Ginzburg finirono al confino. Thomas Mann, Nobel 1929 per la letteratura, trovò rifugio negli Stati Uniti. Poeti e narratori russi sono sistematicamente svaniti nei viaggi senza ritorno verso i gulag.
Il secondo Novecento non è stato da meno. In Cina, in Indonesia, in Cambogia, in Cile, in Argentina, nell’Est europeo incluso nella Cortina di Ferro, la persecuzione non ha conosciuto soluzioni di continuità. Poi è sopraggiunto anche il fanatismo di matrice islamica, cominciato con le stragi algerine e proseguito con la caccia ai giornalisti e agli scrittori – soprattutto donne – che continuano a battersi per i diritti della persona. In Russia è caduto il comunismo, ma chi critica il potere non si processa, si uccide: Anna Politkovskaja è assassinata sul portone di casa. Intanto, una fatwa islamica reclama la morte di Salman Rushdie e dei traduttori dei suoi “Versetti satanici”, mentre il Nobel turco Orhan Pamuk deve cercare riparo in America.
Nel microcosmo della narrativa italiana contemporanea, l’impegno civile trova un’eco profonda quanto rara in Roberto Saviano, costretto a vivere blindato per via del suo “Gomorra”. L’immenso prestigio di cui gode per la sua professionalità consente a Enzo Bettiza di sostenere a ragione che il Sessantotto fu rivoluzione mancata ovunque, tranne che nella Praga invasa dai carri armati del Patto di Varsavia. Altro caso a parte (ma sulla scorta della grande lezione storica revisionista di Renzo De Felice), quello di Giampaolo Pansa, la cui urticante immaginazione satirica è dispiegata nel vasto bestiario storico-politico che affolla le oltre 500 pagine dei “Gendarmi della memoria”, gli implacabili personaggi che hanno imprigionato la verità sulla guerra civile italiana. Sullo sfondo del testo, ancora un sequel del “Sangue dei vinti” sulla tragedia della “resa dei conti”, mentre in primo piano emergono le traversie ideologiche e politiche subite dal suo libro precedente, “La grande bugia”.

I gendarmi sono personaggi dai nomi strambi, e tuttavia facilmente individuabili: il “Pelatone”, cioè Marco Rizzo, star Tv del Pdci; il “Professor Basta”, vale a dire Angelo D’Orsi, cattedratico a Torino molto di sinistra e firma frequente sulla “Stampa”; il “Signor Ghigliottina” è Sergio Luzzatto, storico prediletto del nuovo corso del “Corriere della Sera”; il “Cosacco” è Bruno Gravagnuolo, barometro culturale dell’ “Unità”; già “Parolaio Rosso”, Fausto Bertinotti è diventato “Parolaio Revisionista” perché condannato dal Pelatone per aver preso parte a un dibattito con i giovani di AN; il ruolo di “Tartufone”, alla maniera di Molière, è assegnato d’ufficio al “distinto” Corrado Augias, gran cerimoniere della Posta della “Repubblica”; e “l’Uomo di Cuneo” è Giorgio Bocca, nel ruolo di intramontabile testa di turco di tutte le polemiche intorno alla sacralità ideologica della Resistenza...
Risvolto della saggistica storica “narrata”, quelle che Sandra Petrignani ha definito «le penne della vanità»: Vincenzo Cerami, Umberto Eco, Roberto Cotroneo, Roberto Alajmo, Rosetta Loy, Marco Lodoli, Lidia Ravera, Dario Franceschini, Walter Veltroni e alcuni scrittori della sua generazione, come Giorgio Van Straten, Sandro Veronesi, Ugo Ricciarelli; tutti personaggi che, in concomitanza con l’avvento del nuovo Partito democratico, hanno dato luogo a un rigurgito di qualcosa che sembrava archiviato: «Chiamatelo impegno, engagement, partecipazione...». Lodoli esprime «il desiderio di ritrovare un’anima collettiva, qualcosa che superi il narcisismo infelice di questi ultimi anni, che agguanti l’individuo e lo costringa a scavalcare le sue private malinconie, quelle transenne arrugginite...». Mentre per Veronesi la parte che compete agli scrittori è idealistica: «Ma bisogna essere idealisti con competenza, se si vuole prefigurare un futuro in cui si risolvano le emergenze che bloccano il Paese e si delinei una società basata su un rapporto con le cose non consumistico». Per lui, negli scenari che dipinge, sia pure nel contesto dell’eterno avvenire in cui si rintana il sole del riscatto del genere umano, il riciclo è un business, e le pale eoliche sono persino belle.
E fin qui, nulla da eccepire. Ma poi dice anche che i treni dovranno arrivare in orario, e questo – sul piano idealistico quanto su quello ideologico – non glielo possiamo consentire: è stato detto da qualcun altro, che i treni li faceva arrivare davvero in perfetto orario, utilizzando i macchinisti ferrovieri, e non gli scrittori, che sono sempre stati in ben altre faccende affaccendati.

Frase letta su un muro di Palermo, alla fine dello scorso secolo-millennio: «Dopo il gelo degli anni di piombo, teniamoci il calduccio di questi anni di merda». Chi è che si intossica in questo “tepore”? Quelli che hanno un po’ meno di trent’anni, essendo nati dopo l’80, e che del terrorismo, di Milano da bere e di Tangentopoli hanno solo sentito parlare. Quelli che sono cresciuti con il mito di Falcone e Borsellino, fatti fuori dalla mafia, ma che li hanno visti all’opera soltanto nelle fiction televisive. Quelli che si sono formati negli anni Novanta, quando l’edonismo reaganiano non era più la sfaccettatura di un mondo in guerra, ma uno stile di vita accettato e perseguito. Quelli che avevano notizie sulla guerra fredda solo leggendo l’ultimo capitolo dei loro libri di storia.

