Settembre 2008

Attrazioni fatali

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Se a cantare
sono le sirene
Sergio Bello
 
 
 

 

 

 

Le Sirene e il canto.
Le Sirene
incarnano
il canto negativo,
la loro è la voce oscura della
poesia, che perde
l’uomo e gli fa smarrire l’identità,
lo spinge nell’oblio.

 

«Una femminilità inquietante, oscura, parzialmente animalesca e proprio per questo irresistibile, capace di sopraffare la razionalità del maschio, fino ad annientarlo». Maurizio Bettini, antropologo del mondo antico e scrittore, parla così della donna nel mondo classico, in particolare della sua immagine nel gran poeta, il più solare e mediterraneo tra i classici: Omero.
Lo spunto glielo dà Luigi Spina, che ha scritto un libro molto bello, Il mito delle Sirene. Queste creature anfibie, che attraggono irresistibilmente con il loro canto i marinai, per poi divorarli, sono l’emblema della seduttività femminile fine a se stessa, dei suoi terrificanti pericoli e del suo misterioso legame con la natura. Alla loro attrazione fatale per primo sfuggì, aiutato dalla dea della ragione, Atena, Ulisse, che sigillò con la cera le orecchie dei compagni e si fece legare all’albero della nave. Solo così si sottrasse alla malia delle Sirene, esiliate nell’isola maledetta per avere osato sfidare nell’arte del canto le Muse, ispiratrici dei poeti e di tutte le attività creative umane.
Ma – puntualizza a questo proposito Bettini – non è solo l’astuzia di Ulisse a sconfiggere le Sirene. C’è voluta la complicità di un’altra donna “oscura” dell’Odissea, la maga Circe, anch’essa legata al lato più torbido e ferino della femminilità. Infatti, tramuta in porci i compagni dell’eroe, ma, amandolo, lo avverte del pericolo e gli suggerisce come scongiurarlo.
Fra le creature del poema omerico le Sirene sono le più note, anche se in realtà tutte le grandi figure che vi si incontrano sono espressioni di femminilità inquietanti: non solo Circe, ma anche l’ambigua Calipso (il suo nome deriva da kalypto, “nascondere”); per non parlare di Elena, che con il suo celebre Nepente fa perdere la coscienza agli uomini. L’unica a salvarsi è Nausicaa, non ancora iniziata al sesso.

Per il resto, l’Odissea è evidentemente prodotta da una società che ha paura delle donne, che non si fida delle donne, che le rappresenta come detentrici del dominio sugli uomini: per i greci, esse hanno il potere della seduzione e nello stesso tempo quello della perdizione. Per questa ragione la categoria del desiderio ingannevole, da sempre incarnato nelle Sirene, tanto che la parola ne è diventata sinonimo, in realtà per gli elleni accomuna tutte le donne. Tant’è che la loro Eva è Pandora, bellissima ma spargitrice di mali, creata come punizione per il furto del fuoco ad opera di Prometeo.
E tuttavia le Sirene, diversamente dalle altre donne del poema, non hanno solo contiguità con il mondo animale, ma anche un rapporto stretto con il canto e con la musica. «Ho trovato le mie parole, la musica e la melodia, riarticolando la voce degli uccelli», ha scritto il poeta Alcmane. Per lui, come in seguito per i filosofi greci, musica e poesia, inestricabilmente connesse, si articolano su un materiale sonoro naturale, che viene dal mondo degli uccelli: ora le Sirene, tardivamente descritte come donne-pesce, sorta di ninfe marine al modo delle Oceanine e delle Nereidi, nella versione più antica del mito sono raffigurate proprio come donne-uccello. Al modo delle perfide Arpie. Come la Sfinge greca, donna-uccello che violenta i giovani maschi.

Queste creature saranno infine sconfitte. Non solo da Ulisse. Anche dal mitico cantore Orfeo, e prima ancora dalle Muse. Ecco: nella sfera attiva, limpida, assertiva, la musica è governata, come indica la radice stessa del termine, dalle Muse. La relazione delle Sirene col canto, invece, è perversa: le Sirene incarnano il “canto negativo”, la loro è la voce oscura della poesia. Se la Musa è la “collaboratrice attiva del poeta”, colei che lo aiuta nel lavoro salutare e salvifico di esprimere il proprio io, la Sirena rende passivo l’uomo che la ascolta, gli fa smarrire l’identità, lo perde; lo spinge nel vasto regno dell’oblio, antitetico a quello delle Muse, che sono figlie di Mnemosyne, della memoria, appunto.
La minaccia della seduttività femminile è dunque la regressione, la perdita del controllo e della coscienza. Che si esprima nelle droghe di Elena o negli incantesimi di Circe o nell’obliterazione della realtà minacciata da Calipso, o infine – genericamente – in ogni potere di seduzione sessuale femminile, il massimo timore dell’uomo greco è sempre quello di smarrire l’identità, di perdere i confini dell’io, di tornare allo stato indifferenziato della vita prenatale.
Allora la domanda è: quando diciamo a una donna che è una Sirena, come si usava nei salotti di fine Ottocento, che cosa le stiamo dicendo realmente? Non le stiamo dicendo che è una prostituta, ma molto peggio: che è una seduttrice che non ama, ma vuole la nostra morte; che è una che ci vuole a tutti i costi, per poi distruggerci. Pensiamo all’immagine evocativa, illuminante, della putrefazione dei corpi vittime delle Sirene contrapposta ai fiori che le attorniano...

Nell’immaginario moderno, è la Sirenetta di Hans Christian Andersen a rovesciare il mito: non è costei a far perire il marinaio, trascinandolo in una dimensione per lui insostenibile, ma esattamente il contrario. La Sirena diventa vittima, da carnefice che era. L’autore ribalta non solo la tradizione omerica, ma anche l’antica tradizione delle Nixen, le “ragazze dell’acqua”. Nelle saghe germaniche ricorre un racconto in cui la Nixe, abitatrice di un lago o di un fiume, esce dal suo elemento, va a vivere nella casa dell’uomo e gli dà un figlio. Poi però si rituffa nell’acqua, portando con sé il bambino e abbandonando definitivamente il partner. La Sirenetta rovescia dunque una tradizione preesistente, e risolve l’ancestrale inquietudine che questa rispecchia in una figura femminile di vittima innocua.
È probabile che questo sia l’inizio di una presa di coscienza della condizione femminile. Nell’età romantica germoglia un interesse per l’irrazionale, per il mondo ambiguo della natura, di cui la donna, come abbiamo visto, è considerata parte. Dietro la pietà di Andersen si intravede un’apertura del sentimento, di cui fa parte anche una visione meno timorosa della donna. Ma se fin dai primordi dell’immaginario occidentale la Sirena rappresenta il desiderio ingannevole, non può darsi che la nostra società, fondata ormai sulla libido effimera e divorante del consumismo, abbia in qualche modo assolto le Sirene? Che cos’è alla fine il nostro mondo, ipnotizzato dalla pubblicità, se non un grande, ininterrotto canto delle Sirene?

Dev’essere proprio così. Com’è vero che viviamo in una società buonista, che vuole stoltamente recuperare tutti, addomesticare i tigrotti, insegnare agli avvoltoi a non nutrirsi di carne, a trasformare quell’animale feroce che è l’orso in un teddy bear. Una società che vuole addolcire la natura. Senza rendersi più conto che non cogliere la diversità, la ferocia, il lato oscuro del mondo naturale, è molto pericoloso. Più pericoloso ancora, forse, del canto fascinoso delle Sirene!

 

   
   
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