Dicembre 2008

I TEMPI DELLA GRANDE CRISI

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UN LUNGO TUNNEL

Paul Krugman

Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

Tutto lascia intendere che siamo di fronte ad una recessione economica che sarà nello stesso tempo tremenda, spietata e lunga. Molto lunga.

 

Le autorità europee inizialmente non avevano fatto abbastanza per fermare la crisi. Tuttavia, le decisioni prese a Parigi nel mese di ottobre hanno superato le mie attese, sia in
termini di dimensioni sia per il coordinamento. Ora sono decisamente più ottimista. Ovviamente, nessuno può sapere che cosa accadrà domani, ma anche dai mercati finanziariè arrivata una risposta positiva, quindi tutto ci lascia presupporre che la fiducia sia maggiore oggi rispetto al recente passato. Il sistema delle garanzie era necessario.
A che punto è la notte? La fase più acuta si andrà sgonfiando nel corso dei prossimi mesi,
sempre che non accada nulla di nuovo. Le ricadute sull’economia reale dureranno invece
a lungo. Quando mi si chiede se io sia d’accordo sulla necessità di riformare le istituzioni
di Bretton Woods, rispondo che non ritengo che il sistema valutario sia stato causa o parte della Grande Crisi, al contrario di quanto è avvenuto per il terremoto delle Borse asiatiche nel 1997 e nel 1998; non ritengo che si debba riformare il sistema delle valute, altre cose senza dubbio sì. Oltre tutto, non sono mai stato in grado di farmi un’idea precisa sull’opportunità del G8, e meno che mai, dunque, del suo allargamento ai Paesi emergenti. Prima o poi sarà necessario prendere in considerazione Paesi come la Cina e l’India, perché stanno diventando economie sempre più importanti.
Allora, il messaggio è questo: innanzitutto è necessario far capire alla gente che le cose e
il mondo sono molto più complicati di come a volte vengono presentati. Nessuno avrebbe mai pensato che ciò che era accaduto in Asia nel 1997 poteva succedere negli Stati Uniti nel 2007-2008. La bolla immobiliare, la crisi del credito e tutto ciò che ne è seguito si sono verificati sotto gli occhi increduli di molti americani. Poi, è necessario ricordare alcuni semplici, ma fondamentali benefici che derivano dall’apertura internazionale degli scambi. Come mai in Svezia si producono e si esportano automobili Volvo, ma simultaneamente si importano Volkswagen e Fiat? Rispondere a questa domanda aiuta a comprendere e afferrare la più profonda natura del commercio internazionale tra Paesi quali l’Italia, la Francia, la Svezia e gli Stati Uniti, Paesi che appaiono tecnologicamente ed economicamente del tutto simili. Sicché si devono tenere in considerazione due fattori.
Il primo è rappresentato dalle preferenze dei consumatori. Tutti traiamo benefici dal poter
scegliere un bene all’interno di un vasto numero di beni differenziati. Pensiamo a un semplice maglione. Siamo intrinsecamente più soddisfatti nel poter scegliere e disporre di infinite piccole varietà di maglioni, distinguendoli in termini di qualità della lana, del colore, della forma, del design. Lo stesso discorso vale per le automobili. Nell’ex Unione Sovietica veniva prodotto e venduto praticamente un solo tipo di automobile. Un consumatore occidentale poteva e può invece scegliere tra una vasta gamma di modelli, con pochissima differenziazione tra l’una e l’altra, ma con l’innegabile sensazione che una maggiore possibilità di scelta fosse e sia associata a un maggiore beneficio.
Il secondo elemento fondamentale sono le economie di scala. Dal punto di vista della produzione, la maggior parte delle imprese beneficia di un mercato il più ampio possibile.
Maggiore è il mercato, maggiori sono le possibilità di sfruttare al meglio i propri impianti.
Sommando queste due semplici osservazioni, risulta evidente come il commercio internazionale tra Paesi simili aumenti il benessere di tutti i consumatori. L’apertura al commercio aumenta infatti la possibilità di scelta dei consumatori e al tempo stesso aumenta l’efficiente utilizzo delle tecnologie industriali. Ovviamente, la realtà è più complessa. Innanzitutto, perché nella realtà esistono i costi di trasporto, un fenomeno che rende particolarmente costoso e complicato il commercio internazionale tra Paesi molto distanti. Poi, la dispersione dell’attività economica e della popolazione sul territorio sono il risultato di una combinazione di forze di concentrazione e forze di decentramento. Non dobbiamo stupirci se emerge un mondo con grandi squilibri regionali, dove la maggior parte della popolazione vive in un centro di gravità ad alta tecnologia, mentre una piccola minoranza vive in zone periferiche e dipende dall’agricoltura. Le dinamiche della Cina di oggi, dove l’industrializzazione del Paese avviene insieme alla formazione di immense megalopoli vicine a Shanghai e Pechino, sembrano una naturale applicazione di questa teoria. Tornando a bomba sul tema centrale: tutto lascia intendere che siamo di fronte ad una recessione economica che sarà nello stesso tempo tremenda, spietata e lunga.
Quanto tremenda? Il tasso di disoccupazione ha già superato il 6 per cento (e gli indici complessivi di sottoccupazione sono nell’ordine delle due cifre). È ormai praticamente
sicuro che il tasso dell’inoccupazione supererà il 7 per cento e forse addirittura l’8 per cento, facendo di questa la peggiore recessione degli ultimi venticinque anni.