Li chiamano “della seconda ondata”, per distinguerli dai fratelli maggiori, autori nati negli anni Settanta, che avevano esordito dopo il 2000 con temi più vicini ai luoghi e alla realtà. Con costoro emergono «indecifrabili ossessioni», insieme con una «maggiore presenza della sfera personale». In primis, il corpo con le sue mutazioni: malattie (soprattutto bulimia e anoressia), depressione, maternità, che sostituiscono tossicodipendenze e Aids, temi presenti nelle narrazioni giovani di qualche anno fa. Poi, domina l’infanzia, caratterizzata da adulti che non hanno alcunché da insegnare. Non è un caso che il romanzo archetipo sia “Io non ho paura” di Niccolò Ammaniti. E non manca la scuola: basti pensare a “Ma le stelle quante sono” di Giulia Carcasi, e agli “Alligatori al Parini” del ventunenne Giacomo Cardaci. I riferimenti letterari sono tutti d’oltre-Atlantico: Ian McEwan molto più di Carlo Emilio Gadda e Alberto Moravia.
Ma chi sono questi post-adolescenti? In principio furono Melissa P. e il meno fortunato Andrea Santoianni. Poi sono venuti Mattia Signorini, Martino Gozzi e Gabriele Dadati. Grazie alle riviste letterarie e al web, la seconda ondata ha potuto consolidare le proprie posizioni, con i nomi di Alessio Arena, Andrea Caterini, Tommaso Giugni, Maura Gancitano, Barbara Di Gregorio (“Eleanore Rigby”), Federica Manzon (nell’antologia “Tu sei lei”), Flavia Piccinni (“Adesso tienimi”)… Accanto agli esordienti e alle promesse appena sbocciate, i giovani affermati: Marco Missiroli, ad esempio, (Premio Campiello 2006 Opera Prima con “Senza coda”, seguito da “Il buio addosso”); o Alcide Pierantozzi (esordiente con “Uno indiviso”). Mentre di recente si sono distinti Giorgio Fontana (“Buoni propositi per l’anno nuovo”), Matteo De Simone (“Tasca di pietra”) e Paolo Di Paolo (frequentatore della “Stanza” dell’ultimo Montanelli, e pubblicazione di “Come un’isola. Viaggio con Lalla Romano”); oppure, per il genere fantastico, due autori: Licia Troisi (“Cronache nel mondo emerso”) e Giovanni Montanaro (“La croce Honninfjord”); o, infine, l’ultimo arrivato al successo, Paolo Giordano (“La solitudine dei numeri primi”), con il suo romanzo che riassume tutti gli elementi tipici della seconda ondata, dall’infanzia segnata fino al male di crescere.

«Io scrivo per guadagnare soldi», ha dichiarato Mariolina Venezia, Premio Campiello con “Mille anni che sto qui”. Non è una boutade dell’autrice di serial televisivi come “La squadra” e di varie soap («È stata una buona scuola»). È un dato di fatto: Venezia ha scritto una saga familiare, ma condensata in poco più di 200 pagine. Come la seconda classificata, Milena Agus, autrice di un’altra saga incasellata in meno di un centinaio di pagine: altro che le grandi storie di una volta, come “I Buddenbrook” di Thomas Mann o i “Rupe” di Leonida Répaci, o la “Pastorale Americana” di Philip Roth! Oggi, le vicende di più generazioni di una stessa famiglia hanno il ritmo di uno sceneggiato in due o tre puntate. Buone, appunto, per far soldi.
Lo Strega, il premio dei premi. Lo vince Ammaniti con “Come Dio comanda”; al secondo posto, Mario Fortunato, con “I giorni innocenti della guerra”: il primo non è certo il migliore di Ammaniti; il secondo cede a uno stile ammiccante e compiaciuto. L’uno e l’altro sembrano frutto dell’ossessione di piacere a tutti i costi al lettore, cioè a una sorta di alieno che ha bisogno di storie (i più sfrontati – dice Roberto Cotroneo – lo chiamano “plot”), che non sopporta scritture troppo lunghe (a meno che non si tratti di thriller), e che soprattutto deve appassionarsi, come se – leggendo pagina dopo pagina – stesse vedendo le sequenze di un film. Sostiene Cotroneo: da questo punto di vista non esiste più la letteratura, e quelli che scrivono i libri, quelli che li pubblicano, quelli che vendono i libri, vivono un curioso disagio.

È il disagio di non crederci, di non credere alla letteratura come un genere a sé, che si inserisce a pieno titolo in una tradizione, che ha un suo linguaggio e talvolta persino delle sue regole. E che serve a indagare la realtà e a trovare un modo per spiegare e capire il mondo. Il romanzo ormai, nella maggior parte dei casi, è diventato un manufatto intermedio, una sorta di trattamento cinematografico che avrà una sua compiutezza proprio nel momento in cui diventerà film.
Peccato che questa degenerazione valga solo per la narrativa italiana, chiosa il critico. Nel senso che dagli autori stranieri si richiede ben altro che scorrevolezza, brevità, ritmi e linguaggi da fiction. Come dimostrano, ad esempio, oltre agli ultimi libri di Philip Roth, anche “La versione di Barney” di Mordecai Richler, buona parte dei titoli di McEwan, a cominciare da “Espiazione”, e poi Javier Marías e Orhan Pamuk, Paul Auster e Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman, Mario Vargas Llosa, fino a Gabriel García Márquez.
