Tutti gli Imperi
sono caduti sotto
la spinta di due
eventi correlati:
guerra e debito.
L'America non
sfugge allo stesso
destino, sottoposta
ai costi della
guerra in Iraq
e della gigantesca
bolla del credito. |
|
Il primo Rapporto che il Presidente americano
Barack Obama troverà sulla scrivania
dello Studio Ovale alla Casa Bianca, a fine
gennaio 2009, si intitolerà Global Trends 2025. Lo redige ogni quattro anni il “National
Intelligence Council”, il centro studi dei
servizi segreti statunitensi. La firma in calce
al documento è di Thomas Fingar, il capo
di tutti gli analisti, un poliglotta che parla e
legge anche cinese e tedesco.
Ai primi di settembre Fingar ha anticipato
sommariamente le sue conclusioni, prospettando
le sfide future che dovrà affrontare
l’America, non soltanto a livello geopolitico,
ma anche ambientale, con il progressivo
mutamento del clima, la siccità, la penuria
di cibo e di acqua potabile, che potrebbero
provocare guerre locali in un’area che va
dal nord della Cina al Corno d’Africa.
Nell’insieme, una doccia gelida, nel momento
in cui si dispiegava la crisi finanziaria di
Wall Street, con ripercussioni a catena in
tutto il mondo: «Gli Stati Uniti resteranno
la potenza preminente, ma la supremazia
sarà molto ridotta. La leadership americana
sarà erosa a velocità esponenziale sia in
campo politico sia in quello economico e
con ogni probabilità anche nella cultura».
Secondo una tesi attualmente diffusa, è iniziato
il declino dell’Impero americano.«Siamo in presenza di una storica trasformazione
geopolitica, nella quale la “balance
of power” è stata alterata in maniera irrevocabile», afferma il filosofo britannico John
Gray; «l’era della leadership globale degli
Stati Uniti è finita». E se lo sostiene lui, il
teorico del thatcherismo, c’è da prepararsi
ad affrontare «tempi incerti e complessi».
Tutti gli Imperi sono caduti sotto la spinta
di due eventi correlati: la guerra e il debito.È successo all’Impero Britannico dopo il
primo conflitto mondiale, e a quello dell’Urss
umiliata in Afghanistan e schiacciata
dalla sfida reaganiana delle Guerre Stellari.
L’America non sfugge allo stesso destino,
sottoposta com’è ai costi della guerra in
Iraq
(3 miliardi di dollari ogni settimana) e
della gigantesca bolla del credito.
 |
Dario Carrozzini |
Addio «Unipolar moment», come lo definì
nel suo saggio dopo la caduta del Muro di
Berlino il premio Pulitzer Charles Krauthammer.
Entra la nuova era, quella della non-polarità,
secondo la formula di Richard Haas,
presidente del Council on Foreign Relations
di New York.
Secondo Haas, il futuro ordine mondiale
multipolare si baserà su sei principali potenze:
Stati Uniti, Cina, Unione Europea,
India, Giappone e Russia. Accanto a queste,
una serie di importanti attori regionali:
Brasile e Venezuela, in America Latina;
Egitto, Nigeria e Sudafrica nel Continente
Nero; Iran, Israele e Arabia Saudita nel Vicino
Oriente; Australia, Indonesia e Corea
del Sud, in Asia e in Oceania. E, per finire, i
nuovi centri di potere: dal Fondo monetario
internazionale alla Banca mondiale, fino
alle organizzazioni non governative, agli
Imperi mediatici e ai Fondi sovrani.