Il “Big Board”
di New York, la Borsa Valori più grande del mondo per volumi di scambi. - Archivio BPP
Il “Big Board” di New York, la Borsa Valori più grande del mondo per volumi di scambi. - Archivio BPP

Quanto lunga? Potrebbe essere davvero molto lunga. Occorre tener presente quel che è accaduto in occasione dell’ultima recessione, che fece seguito allo scoppio della bolla tecnologica alla fine degli anni Novanta. A prima vista, la risposta politica a quella recessione sembra quasi un gran successo. Sebbene fosse alquanto diffusa la paura che gli Usa avrebbero sperimentato un “decennio perduto” in stile nipponico, non è accaduto niente di simile: la Fed è stata in grado di concertare una ripresa da quella recessione, tagliando i tassi d’interesse.

Pensatore ed educatore del periodo Meiji, Nitobe Inazo (1862-1933), sul fronte di una banconota giapponese da 5.000 yen. - Archivio BPP
Pensatore ed educatore del periodo Meiji, Nitobe Inazo (1862-1933), sul fronte di una banconota giapponese da 5.000 yen. - Archivio BPP


La verità è che per qualche tempo siamo sembrati davvero giapponesi: la Federal Reserve ha avuto le sue belle difficoltà a fare da traino. Malgrado i ripetuti tagli dei tassi d’interesse – che alla fine hanno fatto scendere addirittura all’1 per cento il tasso dei fondi federali – la disoccupazione non ha fatto altro che salire. Sono stati necessari più di due anni perché la situazione del mondo del lavoro iniziasse a migliorare. E quando finalmente è arrivata una ripresa convincente, è stato soltanto perché Alan Greenspan era riuscito a sostituire alla bolla tecnologica la bolla immobiliare. Adesso è toccato alla bolla immobiliare scoppiare a sua volta, lasciando il panorama finanziario disseminato di rovine. Ed è davvero difficile presumere che questo mercato possa ripartire in un immediato futuro. Non è neanche chiaro se ci sia un’altra bolla ancora in fase di formazione.
Quindi la Fed questa volta riscontrerà più difficoltà che in passato a intervenire con successo.
In sintesi: non c’è molto che Ben Bernanke possa fare per l’economia. D’altra parte, però, molto può fare il Governo federale. Può assegnare benefit più consistenti ai disoccupati, il che servirà sia ad aiutare le famiglie in difficoltà ad affrontare i problemi, sia a mettere denaro nelle mani di coloro che hanno maggiori probabilità di spenderlo. Può assegnare aiuti di emergenza ai governi statali e locali, così che questi non siano costretti a procedere a drastici tagli di spesa che declassano i servizi pubblici e al tempo stesso cancellano i posti di lavoro. Può comperare i mutui in blocco (ma non al valore nominale), e ripianificarne condizioni e scadenze per aiutare le famiglie a tenersi le proprie case.
I tempi sono anche maturi per impegnarsi in spese per realizzare qualche seria infrastruttura di cui il Paese ha terribilmente bisogno in ogni caso. Ciò che occorre in questo momento è una più apprezzabile spesa governativa. La cosa responsabile da fare,
per il momento, è dare all’economia tutto l’aiuto di cui ha bisogno. Questo non è proprio il momento di preoccuparsi del deficit.

   
   
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