Dicembre 2008

CHE MONDO FA

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LA PROFEZIA DI DOS PASSOS

Egidio Sterpa

 
 
 

 

 

Il ruolo politico degli Stati Uniti non è più centrale, non come lo è stato per tutta la seconda metà del Novecento, quando la potenza americana aveva suo malgrado responsabilità enormi nel mondo.

 

L’America, scrisse Dos Passos nel 1930 nel suo 42° parallelo, «darà tinta e direzione al
Ventesimo Secolo». Così è stato in effetti: nel Novecento tutto il mondo ha imitato l’America nei costumi, nelle aspirazioni, nella cultura. Gli Stati Uniti sono stati la locomotiva culturale ed economica e insieme il paladino del liberalismo politico nel mondo.
Molte cose però sono cambiate e vanno sempre più cambiando in questi primi anni del terzo millennio. È in atto uno spostamento degli equilibri del potere a livello globale. Il mondo disegnato a Yalta dai vincitori della Seconda guerra mondiale è residuo di storia, sommerso da equilibri geopolitici nuovi.
Sta entrando tra i cascami della storia anche il collasso dell’Unione Sovietica, che Putin, quando si installò al Cremlino, definì «la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo». C’è una nuova Russia, territorialmente ridimensionata, non più Urss ma con una gran voglia di uscire dalle condizioni di inferiorità in cui Putin la ereditò da Gorbaciov ed Eltsin. E c’è un terzo grande protagonista a livello mondiale, la Cina, con il suo miliardo e trecento milioni di abitanti e soprattutto con il suo potenziale economico e industriale. Merita d’essere citato un particolare della biografia di Putin. Di ritorno dalla sua missione come ufficiale del Kgb nella Germania dell’Est, Putin negli anni Novanta fu in servizio a Pietroburgo come assistente del sindaco. Appena quarantenne (nato nel 1952, oggi ha 56 anni), decise di concorrere ad una cattedra di associato all’Istituto minerario di Pietroburgo. Ed ecco il particolare poco conosciuto: egli presentò una tesi sull’Utilizzo delle risorse naturali per la potenza del Paese (testuale). In sostanza, aveva già in testa quale fosse lo strumento per ridare alla Russia, sfiancata dalla politica sovietica, un nuovo primato. Sognava la “Grande Russia”, ch’è stata, come oggi appare chiaro, il suo obiettivo
fin da quando Eltsin gli passò il potere.

Archivio BPP
Archivio BPP


Il confronto Usa-Urss, negli anni della Guerra fredda, fu essenzialmente ideologico e militare. Con Putin sta diventando politico-economico. Lo strumento di Putinè con tutta evidenza un capitalismo di Stato, fortemente nazionalistico. Ha puntato tutto, come teorizzò nella sua tesi accademica, sulle risorse naturali del Paese, tanto da far diventare la Russia, quale in effetti è oggi, la fornitrice di energia all’Europa, sicché è realistico considerare il Vecchio Continente quasi un satellite economico dell’ex Impero russo.
Paradigma della nuova politica di Putin è il caso Georgia, che sta trasmettendo al mondo l’immagine di una Russia che ha ritrovato la sua forza e non nasconde le sue ambizioni. Non c’è dietro, non ora almeno, un progetto neoimperiale, ma è certo che siamo di fronte ad una Russia che cercherà di imporre la propria iniziativa, disposta sì a qualche compromesso inevitabile, ma mai a piegarsi. È significativa un’affermazione di Medvedev, il giovane capo dello Stato scelto da Putin: «La Russia è uno dei tre rami della civiltà europea». Il che vuol dire che il Cremlino intende darsi un’immagine europeista. L’affermazione di Medvedev è tesa evidentemente a rassicurare un’Europa preoccupata,
promettendo rapporti pacifici. E però le truppe russe rimangono a presidiare Abkhazia e Ossezia. Se gli Stati Uniti inviano qualche nave al largo della Crimea, la Russia ne invia qualcuna delle sue nel mare delle Antille.
Insomma, il mondo sta vivendo una nuova e imprevista fase politica e militare, di cui è difficile dare la misura e prevedere le conseguenze. Gli Stati Uniti hanno risposto come potevano, con fermezza ma attenti a non far precipitare le cose, impegnati come sono stati all’interno con le elezioni presidenziali e con la crisi economica e finanziaria, all’esterno con presenze militari in molte parti del mondo.
L’Europa ha cercato di affermare la sua presenza in questa grave vicenda internazionale,
con scarsi risultati però. Sarkozy, profittando del semestre presidenziale della Francia in Europa, ce l’ha messa tutta, ma ne ha ricavato solo promesse, come s’è visto. D’altra parte, quale possibilità ha l’Europa di cavarsela da sola in una situazione difficile e delicata qual è il caso Georgia? È vero che questa crisi ha in qualche modo ravvivato lo spirito europeo, facendo sperare che finalmente ne venisse un’autentica e concreta unità continentale, ma così com’è l’Europa non è in grado di fare nulla di decisivo.È elementare: la voce grossa non vale se dietro non c’è una capacità concreta di reazione in caso di necessità.
La realtà è che l’Europa non può fare a meno della potenza americana in una contrapposizione con una potenza qual è oggi di nuovo la Russia. In questa vicenda c’è
un aspetto che ci riguarda direttamente. Lo ha rilevato polemicamente, con poca eleganza in verità, l’ex ministro inglese Denis McShane, uomo di Blair: «È sorprendente – ha detto – che proprio Silvio Berlusconi, un tempo beniamino della destra americana, abbia giocato l’improbabile ruolo dell’avvocato di Putin». Ma sì, riconosciamolo, l’Europa non è in grado di contrastare da sola alcuna iniziativa politica e militare.
È certamente auspicabile che l’Europa dei 27, qual è oggi, arrivi ad essere un valido contrappeso tra Russia e Stati Uniti e in grado perciò di prendere iniziative autonome, ma dove sono strutture, energie, soprattutto una volontà unitaria per svolgere un simile ruolo? Allo stato delle cose, l’Europa può far conto solo sull’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica, che equipara l’attacco ad uno dei Paesi membri ad un attacco contro tutti. Che cosa sarebbe l’Alleanza senza l’America? Oggi come oggi l’intelligenza politica europea deve guardarsi dal commettere l’errore che commise nel 1938 Chamberlain, che a Monaco
sottovalutò Hitler.