Come si spiega questa schizofrenia? A un certo punto, «la debole e fragile cultura letteraria italiana si è dissolta nel mare torbido di quello che chiamiamo il mercato. È accaduto che il narcisismo letterario si è adeguato a dei modelli di successo tra i più banali. Immaginando che il successo non possa che passare, oltre che dal numero di copie vendute, dall’approvazione e dal consenso popolare». Solo così si possono spiegare le parole della vincitrice del Campiello, nel momento in cui, ricevendo un premio che in passato era stato assegnato a scrittori del calibro di Primo Levi e Giorgio Bassani, di Ignazio Silone e Mario Rigoni Stern, non solo non si sente parte di una tradizione letteraria, ma persino la rinnega, vantando modelli di riferimento che sono il contrario della letteratura.
Forse non poteva essere diversamente. In questi libri, infatti, non esiste un’autentica ricerca linguistica, le strutture narrative ricalcano di fatto le sceneggiature cinematografiche, la tradizione letteraria (quella che il grande critico Harold Bloom definiva «l’angoscia dell’influenza») è del tutto azzerata. Non c’è stato passaggio del testimone fra la società letteraria dominante tra gli anni Sessanta-Ottanta e quella di oggi, (anche se qualche eccezione c’è: rappresentata da un altro finalista di quel premio, Romolo Bugaro, che con “Il labirinto delle passioni perdute” prova a raccontare la ferocia del nostro Paese, attraverso la sua esperienza di avvocato).
Il disastro era ampiamente annunciato, se è vero, come è vero, che da almeno quindici anni media, editor e critici accademici, oltre ai giurati dei premi letterari, hanno fatto di tutto perché questo accadesse: critici scomparsi dalle pagine dei giornali, università solo autoreferenziali, editor concentrati a pubblicare libri che garantiscano il successo commerciale, importazioni massicce di autori stranieri, scarse esportazioni di scrittori nostrani. «E così ci siamo trasformati in un Paese dove non impera soltanto l’antipolitica, ma anche una antiletteratura, che nei fatti guarda alla letteratura con disprezzo e ironia». Chi legge “Gomorra” legge anche Federico Moccia? Chi compra grandi autori acquista anche romanzetti da sceneggiature, magari venduti in centinaia di migliaia o in milioni di copie, realizzando in libreria una sorta di “brodo indistinguibile”? I tempi sono questi, dice Cotroneo: «E la letteratura italiana è proprio in svendita».

Tra il serio e il faceto, parliamo della letteratura in fotocopia. Il più irriverente dei critici, Giulio Ferroni, afferma: scritture e parole sono ovunque, messaggi molteplici percorrono il mondo nell’immensa circolazione di carta stampata, nei discorsi senza fine del cinema e della Tv, in quell’archivio senza fondo di scritture vecchie e nuove, rigorose e bislacche, pesanti ed evanescenti che è Internet. Tutti parlano e tutti gridano, esibiscono se stessi e cercano un posto al sole con le parole dette e scritte, e, se con immagini, anche queste sostenute da parole. Solo a pensare a quante parole girano per il pianeta in un singolo momento viene davvero l’angoscia, sorge un’improvvisa nostalgia del silenzio.

Un sollievo, dunque, ci è dato dalla riedizione di un libello del 1771, “L’arte di tacere seguita dall’arte dello scriver poco”, dell’abate Dinouart, che esalta il silenzio (offrendoci una vera e propria tipologia), scagliandosi contro l’eccesso di parole e di scritture, contro la diffusa smania di dire la propria a proposito e – più spesso – a sproposito, contro la narcisistica vanità del mondo delle lettere.
Vi troviamo pungenti riflessioni sugli «uomini che scrivono tanto per scrivere», che «non comprendono neppure le loro stesse opere», presi dal «piacere di credersi autori»; e sull’ossessione di parlare e scrivere di tutto, che minaccia di sommergere il mondo con una sterminata «moltitudine di libri che hanno soltanto un istante di vita, che nascono e muoiono, che poi rivivono e di nuovo scompaiono». A tratti, l’abate sembra parlare proprio di oggi, della inessenzialità sia dell’infinito numero di libri pubblicati che nessuno legge sia di quelli che diventano best-seller; dell’immane cumulo di carta che riempie edicole, librerie e biblioteche; della disinvoltura con cui viene detto e scritto tutto e il contrario di tutto; degli invadenti e inutili libri e libercoli di politici, di attori, di comici, di cantanti, di giornalisti, di accademici grandi, piccoli e microscopici.
Gli obiettivi dell’abate erano in realtà diversi da quelli che possono essere i nostri: egli aveva di mira i “philosophes”, si scagliava contro la libertà e l’irriverenza della letteratura illuministica, invitava a tacere «in materia di religione» (e lo faceva plagiando clamorosamente un libro anonimo del 1696). Ma al di là dell’obiettivo apologetico, “L’arte di tacere” intriga, perché spinge a guardare alle storture dell’eccesso comunicativo in cui siamo presi: eccesso giunto ormai al paradosso di creare facoltà universitarie di Scienza della comunicazione, cioè di vere e proprie moltiplicazioni dell’eccesso di eccesso. Formidabili, al di là del plagio, la classifica dei vari tipi di silenzio, le battute sull’invadenza delle scritture, sui discorsi di secondo grado, su chi pontifica su tutto non solo se sa, ma soprattutto se non sa. Sicché si è portati a credere fermamente che la coscienza civile avrebbe molto da guadagnare se, ad esempio, ci fosse anche una moratoria dei talk show, delle tavole rotonde, dei voce e controvoce, dei dibattiti a più voci. Insomma, dei rumori assordanti delle voci. Magari affiancata da una moratoria per tanta carta scritta e stampata, a partire dai libri degli uomini di spettacolo. Lamenta Ferroni: se poi si guarda alla narrativa, si trova il vastissimo campo dei romanzieri che scrivono troppo o che scrivono sempre la stessa opera. Proliferano i romanzi fluviali, che si muovono verso le mille pagine, che fanno bel vedere accatastati nelle librerie: «Ma io mi domando sempre chi mai li legge e chi mai arriva fino in fondo».
