Settembre 2008

La grande guerra, novant’anni fa

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La battaglia del solstizio
Orlando Santangelo
 
 
 

 

 

 

Una tomba
ha moltissimi
fiori, più di
qualsiasi altra.
È su in cima alla balza del Grappa, sul lato nord del sacrario austriaco. Il nome che vi è inciso fa venire
il groppo in gola: “Peter Pan”.

 

Il Piave in grigioverde era lì, dopo un interminabile filare di pioppi. Fu questo il teatro della più terrificante battaglia combattuta sulle opposte rive del fiume, vinta dall’Italia dopo un’offensiva austro-tedesca scatenata dalla pianura fino alle falde del Grappa, tutta in provincia di Treviso. L’inferno cominciò la notte tra il 14 e il 15 giugno con uno sfondamento sul corso d’acqua, e in poco tempo tutto finì, con decine di migliaia di morti e con la rinuncia del nemico esausto ad ogni altro progetto di avanzata su Venezia e verso la Valle del Po. Gli ultimi lembi dello Stivale erano “redenti”, grazie al sacrificio di 600 mila vite umane.
Dall’alto, la battaglia del Montello può immaginarsi ancora oggi come su una carta militare aperta sul tavolo di un quartier generale. C’era tutto: la 31ma divisione degli ungheresi che guadava il Piave dalle parti di Falzè, dove il fiume è più stretto; la 13ma divisione degli Schützen, che gettava un ponte di barche all’altezza di Villa Jacur; la 17ma divisione Honved che attaccava a Nervesa, poco a monte del ponte della Priula, il punto più avanzato, dove gli austriaci videro Venezia ed esultarono.
Da queste parti precipitò lo Spad 13 monoposto di Francesco Baracca, come ricorda un sacello di bianche colonne circondato dagli alberi di un bosco. Fatale 1918, anno in cui crollò un mondo, sotto l’urto della modernità: nel giro di pochi mesi arrivarono la corrente elettrica, la radio, i motori, i cannoni, la carne in scatola, le macerie, le evacuazioni. E la fame. E la morte di massa.

Arrivarono, soprattutto, gli aeroplani, che riempivano il cielo. Ben milleduecento, tra la Laguna e le Prealpi. I piloti erano i più esposti fra tutti i soldati al fronte, la loro vita media in prima linea era di nove giorni: un suicidio. Ad abbatterli bastava una fucilata, i motori prendevano fuoco una volta su tre, la visibilità era nulla, l’addestramento veloce e approssimato, la velocità non superava i 160 chilometri orari. Mai un’industria, più di quella aeronautica dell’epoca, ebbe tanti disperati collaudatori.
Il Piave non mormorava. Ruggiva, gonfio e incattivito, schiumoso, tagliato a sghembo da isole piatte a forma di pesce. Una venne chiamata “Isola dei Morti” per l’ecatombe di cui fu testimone. Tante cose cambiarono nome, in quei giorni. Anche il fiume. Da secoli era stato chiamato “la Piave”, come a indicare una dea fertile. Poi lo arruolarono, gli cambiarono sesso e ne fecero “il Piave”. Sorte analoga ebbero “la Brenta” sotto il Ponte di Bassano, e la montagna detta “Grappa”, che non potevano essere femmine lungo quel fronte gremito di maschi.