Boston:In primo piano,in un gioco di specchi,
un particolare della Trinity Church. - Dario Carrozzini
Boston:In primo piano,in un gioco di specchi, un particolare della Trinity Church. - Dario Carrozzini


In questo complesso e problematico quadro va considerato indubbiamente che il ruolo politico degli Stati Uniti non è più centrale, non come lo è stato per tutta la seconda metà del Novecento, quando la potenza americana ha finito per assumere responsabilità enormi nel mondo, forse più in forza di avvenimenti che l’hanno investita e coinvolta che per scelta e volontà propria.
Neppure l’Impero romano ebbe responsabilità in eguale misura.
Ho già citato la “profezia” letteraria degli anni Trenta di Dos Passos, ma già nell’Ottocento, dopo la conquista delle Filippine, un senatore americano, Beveridge, si esprimeva così con accenti lirici: «La legge americana, l’ordine americano, la civiltà americana si stabiliranno su molte rive». Né va dimenticato l’idealismo liberal di Woodrow Wilson, che all’America assegnava addirittura una “leadership spirituale”.
L’America del Novecento già alla fine dell’Ottocento, occupando le Filippine (1898), aveva ripudiato la dottrina del presidente Monroe, che si opponeva a qualsiasi intervento
europeo negli affari americani e nel contempo fissava confini strettamente americani per la propria politica estera. Fu Wilson a fare il grande passo verso l’Europa con la partecipazione alla Prima guerra mondiale. Poi, dopo Pearl Harbor, venne la grande politica rooseveltiana.
Tra Europa e America c’è stata luna di miele fino agli anni immediatamente postbellici,
poi a partire dagli anni Sessanta sono affiorati dissapori. Cominciarono in Francia con De Gaulle (uscì dalla Nato nel 1966), e furono nutriti soprattutto dai cattivi umori di politici e intellettuali. Vanno citati gli scritti polemici di Servan-Schreiber e Claude Julien. Quest’ultimo, grande firma di Le Monde, pubblicò in quegli anni un libro intitolato L’Impero americano, che attaccava duramente il ruolo universalista degli Stati Uniti.
In Italia l’antiamericanismo fu soprattutto della sinistra estrema, diffuso poi negli ultimi decenni con caratteri di sprezzo da certo intellettualismo che tendeva a far apparire l’America come espressione di un cinico imperialismo economico, tranne poi fare come taluni personaggi – caso tipico quello di Walter Veltroni – che si sono spesso esibiti in manifestazioni incoerenti con l’adozione del kennedismo, del clintonismo e poi dell’obamismo come modello culturale e politico.

Il Globo della Trump Tower,a Columbus Circle,
New York. - ICP, Milano
Il Globo della Trump Tower,a Columbus Circle, New York. - ICP, Milano


Un fenomeno di provincialismo e, si direbbe, di dipendenza psicologica, che segnala ambiguità e soprattutto disorientamento ideologico.
Otto anni fa circa, durante uno dei miei tanti viaggi negli Stati Uniti, mi capitò di leggere sul Los Angeles Times l’acuta analisi di uno studioso della West Coast, Adrian Wooldridge, dal titolo significativo:“È in declino l’Impero americano?”. Ne discussi con amici americani e rammento che mi venne citata l’opinione di Mortimer B. Zuckerman, editore del prestigioso settimanale U.S. News and World Report, il quale sosteneva, al contrario della problematica tesi di Wooldridge, che certamente anche il Ventunesimo Secolo sarebbe appartenuto all’America. Sono passati più di otto anni da allora e francamente trovo che sia assai difficile sostenere ancora oggi con tanta sicurezza che nel futuro del mondo ci sarà per tutto il Ventunesimo Secolo l’american way of life. Nel suo scritto Wooldridge paragonava l’America di fine secolo Ventesimo all’Inghilterra vittoriana, grande sì ma destinata, com’è avvenuto, al ridimensionamento.
Confesso che anch’io i miei dubbi sulla capacità di resistenza della potenza americana li ho. Sono dubbi frutto di razionalità, non certo di sentimenti. Quando sbarcai la prima volta a New York, era il 1956, dopo una traversata atlantica a bordo del “Giulio Cesare”, avevo appena finito di leggere America primo amore di Mario Soldati, che avevo trovato su una bancarella romana che stanziava di fronte al “Plaza”, in via del Corso. Era la prima edizione Bemporad del 1935, che regalai ad un amico di Los Angeles. Di quel libro mi rimase nel cuore, dopo il lungo viaggio attraverso alcuni Stati americani, questa frase: «Qualunque europeo può, da un momento all’altro, ammalarsi d’America». Un po’ ammalato d’America lo sono ancora, perché la storia che ho vissuto nel secondo Novecento mi ha convinto che gli Stati Uniti, pur non immuni da difetti, hanno accompagnato negli ultimi sessanta-settant’anni il cammino della libertà nel mondo.

   
   
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