Quanti sono poi i replicanti, quelli che trovano una formula e la ripetono all’infinito, dando luogo a una letteratura in serie che esclude qualsiasi ricerca, o confronto con il mondo, e che nulla aggiunge al filo della nostra vita! «Lasciamo da parte le elucubrazioni sadomaso e le contorsioni erotiche eroiche eroiniche di Isabella Santacroce, che per ora si esauriscono in libri di modeste dimensioni pur se insistentemente replicati. Ma che dire della costrizione a inciampare nelle librerie in montagne di nuovi ponderosi Giorgio Faletti, con impaginazioni chilometriche di killeraggi extraterritoriali? Assistiamo alle trionfali ripetizioni del Federico Moccia similadolescente, con i suoi abbandoni sentimentali impacchettati con nastro, fiocco, fiorellino e lucchetto...; e alle più mature e severe oblazioni di nuovi Salvatore Niffoi, con miscele saporose e ostinatamente nostalgiche di pecorino sardo».
Finita qui? No. Se guardiamo fuori del nostro orizzonte casalingo, le cose non sembrano cambiare più di tanto: che dire dei thriller culturologici di Dan Brown e alla Dan Brown, con le stucchevoli messe in scena di misteri estratti da manipolazioni della storia religiosa, politica, culturale? E delle magie artificiose e speziate, sontuosamente accattivanti, dell’America Latina da feuilleton di Isabel Allende?
Ma torniamo dalle nostre parti. Dice il critico: «Tornando in Italia, mi sgomenta ancora il moltiplicarsi delle indagini su fattacci vicini e lontani, con misura ben calibrata e tutto sommato politically correct, a cui insistentemente lavora, in stampa e in video, il vitalissimo Carlo Lucarelli. E ancora la Sicilia arroventata e casereccia, elementare e sovraccarica, parodistica ed evanescente, di quello che comunque è il più bravo e simpatico di tutti e a cui si perdona la torrenziale e disinvolta facondia, la disponibilità a sfornare illimitatamente libri, l’ottimo Andrea Camilleri».
Insomma, differenze fra questi e tanti altri date per scontate, viene comunque la voglia di consigliare una tregua, se non altro, per evitare che prima o poi si faccia avanti qualche altro abate che, senza plagiare lo stesso Dinouart, ci inviti a non leggere più nulla, come già consigliavano i versi finali di un sonetto del Belli: «Li libbri non zò rrobba da cristiano: / fiji, per carità, nnu li leggete».

Da qualche tempo a questa parte circolano un bel po’ di libri, come definirli?, trasgressivi, parzialmente disimpegnati, nel senso di impegnati a magnificare il sesso, e soltanto questo, lungo il confine erratico tra erotismo e pornografia. Partiamo dalla fine, cioè da Lola Beccaria, a quanto pare discendente del giurista Cesare, autrice di “Una donna nuda”, epigono di una pruderie tradotta in romanzetto autobiografico che ha ascendenti ovunque, da Terence Sellers (“La sadica perfetta”) a Princess Spider (“Esperienze di una dominatrice”), alla più casereccia Isabella Santacroce (“V.M. 18”), alla pornoromantica Carolina Tutolo, a Guia Soncini, alla transpasionaria bolognese Porpora Marcasciano (“Tra le rose e le viole. La storia e le storie di transessuali e travestiti”), fino ai colpi di spazzola di Melissa P. e all’esordiente Monica Bisighini (“Tamara di Dio”), e alle più morigerate Clara Sereni o Rosy Campo, che ricordano da vicino la scrittura (di tempi ormai remoti) di Lidia Ravera, con la noiosa pedagogia di chi fa del sesso una nenia di liberazione e/o di oppressione assoluta, con contenitori sentimentali a lingua prestampata, con le consuete cianfrusaglie cuore-amore-anima, iniziazione sessuale-organi (ancora impuberi) titillati, passaggi da amante ad amante; e con l’invalicata palude degli stereotipi della vecchia letteratura rosa di basso profilo, comprese le narrazioni in pagine omo e lesbo, che neanche lontanamente riescono a sfiorare la grandezza di Proust, Gide, Genet, Whitman, Pasolini, Testori, Gadda, Arbasino, Busi…

Quasi a battesimo del nuovo secolo, nel 2001 Christopher Hitchens scrisse “Letters to a Young Contrarian”, (“Consigli a un giovane ribelle”), una sorta di manuale a uso dell’ovvio sovversivo. Radicale e rivoluzionario, comunista, inglese, ma vicino alle posizioni della destra americana di Bush, padre di una velenosa invettiva contro Madre Teresa di Calcutta, l’autore di “Dio non è grande” può a buon diritto ritenersi il primo tra i presuntuosi della Terra, unico interlocutore possibile di quel testimone della religione secolarizzata che, secondo il colombiano Nicolás Gómez Dávila, è Satana, l’inquisitore per eccellenza che non si attarda con la carità e con la pietas. Hitchens si ritiene un eroe della ribellione. Ma – si chiede Pietrangelo Buttafuoco – non lo è, forse, della rivolta? Sull’onda della compianta Oriana Fallaci, aggiunge il critico, proprio costui «rivela come la destra in guerra contro Dio non sia altro che la sinistra nella sua fase senile». Quella che ha fatto la Rivoluzione francese, quella bolscevica, le varie e controverse Resistenze, tutte le rivoluzioni arancione dell’Europa dell’Est e che infine ha issato il patibolo per Saddam Hussein: per farne poi che cosa, uno starnazzare incontrollato perché i Draghi della Cina e le divinità dell’India si stanno prendendo il cuore della Terra per dominare il mondo?
