Il ruolo politico
degli Stati Uniti
non è più centrale,
non come lo è
stato per tutta
la seconda metà
del Novecento,
quando la potenza
americana aveva
suo malgrado
responsabilità
enormi nel mondo.
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L’America, scrisse Dos Passos nel 1930 nel
suo 42° parallelo, «darà tinta e direzione al
Ventesimo Secolo». Così è stato in effetti:
nel Novecento tutto il mondo ha imitato
l’America nei costumi, nelle aspirazioni,
nella cultura. Gli Stati Uniti sono stati la
locomotiva culturale ed economica e insieme
il paladino del liberalismo politico nel
mondo.
Molte cose però sono cambiate e vanno
sempre più cambiando in questi primi anni
del terzo millennio. È in atto uno spostamento
degli equilibri del potere a livello
globale. Il mondo disegnato a Yalta dai
vincitori della Seconda guerra mondiale è
residuo di storia, sommerso da equilibri
geopolitici nuovi.
Sta entrando tra i cascami della storia anche
il collasso dell’Unione Sovietica, che
Putin, quando si installò al Cremlino, definì
«la più grande catastrofe geopolitica
del ventesimo secolo». C’è una nuova Russia,
territorialmente ridimensionata, non
più Urss ma con una gran voglia di uscire
dalle condizioni di inferiorità in cui Putin
la ereditò da Gorbaciov ed Eltsin. E c’è un
terzo grande protagonista a livello mondiale,
la Cina, con il suo miliardo e trecento
milioni di abitanti e soprattutto con il
suo potenziale economico e industriale.
Merita d’essere citato un particolare della
biografia di Putin. Di ritorno dalla sua
missione come ufficiale del Kgb nella Germania
dell’Est, Putin negli anni Novanta
fu in servizio a Pietroburgo come assistente
del sindaco. Appena quarantenne (nato
nel 1952, oggi ha 56 anni), decise di concorrere
ad una cattedra di associato all’Istituto
minerario di Pietroburgo. Ed ecco
il particolare poco conosciuto: egli presentò
una tesi sull’Utilizzo delle risorse naturali per la potenza del Paese (testuale). In
sostanza, aveva già in testa quale fosse lo
strumento per ridare alla Russia, sfiancata
dalla politica sovietica, un nuovo primato.
Sognava la “Grande Russia”, ch’è stata,
come oggi appare chiaro, il suo obiettivo
fin da quando Eltsin gli passò il potere.
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Archivio BPP |
Il confronto Usa-Urss, negli anni della
Guerra fredda, fu essenzialmente ideologico
e militare. Con Putin sta diventando
politico-economico. Lo strumento di Putinè con tutta evidenza un capitalismo di Stato,
fortemente nazionalistico. Ha puntato
tutto, come teorizzò nella sua tesi accademica,
sulle risorse naturali del Paese, tanto
da far diventare la Russia, quale in effetti è
oggi, la fornitrice di energia all’Europa,
sicché è realistico considerare il Vecchio
Continente quasi un satellite economico
dell’ex Impero russo.
Paradigma della nuova politica di Putin è
il caso Georgia, che sta trasmettendo al
mondo l’immagine di una Russia che ha ritrovato
la sua forza e non nasconde le sue
ambizioni. Non c’è dietro, non ora almeno,
un progetto neoimperiale, ma è certo
che siamo di fronte ad una Russia che cercherà
di imporre la propria iniziativa, disposta
sì a qualche compromesso inevitabile,
ma mai a piegarsi. È significativa
un’affermazione di Medvedev, il giovane
capo dello Stato scelto da Putin: «La Russia è uno dei tre rami della civiltà europea». Il che vuol dire che il Cremlino intende
darsi un’immagine europeista. L’affermazione
di Medvedev è tesa evidentemente
a rassicurare un’Europa preoccupata,
promettendo rapporti pacifici. E però
le truppe russe rimangono a presidiare
Abkhazia e Ossezia. Se gli Stati Uniti inviano
qualche nave al largo della Crimea,
la Russia ne invia qualcuna delle sue nel
mare delle Antille.