A Nervesa, in un museo a cielo aperto all’ombra delle Dolomiti innevate, c’è una squadriglia di aerei d’epoca, incluso quello dei fratelli Wright e il rosso triplano “Fokker B1” dell’asso austriaco della Grande Guerra, il Barone Rosso. Non è materiale inerte, è roba che ancora oggi vola. Dall’alto, il Montello è una sorta di zatterone di fortuna inclinato verso la pianura. Qui sono i punti nevralgici, i luoghi-chiave di quella Guerra. Nervesa ne è il baricentro: sulla sommità di un colle il candido sacrario, poi nubi, venti capricciosi, infine lo scheletro dell’abbazia di Sant’Eustachio, maceria monumentale sopravvissuta alle bombe di giugno, dove monsignor Giovanni Della Casa scrisse Il Galateo.
Fa freddo, a man a mano che si sale sul Grappa, dove si era aperto un altro fronte del Solstizio: Monte Fenera, la Valle dei Solaroi, serene praterie a quota media e alta impregnate di ferro e di balistite. Il Ponte San Lorenzo, sull’altro versante, quattro case e un piccolo hotel, segna il punto massimo dell’avanzata austriaca e quello d’inizio della vittoriosa controffensiva italiana raccontata, proprio in questo luogo, da Ernest Hemingway in Addio alle armi.
Osservata da oriente, la cima calva del Grappa si presenta come la chiglia di una nave rovesciata in un fondale oceanico. La prua guarda la pianura. Uno spazio magico, abitato da chissà quali dèi, colpito per primo dal sole che nasce e per ultimo dal sole che muore. Anche qui, sacrari: uno italiano e uno austro-ungarico. D’inverno si coprono di gelo e il vento fa vibrare le stalattiti di ghiaccio come canne d’organo. Per rientrare, è necessario passare accanto al sentiero delle Meatte, scavato per i fanti in uno scenario dantesco di picchi e strapiombi, con un orizzonte immenso sulla pianura. Ottanta teleferiche scalavano il Grappa per rifornire la prima linea. Tutte sistemate a mano, con uno sforzo logistico inenarrabile.

Il racconto è stupendo. Ed è vero. Com’è vero che attorno ai sacrari di guerra si costruisce più facilmente la pace. Allora: in uno di quei sacrari, una tomba ha moltissimi fiori, più di qualsiasi altro loculo. È su in cima alla balza del Grappa, sul lato nord del sacrario austriaco. Il nome che vi è inciso fa venire il groppo in gola. È scritto: “Peter Pan”. Lassù, sul suo galeone rovesciato, nell’Isola-che-non-c’è, quel ragazzo venuto da chissà dove accende la commozione di tutti, come se il tempo non esistesse. Sul monumento garrisce la bandiera austriaca, ma i morti dell’Impero furono anche sloveni, croati, polacchi, bosniaci, ungheresi, persino italiani rimasti fedeli a Vienna e a Francesco Giuseppe. Appartiene a tutti, questo Angelo alato, con i suoi sogni tramontati tra i bagliori di un solstizio silente, con gli occhi perduti dentro tutti gli orizzonti.
Galleria Vittorio Emanuele III, cinque chilometri scavati a mano per i passaggi dalla prima linea alle retrovie, camminamenti da talpe, larghi cunicoli con i cannoni incavernati che ad ogni colpo lasciavano echi da oltretomba, con rinculi da paura. Dicono quelli di Treviso, la provincia più leghista d’Italia: «La memoria storica passa da padre in figlio, come una corrente carsica, attraverso i luoghi-simbolo di un’identità».
Da un fojaròl, una casetta a tetto di foglie di faggio che tiene la pioggia a meraviglia, sotto il Sasso delle Capre, oltre le linee austriache, gran vista sul versante di Feltre. Ma da questi monti si vedono anche l’Istria e l’Appennino. Se l’acqua vien giù abbondante, il terreno si fa molle, e ad affondare le mani si possono tirar fuori scaglie marroni a forma di losanga. Balistite, a chili, a tonnellate, ovunque. Funziona ancora. Venivano a prenderla da qui, negli anni Sessanta, quelli che l’Alto Adige lo volevano a tutti i costi chiamare soltanto Tirolo del Sud. Non solo balistite. Emergono ancora ghisa, ferro, bronzo, acciaio; reticolati, divise, elmetti, baionette, sciabole, gavette. E anche barche. Una guerra di pochi anni può produrre rottami reperibili per molti decenni. Roba utile per i ricicli.
Ma dà luogo a centinaia di migliaia, a milioni di vite spezzate, di gioventù stroncate: croci e croci sulle balze e sulle pianure dei fronti visitate ancora oggi da uomini di tutte le nazioni non più nemiche, e obelischi e bronzi sulle piazze di tutte le città, testimoni silenziosi (e forse per questo più eloquenti) dei lutti cagionati dalla lunga guerra civile europea.

 

   
   
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