La carica emozionale della disubbidienza richiede una forte dose “imaginale” (termine che è una categoria fondamentale della dottrina musulmana sciita, un capitolo dell’opera di Henry Corbin). «Insomma, senza la dimensione spirituale non si dà rivolta: da Prometeo a Lucifero, dal Sol dell’avvenire alla Conquista delle stelle, tutto è un reclamare luce e spirito. E la nostra proposta di ribellione al ribelle tiene conto di Dio, della fantasia e dell’unica vampa di sincerità nella libertà, quella dell’arte, tanto è vero che fra i libri da scegliere per i giovani ribelli, mettendo da parte l’ovvio sovversivo, forse è più efficace Capitan Harlock, eroe dei manga, che non “Omaggio alla Catalogna”, di George Orwell». Che cosa segnalare ai giovani ansiosi di delinquere? Presto detto: “Il trattato del ribelle”, di Ernst Jünger, e poi “Lezioni spirituali per giovani samurai”, delizioso vangelo redatto da Yukio Mishima.

Forse, solo stare ai margini dell’Occidente è ribellione. E lo è l’intridersi del nulla dei nichilisti del secolo scorso, come fa questo autore archetipico, che rabbiosamente tiene lontani Iddio in persona e Satana unico testimone. «Forse solo quell’insieme di parole arcaiche, remote e oscure, quella stessa tradizione primordiale del Dio dei popoli cui il polemista di Portsmouth ha rivolto la sua scienza e la sua foga distruttrice, è il fuoco che eternamente attende di essere rubato per restituire all’Occidente almeno il senso stesso del proprio suicidio».

Ogni epoca, si sa, ha i propri idoli. Il guaio arriva quando lo Spirito del tempo, notoriamente conformista, arruola sempre più adepti in linea con l’andazzo. Come per un inglese, un americano e un italiano, insieme per un caso editoriale. Tre autori, altrettanti best-seller: “The God Delusion” di Richard Dawkins, “Letter to a Christian Nation” di Sam Harris, e “Babbo Natale, Gesù adulto” di Maurizio Ferraris. Si badi, nessun invito all’ateismo, ma un approccio meno rispettoso alle fedi religiose, (Dio, nella migliore delle ipotesi, «ottativo del cuore», come lo definiva Feuerbach); una critica alle ingerenze delle Chiese in campo politico-sociale; la considerazione delle religioni come sponde di fiumi parallele, dunque destinate a non incontrarsi mai; l’attacco alla loro presunzione di regolare nascita, morte, ed eventi principali che si collocano tra l’una e l’altra.
Ispiratore devastante di questi pensieri, non un ateo né un agnostico, ma un credente, addirittura una porpora, l’ex vescovo di Edimburgo, Richard Holloway, che in “Godless Morality. Keeping Religion out of Ethics” (“Una morale senza Dio. Tenere la Religione fuori dall’Etica”) suggerisce all’uomo raffigurato in copertina, sperduto in un incrocio di strade, di tenere separate le due indicazioni, gli dice che non deve necessariamente credere per essere buono, e aggiunge che «la morale si basa su effetti dimostrati, non su convinzioni o superstizioni». Con tanti saluti a chi, nel nome della fede e dell’etica che implica, ha affrontato anche il martirio.
Vautrin, l’ultimo figlio di Caino; Milady, l’attrice che impersona Satana; Uriah Heep, la malvagità strisciante; Stavrogin, l’uomo vuoto, il nulla profondissimo: questi, i personaggi. Parigi, «flagello ardente e fumoso», dove tutto è abietto; Londra algida, nera, tetra città che nessuna luce può rischiarare: questi, i luoghi. Tutto fango. Che però si trasforma in oro nelle mani dei grandi scrittori. Come quelli che Pietro Citati, nella sua raccolta di saggi “Il Male assoluto. Nel cuore del romanzo dell’Ottocento”, ha legato in una sottile e fitta rete di parentele, di odi fertili, di amicizie pericolose, da Proust a Kafka, da Goethe a Tolstoj, e a Balzac, a Dumas, a Dickens, a Dostoevskij, coniugando racconto e arte del ritratto, che è il suo modo di fare critica letteraria.
Citati vi sostiene che il male attraversa tutta la letteratura, «ma l’800 è come se lo avesse riscoperto. In quasi tutti i grandi scrittori, Balzac, Stevenson, Dumas, Hawthorne, James, soprattutto Dostoevskij, la condizione del male è un dato essenziale. In Dostoevskij c’è la più grandiosa figura del malvagio del secolo. Nessuno è più grande di Stavrogin. È la chiave del romanzo, dà vita e idea a tutti gli altri personaggi».
Che cos’è, allora, il male assoluto? Quello che si compie sui bambini. Per Dickens non c’è peccato più grande, e lo scrittore russo lo ha appreso da lui. Stavrogin stupra una bambina e aspetta che lei si impicchi, pregusta la visione, poi contempla a lungo il piccolo corpo appeso. Qui l’autore varca ogni limite, ci sembra di abitare “dentro” il male. Stavrogin è tanto terrificante quanto affascinante: ha l’incanto, la bellezza, la dolcezza, il dono di sedurre. In un certo senso, però, non è il male, fa il male, ma non riesce a coincidere con esso. Non coincide con niente, è niente. L’unica cosa che si può dire di lui è che è una sorta di immenso vuoto, probabilmente la vera forma del male. Forse, se fosse veramente malvagio, negativo, potrebbe salvarsi, e invece non si salva, deve uccidersi perché è posseduto da questo suo immenso vuoto. Dickens è poco letto. Per Citati, è il narratore più comico del secolo, «suscita il riso più esilarante e radioso», ma allo stesso tempo è lo scrittore del delitto, dell’oscurità tenebrosa, dell’inconscio, della città moderna. Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lo lessero con la passione e con «l’incoerente gratitudine» che egli richiede a ciascuno di noi.