Insomma, il mondo sta vivendo una nuova
e imprevista fase politica e militare, di cui è difficile dare la misura e prevedere le
conseguenze. Gli Stati Uniti hanno risposto
come potevano, con fermezza ma attenti
a non far precipitare le cose, impegnati
come sono stati all’interno con le elezioni
presidenziali e con la crisi economica
e finanziaria, all’esterno con presenze militari
in molte parti del mondo.
L’Europa ha cercato di affermare la sua
presenza in questa grave vicenda internazionale,
con scarsi risultati però. Sarkozy,
profittando del semestre presidenziale della
Francia in Europa, ce l’ha messa tutta, ma
ne ha ricavato solo promesse, come s’è visto.
D’altra parte, quale possibilità ha l’Europa
di cavarsela da sola in una situazione
difficile e delicata qual è il caso Georgia? È
vero che questa crisi ha in qualche modo
ravvivato lo spirito europeo, facendo sperare
che finalmente ne venisse un’autentica e
concreta unità continentale, ma così com’è
l’Europa non è in grado di fare nulla di decisivo.È elementare: la voce grossa non vale
se dietro non c’è una capacità concreta di
reazione in caso di necessità.
La realtà è che l’Europa non può fare a
meno della potenza americana in una contrapposizione
con una potenza qual è oggi
di nuovo la Russia. In questa vicenda c’è
un aspetto che ci riguarda direttamente.
Lo ha rilevato polemicamente, con poca
eleganza in verità, l’ex ministro inglese Denis
McShane, uomo di Blair: «È sorprendente – ha detto – che proprio Silvio Berlusconi,
un tempo beniamino della destra
americana, abbia giocato l’improbabile
ruolo dell’avvocato di Putin». Ma sì, riconosciamolo,
l’Europa non è in grado di
contrastare da sola alcuna iniziativa politica
e militare.
È certamente auspicabile che l’Europa dei
27, qual è oggi, arrivi ad essere un valido
contrappeso tra Russia e Stati Uniti e in grado
perciò di prendere iniziative autonome,
ma dove sono strutture, energie, soprattutto
una volontà unitaria per svolgere un simile
ruolo? Allo stato delle cose, l’Europa può far
conto solo sull’articolo 5 dell’Alleanza
Atlantica, che equipara l’attacco ad uno dei
Paesi membri ad un attacco contro tutti. Che
cosa sarebbe l’Alleanza senza l’America? Oggi
come oggi l’intelligenza politica europea
deve guardarsi dal commettere l’errore che
commise nel 1938 Chamberlain, che a Monaco
sottovalutò Hitler.
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Boston:In primo piano,in un gioco di specchi,
un particolare della Trinity Church. - Dario Carrozzini |
In questo complesso e problematico quadro
va considerato indubbiamente che il
ruolo politico degli Stati Uniti non è più
centrale, non come lo è stato per tutta la
seconda metà del Novecento, quando la
potenza americana ha finito per assumere
responsabilità enormi nel mondo, forse più
in forza di avvenimenti che l’hanno investita
e coinvolta che per scelta e volontà
propria.
Neppure l’Impero romano ebbe
responsabilità in eguale misura.
Ho già citato la “profezia” letteraria degli
anni Trenta di Dos Passos, ma già nell’Ottocento,
dopo la conquista delle Filippine,
un senatore americano, Beveridge, si esprimeva
così con accenti lirici: «La legge americana,
l’ordine americano, la civiltà americana
si stabiliranno su molte rive». Né va
dimenticato l’idealismo liberal di Woodrow
Wilson, che all’America assegnava addirittura
una “leadership spirituale”.
