Settembre 2008

Le “misure” scomparse

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Morte per globalizzazione
Michele Frankel
 
 
 

 

 

 

Il metro fu un
dono non richiesto:
qualcuno lo ha
definito un colpo
di Stato da parte della scienza,
poi esportato dalla Ragione, ma
sulla punta delle baionette.

 

«A tutti gli uomini, per tutti i tempi»: il marchese di Condorcet riteneva che la Francia dei Lumi avesse dato al mondo un dono eterno: il metro, misura scientifica delle cose, figlio della Ragione. E così è stato, se è vero, come è vero, che la globalizzazione sta cancellando voci di misurazioni che finora hanno identificato storie, economie, mercati, relazioni umane in vari Paesi del pianeta.
Dal 2010 in Inghilterra dovrà sparire, condannato a morte dall’Europa unita, l’acro, (dal latino ager), misura emblematica dei terreni, pari a 4.840 iarde quadrate, equivalenti a 4.046 metri quadri. Il catasto dovrà accettare soltanto le misure in ettari. L’acro raggiunge così il “furlong”, la “pertica”, il “rod”, il “chaldron”, il “cran”, il “cavallo vapore” e il “grado termico” britannico nel cimitero delle unità di misura imperiali trapassate insieme con le libbre, le pinte (i celebri 568 millilitri), le miglia.
Protagora aveva scritto che «l’uomo è la misura di tutte le cose». E lo è stato per davvero, per millenni. Cubito, una delle prime voci: la distanza tra la punta dell’indice e il gomito. Poi braccio, dito, pollice, unghia (in Birmania anche il capello). Si è contato il mondo con le membra umane. Fino al giorno in cui, tagliata la testa a Luigi XVI, il metro sostituì il “pied-du-roi” (pari a 32,48 centimetri) in nome della misura repubblicana e universale, che divideva per 40 mila la circonferenza meridiana della Terra.
Degli archeo-metri a misura d’uomo nel mondo anglosassone sopravvive solo il miglio: i “mille passi” (doppi e militareschi) con cui i calzari delle centurie romane tracciarono le vie dell’Impero.
Ma solo per poco. La globalizzazione incalza. Il mondo interconnesso reclama uniformità. Si può concedere uno spazio di nicchia al nobile “furlong” (un tiro di buoi) per certe corse dei cavalli, ma prima o poi dovremo fare i conti col convertitore tra gli “tsubo” giapponesi, i “peninkulma” finnici, i “li” cinesi, e le “verste” russe che ci richiamano alla memoria le profondità degli spazi e la grandiosità dei romanzi di Lev Tolstoj.

Del resto, furono proprio i Cahiers de doléances dell’89 a chiedere a gran voce di uniformare il marasma delle misure feudali, diverse tra borgo e borgo, caos comodissimo per baroni avidi e per mercanti truffaldini. Si chiedeva che un’auna fosse uguale a nord e a sud, e che un’oncia di grano comprato fosse uguale ovunque a un’oncia di grano venduto. Sicché i giacobini decisero di correre ai ripari. Ma non uniformarono, bensì unificarono tutte le misure, riassunte in una sola.
Il metro fu un dono non richiesto, invenzione di un gruppo di matematici e fisici. Qualcuno, fra l’altro, lo ha definito «un colpo di Stato della scienza», poi esportato dalla Ragione, ma sulla punta delle baionette.

Eppure l’estensione, la quantità pura e semplice, non è sempre la più importante informazione. In questo caso i tomoli, gli stai, le giornate dei nostri nonni erano più efficaci del nostro ettaro. Il campo che si ara in due giorni è diverso da quello che si ara in uno; il solco che ha bisogno di due moggi di semente è diverso da quello che per dare gli stessi frutti ne reclama quattro. A quei tempi la terra si misurava esattamente con la fatica che richiedeva, con le risorse che reclamava, addirittura con la fame che riusciva a soddisfare: ancora oggi gli appezzamenti di terra che alcune partecipanze agrarie dell’Emilia ridistribuiscono periodicamente ai millenari discendenti dei primi soci sulla base del numero dei componenti delle loro famiglie si chiamano “bocche”.
Ma è poi infallibile, il metro? La lunghezza di quel proto-metro di platino fuso nel 1799, calcolata nel fragore di guerre e ghigliottine da un pugno di ardimentosi studiosi in sei anni di triangolazioni topografiche lungo il meridiano che corre tra Dunquerque e Barcellona, fu sorprendentemente accurata.

La lunghezza di quella sbarra metallica è variabile al decimilionesimo di metro. Scarto ridicolo per chi costruisce un ponte o un grattacielo, ma enorme per chi lavora su microtecnologie che non tollerano errori superiori al decimilionesimo di millimetro. Sicché oggi il metro di riferimento non è più quello dei giacobini, un concreto frammento di crosta terrestre materializzato in un oggetto esposto al museo di Sèvres.
È lo spazio «pari a 1.650.763,73 lunghezze d’onda nel vuoto della radiazione corrispondente alla transizione fra i livelli 2p10 e 5d6 dell’atomo di cripto 86». Misura disumanizzata, comprensibile solo a poche migliaia di studiosi, e verificabile solo da poche decine di costoro.
Con buona pace di Condorcet, dunque, il metro non è mai stato di tutti gli uomini, (non lo è stato, ad esempio, per il calcolo del tempo o per le misure angolari) e forse non lo sarà per tutti i tempi. Da decenni c’è chi lavora per abbattere in futuro l’imperialismo decimale grazie a qualche altra misura “perfetta ed eterna”, ora impensabile, che sostituirà il sistema metrico decimale. Almeno questo lato umano continua a sopravvivere: come l’amore, le misure sono eterne finché durano.

 

   
   
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