Il male, infatti, è tante cose in questi autori. È una forza di concentrazione terribile, un peso, nel balzacchiano Vautrin, il cattivo dalle molteplici incarnazioni. È fascinazione come in Stavrogin e nei personaggi di James. Poi l’indagine dei romanzieri si sposta sui rapporti tra bene e male. Se scorriamo le pagine del Manzoni, sappiamo che tra bene e male assoluto, come l’Innominato e il Cardinal Federico, c’è una complicità. In “Delitto e castigo” non c’è alcuna armonia, eppure emerge una sorta di lieto fine: gli umili e le vittime sono salvati, anche se soltanto per grazia del male assoluto.
E a proposito di quest’ultimo: ha avuto un prologo nel ‘700, con De Foe, Jan Potocki, Goethe; e un epilogo, con “L’interpretazione dei sogni”, di Freud. Questi insegna al ‘900 l’arte dell’introspezione. Per lui il libro è stato una specie di salvezza psicologica: sentiva che mentre i suoi amici erano felici, lui era freddo, austero, senza gioia. Con quel testo cercò di imparare a vivere. Alla base, non era un’opera scientifica, l’ispirazione veniva da Wilhelm Fliess, un ciarlatano, ma anche un erede di quella scienza unitaria della natura che risaliva al ‘500. Anche Freud cercò di generare una scienza unica, che spiegasse tutta la realtà. C’è il riconoscimento che nel suo rapporto con Dio lui è stato sconfitto, e i soli dèi che possono aiutarlo sono quelli dell’Averno. Ma dagli dèi delle tenebre ha desunto una scienza nitidissima. È stato il maestro di una tecnica dell’interpretazione che è alla base di quasi tutta la saggistica e di molto romanzo del ‘900.
Gli epigoni contemporanei? Immaginiamo una psichiatra bellissima, che è anche una sadica serial killer. È pure «una mente malata fra le più grandi della storia americana», che ha ucciso e torturato centinaia di persone, non risparmiando sevizie atroci neanche al poliziotto che l’ha incastrata, facendola arrestare, ma che ne è divenuto succubo, visitandola continuamente in carcere, facendosi centellinare una settimana dopo l’altra i nomi delle vittime. Siamo nelle prime pagine di “La ragazza dei corpi”, truculento thriller della statunitense Chelsea Cain, che il critico Jeffery Deaver ha iperbolicamente definito «una geniale esplorazione della natura del male». Nel cuore del romanzo, un altro mostro si mette a seminare il terrore tra le adolescenti della città. E il poliziotto sa che soltanto la psichiatra può penetrare nella mente dell’assassino. Questa storiaccia ci ricorda qualcosa? Lo schema è quello del “Silenzio degli innocenti”, con una “beauty killer” al posto di Hannibal the Cannibal e con un maschio masochista al posto della poliziotta Clarice Sterling.
Allo stesso modo, si immaginino un gruppo di normali ragazzi americani che un’autorità superiore ha strappato di colpo alla routine quotidiana, trasferendoli in una situazione eccezionale, cioè trasformandoli in guardie carcerarie dotate della liceità morale, oltre che dell’assoluto potere di sorvegliare e di punire. L’esempio sembra riportarci dal regno della fiction all’atroce realtà: ai soprusi e alle sevizie contro i prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib.
Ma la vicenda è più complessa. Abu Ghraib, infatti, ha un precedente in un esperimento di psicologia sociale promosso dalla Stanford University nel 1971 e sfuggito di mano agli scienziati, come il mostro dell’ambulatorio del Dottor Frankenstein. Lo racconta il suo ideatore, Philip Zimbardo, in un saggio, “L’effetto Lucifero”, dal sottotitolo eloquente: “Cattivi si diventa?”. La risposta è: sì. Si prendano degli studenti dall’equilibrato profilo psicologico, si dividano a caso in guardie e reclusi. Siano isolati in uno spazio concentrazionario e inchiodati ai loro ruoli. Ben presto i primi si trasformeranno in carnefici, i secondi in vittime. Tant’è che l’esperimento di Stanford dovette essere sospeso, prima che si giungesse a un punto di non ritorno.
Il caso fa da ponte tra la realtà e la fiction. Testimonia, cioè, l’esistenza di un nesso mitologico forte tra il piano dei fatti e quello dell’immaginazione. Effetto Lucifero, appunto. Ovvero, quando il diavolo ci mette la coda, rendendo indistinguibili vita e letteratura, realtà e finzione, fino a trasformare il crimine in un reality. E viceversa. Il bene e il male, poli della nostra costellazione morale, sfumano nella dimensione virtuale dell’audience televisiva.

Due romanzi recenti, declinando in forme icastiche il rapporto tra Nazismo e Male assoluto, hanno riacceso le discussioni. “Le Benevole” di Jonathan Littell, e “Hitler” di Giuseppe Genna, infatti, sono stati accusati da Giuseppe Bonura di risolversi in una perniciosa “pornografia del male”, anziché nello svelamento della sua concretezza sociale che dovrebbe costituirne, aristotelicamente, la catarsi. Reazione di Sergio Altieri, consulente editoriale mondadoriano per prodotti da edicola, alias Alan D. Altieri, narratore di storie ultranere, (“Kondor”, “L’uomo esterno”…): la vera pornografia è quella che si annida passivamente dentro la società contemporanea. Altieri è autore della trilogia di “Magdeburg”. «Il Seicento del mio testo, o il Medioevo in cui Valerio Evangelisti ambienta le storie dell’inquisitore Eymerich, non erano secoli ipocriti», sostiene. «Il potere era assoluto e come tale veniva gestito. Oggi, invece, domina l’ipocrisia. Qualcuno ricorda “Apocalypse now”? I piloti incendiavano col napalm interi villaggi, ma sui loro aerei era proibito scrivere le parolacce. Dicono: ma che fate, mettete solo violenza nei vostri libri? Come se il mondo qui intorno fosse tutto rose e fiori». Troppo facile, insomma, prendersela con i bravi “cattivi ragazzi” del noir e dell’horror, del thriller e dello splatter, le cui gigantografie del male a tinte forti rischiano al massimo, come certi farmaci, di darci assuefazione.