L’America del Novecento già alla fine dell’Ottocento,
occupando le Filippine (1898),
aveva ripudiato la dottrina del presidente
Monroe, che si opponeva a qualsiasi intervento
europeo negli affari americani e nel
contempo fissava confini strettamente americani
per la propria politica estera. Fu
Wilson a fare il grande passo verso l’Europa
con la partecipazione alla Prima guerra
mondiale. Poi, dopo Pearl Harbor, venne
la grande politica rooseveltiana.
Tra Europa e America c’è stata luna di
miele fino agli anni immediatamente postbellici,
poi a partire dagli anni Sessanta sono
affiorati dissapori. Cominciarono in
Francia con De Gaulle (uscì dalla Nato nel
1966), e furono nutriti soprattutto dai cattivi
umori di politici e intellettuali. Vanno
citati gli scritti polemici di Servan-Schreiber
e Claude Julien. Quest’ultimo, grande
firma di Le Monde, pubblicò in quegli anni
un libro intitolato L’Impero americano, che
attaccava duramente il ruolo universalista
degli Stati Uniti.
In Italia l’antiamericanismo fu soprattutto della sinistra estrema, diffuso poi negli ultimi decenni con caratteri di sprezzo da
certo intellettualismo che tendeva a far apparire
l’America come espressione di un cinico
imperialismo economico, tranne poi
fare come taluni personaggi – caso tipico
quello di Walter Veltroni – che si sono
spesso esibiti in manifestazioni incoerenti
con l’adozione del kennedismo, del clintonismo
e poi dell’obamismo come modello
culturale e politico.
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Il Globo della Trump Tower,a Columbus Circle,
New York. - ICP, Milano |
Un fenomeno di provincialismo e, si direbbe,
di dipendenza psicologica, che segnala
ambiguità e soprattutto disorientamento
ideologico.
Otto anni fa circa, durante uno dei miei
tanti viaggi negli Stati Uniti, mi capitò di
leggere sul Los Angeles Times l’acuta analisi
di uno studioso della West Coast,
Adrian Wooldridge, dal titolo significativo:“È in declino l’Impero americano?”.
Ne discussi con amici americani e rammento
che mi venne citata l’opinione di
Mortimer B. Zuckerman, editore del prestigioso
settimanale U.S. News and World Report, il quale sosteneva, al contrario della
problematica tesi di Wooldridge, che
certamente anche il Ventunesimo Secolo
sarebbe appartenuto all’America.
Sono passati più di otto anni da allora e
francamente trovo che sia assai difficile sostenere
ancora oggi con tanta sicurezza che
nel futuro del mondo ci sarà per tutto il
Ventunesimo Secolo l’american way of life.
Nel suo scritto Wooldridge paragonava
l’America di fine secolo Ventesimo all’Inghilterra
vittoriana, grande sì ma destinata,
com’è avvenuto, al ridimensionamento.
Confesso che anch’io i miei dubbi sulla capacità
di resistenza della potenza americana
li ho. Sono dubbi frutto di razionalità,
non certo di sentimenti. Quando sbarcai la
prima volta a New York, era il 1956, dopo
una traversata atlantica a bordo del “Giulio
Cesare”, avevo appena finito di leggere America primo amore di Mario Soldati, che
avevo trovato su una bancarella romana
che stanziava di fronte al “Plaza”, in via
del Corso. Era la prima edizione Bemporad
del 1935, che regalai ad un amico di
Los Angeles. Di quel libro mi rimase nel
cuore, dopo il lungo viaggio attraverso alcuni
Stati americani, questa frase: «Qualunque
europeo può, da un momento all’altro,
ammalarsi d’America». Un po’ ammalato
d’America lo sono ancora, perché
la storia che ho vissuto nel secondo Novecento
mi ha convinto che gli Stati Uniti,
pur non immuni da difetti, hanno accompagnato
negli ultimi sessanta-settant’anni
il cammino della libertà nel mondo.
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