Che sia anche questo “effetto Lucifero”? A farci ripensare a quell’«essere oscuro e conturbante» che «esiste davvero» e muove il male del mondo, è “Adesso viene la notte”, il nuovo romanzo di Ferruccio Parazzoli. Tra le sue pagine il diavolo dilaga in panni gesuitici, mentre cerca di scardinare la salda fede di Paolo VI, mettendolo al cospetto del silenzio di Dio e al sacrificio del giusto, nella persona di Aldo Moro, rapito e trucidato dalle Brigate rosse. «Sin dalle origini della mitologia cristiana», butta là Parazzoli, «Satana assume su di sé la parte maledetta. Carl Gustav Jung lo considera addirittura una specie di quarto incluso nella Trinità: l’Altro che è implicito in Dio stesso e viene simboleggiato dal quarto braccio della croce, quello che sprofonda nella terra». Ma allora, il Cannibale e la “beauty killer”, i criminali trasformati in eroi positivi, saranno i protagonisti delle favole raccontate per addormentare i bambini prossimi venturi?
Mentre siamo ancora nel gorgo della disperazione formale ed esistenziale del Novecento, (si arriva a un capolinea radicale e a un’eclissi definitiva dell’umano in “Il treno dell’ultima notte”, di Dacia Maraini), e se scorgiamo una riva – come scrive John Banville – è dal ponte di una nave che affonda, ci potrà salvare l’arte, come nelle stagioni classiche? La domanda è rivolta, in un libro-intervista di Daniela Padoan, a Ermanno Olmi. Al regista si chiede come abbia «affrontato la parte del negativo», vista la sua vocazione a rappresentare la speranza, l’umanità schietta e fraterna, la grazia della vita. Sostiene Claudio Magris che Olmi trova l’umano in un’antica semplicità e pietas familiare e contadina, «certo personalmente vissuta ma anche idealizzata, vista nella sua fraternità con le cose piuttosto che nella sua anche regressiva brutalità». Ma in molti capolavori – “La leggenda del santo bevitore”; “Il mestiere delle armi” – la verità poetica dell’esistenza «è colta nella solitudine, nella sconfitta, nell’urto spietato, nel fallimento». Infatti, Olmi risponde che oggi i conti si possono far quadrare con un «cambiamento totale» dell’esistenza, e dunque con una sua negazione, assumendo su di sé tutto il negativo dell’epoca, come voleva Kafka.
Egli sa bene – ricorda Magris – che lo scenario della salvezza può essere non solo il dolce fiume dei suoi “Cento chiodi”, ma anche la discarica dei rifiuti, il cumulo corroso di macerie, i bidoni di immondizie in cui forse è scivolata e si è nascosta qualche perla di cui andare in cerca, così come i personaggi de “Il poeta e lo spazzino” di Dante Maffia trovano, frugando tra i cassonetti, veri libri che li illuminano proprio perché finiti tra gli scarti. Da Beckett a Mattioni, la spazzatura è un grande paesaggio della letteratura moderna, con una sua aura di squallore e insieme di redenzione: «Dopotutto, nella Bibbia il Signore dice di avere scelto quale pietra angolare della sua casa la pietra rifiutata dai costruttori, infima e disprezzata».
Ma forse oggi è la poesia, più della prosa, a poter offrire un’immagine autentica – non consolatoria, non rassicurante, non analgesica – di speranza e di significato, conclude Magris. «…Sperperare il nostro avere / fino all’ultimo sguardo, l’ultimo / paesaggio di rovine», dice in alcuni suoi versi incisivi Alberto Bevilacqua, un romanziere per antonomasia che si interroga sui propri fondamentali e confessa di aver «passato una vita decifrando / piaghe e vuoti dell’altrui esistere», forse perché sofferente di «un po’ di vertigine, claustrofobia / nell’abitare solo me stesso», dunque fuggiasco dalla propria angustia nel vuoto di altri, di tutti.
Probabilmente, la poesia può dire, senza falsità, un senso forte della vita che il romanzo, quando lo enuncia, può facilmente svisare nella retorica. Forse perché «il linguaggio della poesia, impervio anche se certo non ermetico né sibillino, richiede al lettore di conquistarlo, con l’intensità dell’avventura e della salita, anziché di consumarlo, mentre il romanzo è più facilmente consumabile, assomiglia troppo spesso a una comoda passeggiata in piano, e per acquisire verità deve rendersi meno assimilabile, più indigesto, trasformare la passeggiata in un cammino pieno di frane, di buche, di sabbie mobili».

Il “Corriere della Sera” dedica una pagina all’ultimo romanzo di Carlo Lucarelli, “L’ottava vibrazione”. Firma l’articolo Giancarlo De Cataldo, anche lui scrittore. Il suo “Romanzo criminale” e gli altri suoi titoli sono nel catalogo “Stile Libero” dell’Einaudi, che accoglie anche Lucarelli. Fuori discussione bontà del libro e onestà del recensore. Ma vien da chiedersi: si può sospettare un conflitto di interessi?
Non è un caso unico. Pochi critici in Italia fanno soltanto i critici. Molti sono critici e, simultaneamente, scrittori. Scrivono romanzi Lorenzo Mondo e Giuseppe Bonura. Ne ha scritti Giovanni Pacchiano. Li scrivono Luca Doninelli, Nico Orengo e persino Pietro Citati. Recensiscono e scrivono romanzi Mario Fortunato, Giorgio Montefoschi, Alessandro Piperno, Giuseppe Genna, Giulio Mozzi, Massimiliano Parente, Tommaso Pincio. È romanziere e blogger Tiziano Scarpa…
Il dubbio che, oltre al valore letterario, contino le amicizie, vale per tutti. Paolo Di Stefano, anch’egli giornalista del “Corriere”, autore di “Nel cuore che ti cerca”, riconosce il conflitto e ne segnala un altro: «I consulenti editoriali recensiscono libri che hanno fatto pubblicare; i responsabili di pagine culturali scrivono prefazioni o traducono per le stesse case editrici libri che poi segnaleranno e recensiranno; i docenti universitari usano gli incarichi editoriali per costruire le carriere dei loro allievi».
In un’indagine che ha riguardato due settimane di attenzione sul tema, Mariarosa Mancuso ha registrato quanto segue: Paolo Collo, responsabile dell’Einaudi per la letteratura spagnola e portoghese, ha firmato un lungo ritratto di Javier Marías, autore della stessa editrice. Su un numero di “Alias”, supplemento culturale del “Manifesto”, Marco Belpoliti ha recensito i “Saggi di letteratura e politica” di Susan Sontag; cinque pagine dopo, lo stesso Belpoliti è favorevolmente recensito da Daniele Figlioli (per “Le foto di Moro”). Andrea Cortellessa fa il critico e dirige una collana di narrativa italiana per l’editrice Le Lettere. L’intreccio romanzieri-recensori-curatori di collana alla Minimum Fax è inestricabile, come gli incarichi editoriali di Emanuele Trevi. Ed emerge persino un conflitto sfuggito alla casistica: quello dell’editore che intervista un autore della sua scuderia, come nel caso di Sergio Fanucci con Richard Matheson sul “Venerdì” di “Repubblica”.
Né va meglio per il settore blog: gli stessi nomi tornano e si intrecciano tra recensori e recensiti. Gianni Biondillo, quattro romanzi da Guanda e molti articoli sul blog collettivo “Nazione indiana” (dove scrive anche Roberto Saviano, quello di “Gomorra”), nega l’addebito, ma tratteggia scenari della repubblica delle lettere poco edificanti: – È un mondo brutto e piccolo, dove vige la mistica dell’inciucio –. Si capisce, allora, perché gli esponenti della casta siano rancorosi: una recensione fredda può rompere un’amicizia, mentre la doppia verità (esaltare un romanzo in pubblico, criticarlo negativamente in privato) aiuta comunque a vivere e a pubblicare senza problemi. Andrea Vitali insegna: sebbene sia autore di classifica, non vorrebbe che ad occuparsi di un suo prossimo libro fosse «l’anima caustica di Giovanni Papini». Dimostrazione, questa, dell’esser colti e scaltri: Papini non è più pericoloso, da mezzo secolo non può mettere nessuno sulla graticola.
Succede così che Federico Moccia definisca «una donna che scrive sul Manifesto», senza citarne il nome, la critica che ha stroncato “Tre metri sopra il cielo”; che Giorgio Faletti dimentichi, perché li ha “cancellati”, i nomi di coloro i quali hanno sostenuto che i suoi libri vendono grazie al nome dell’attore, e non per i contenuti; che Andrea Di Consoli, autore dei racconti di “Lago negro”, spari su Giovanni Pacchiano, critico di riferimento del “Sole 24 Ore”, mentre Silvia Ronchey ricordi che il recensore del suo “L’enigma di Piero”, Piero Boitani, docente alla Sapienza, le ha già «nociuto all’Università»; che Gaetano Cappelli, autore di “Parenti lontani” e “Il primo”, si scagli contro non uno, ma due critici, Marco Belpoliti e Carla Benedetti, il primo della “Stampa Tuttolibri”, la seconda dell’ “Espresso”; che Giuseppe Scaraffia finga di non voler essere recensito da Antonio D’Orrico (“Corriere Magazine”), mentre più ingenuamente Aurelio Picca lamenti la mancanza di attenzione da parte di Citati, “lenzuolista” di “Repubblica”, e Antonio Scurati (autore de “Il sopravvissuto”) quella di Franco Cordelli; anche se poi recensore che loda non si cambia, come accade a Ermanno Paccagnini del “Corriere”, prediletto da Nicola Lecca (romanzo “Hotel Borg”) e da Paolo Bianchi; senza che nessuno, neanche un Alessandro Piperno o un Sandro Veronesi – per dire – abbia mai fatto i nomi di Giulio Ferroni, di Massimo Onori, di Filippo La Porta, o di Alfonso Berardinelli, i cosiddetti “magnifici quattro della stroncatura”, autori di “Sul banco dei cattivi”, libro edito da Donzelli, che ha riportato la critica letteraria al centro dell’attenzione e fuori dagli orizzonti fumosi dei recensori di fiducia.
All’estero, dove vige una salutare separazione delle carriere, una critica negativa è considerata parte del gioco. Sul “Sole 24 Ore” di una ventina di anni fa, Roberto Cotroneo stroncava con lo pseudonimo di Mamurio Lancillotto.
Poi si è messo a scrivere romanzi (quattro), ha diretto le pagine culturali dell’ “Espresso”, e ora dichiara di non essere stato mai stroncato, perché avrebbe «spiazzato i critici fin da “Presto con fuoco”». Sarà così. In ogni caso, è convinto che i libri vengano scelti soprattutto con il passaparola, mentre, sempre sul piano dell’autoreferenzialità collettiva, Paolo Di Stefano sostiene che «le recensioni interessano soprattutto gli addetti ai lavori», e Gianni Biondillo proclama che tra le pagine culturali e i lettori «si è aperto un abisso». Tranquilli, i lettori se ne erano accorti da un pezzo. È la casta nana che continua ad ascoltare solo se stessa. E a far finta di niente.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2008