Il problema è che l’America, pur rimanendo
l’unica superpotenza ad avere una visione
globale del mondo, non ha elaborato un’efficace
strategia globale; l’11 settembre ha
stravolto ogni possibile pianificazione politica;
ha prevalso una sindrome imperiale, la
necessità di scombussolare gli assetti, per
poi riequilibrarli a proprio vantaggio: lo sostiene
Gianluca Ansalone, autore del saggio I nuovi imperi. Solo che oggi tramontano
anche, insieme con la primazia, l’ideologia
(il “turbocapitalismo” senza regole), il modello
economico che fa perno su un deficit
di 800 miliardi di dollari l’anno, e lo stesso
dollaro. Il biglietto verde non è più la moneta
per eccellenza, abbandonata com’è
progressivamente da grandi Banche centrali
del mondo e da alcuni Paesi petroliferi, che
nei contratti preferiscono transazioni in euro,
in yen o in franchi svizzeri.
 |
Londra: La Fontana dei Cavalli, all’incrocio di Regent Street, Piccadilly, Haymarket e Shaftesbury Avenue. - Carlo Stasi |
Se in politica c’è il vuoto, qualcuno è sempre
pronto ad occuparne gli spazi lasciati liberi.
Il premier russo, Putin, non ha aspettato
molto. Dopo aver ristabilito il primato navale
nel Mar Nero, ha deciso di allungare il
suo raggio d’azione fino al Mediterraneo,
dove è in rapida costruzione la base navale
di Tartus, in Siria. Lì ormeggerà la portaerei Admiral Kuznetsov, appoggiata dal più grande
incrociatore della Federazione Russa, il Moskva, e da quattro sottomarini nucleari.
Tornata dapprima potenza energetica e subito
dopo potenza globale in Medio Oriente,
la Russia ha ridato forza ai Paesi antagonisti
degli Stati Uniti, come l’Iran (oltre che
la Siria, che pure era tentata da un trattato
di pace con Israele). Gli Stati arabi moderati (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) appaiono
disorientati e meditano se non sia il caso
di riallacciare i rapporti con la Russia.
E non basta. Mosca si protende fino ai Caraibi,
dove ha trovato un alleato nel leader
antiamericano per eccellenza, Hugo Chávez,
il presidente del Venezuela. Un altro
schiaffo: quando la Nasa nel 2010 chiuderà
il programma spaziale degli Shuttle, gli
astronauti americani saranno costretti a volare
almeno fino al 2015 soltanto sulle
Soyuz, in attesa della nuova generazione di
navicelle statunitensi.
 |
Presso Giakarta,i banchi di un mercato di frutta e verdura.Anche per l’Indonesia,la crescita del Pil nel 2009 è stata rivista al ribasso, a causa della debolezza dell’economia - ICP, Milano |
Anche la Cina sta avvantaggiandosi della
progressiva erosione dell’influenza politica
Usa, soprattutto in Africa e in Asia, al punto
che oggi un ambasciatore cinese in quelle
latitudini sembra contare assai più di uno
americano.
Tutto questo non promette nulla di buono.
La perdita di tanti primati (dall’industria
manifatturiera a quella di Hollywood) non è solo questione di orgoglio nazionale: ha
profonde implicazioni negative anche per il
resto del mondo. La tentazione è il ritorno
al nazionalismo e al protezionismo, proprio
nel momento in cui la globalizzazione ha legato
l’uno all’altro i Paesi del pianeta.«I governi agiscono solo in stato di necessità
e non colgono la necessità se non nella
crisi». Sarà ancora una volta la massima di
Jean Monnet a dischiudere nuove prospettive
all’Europa? La Cancelliera tedesca e il
Premier francese hanno evocato all’ombra
del generale De Gaulle il patto carolingio
che aveva avviato l’integrazione del Vecchio
Continente. Sarebbe stato un gesto soltanto
nostalgico se Sarkozy, per superare la
tempesta finanziaria che ha sconvolto le
due rive dell’Atlantico, non avesse anche
riunito l’Eurogruppo al suo livello più alto:
un’iniziativa in grado di recuperare gli elementi
strutturali, senza i quali l’Europa sarebbe
la vittima più illustre in quello che alcuni
chiamano il secolo, se non proprio anti-americano, certamente post-americano.Alla fine del tunnel, l’Europa uscirà con un
proprio profilo più marcato. O altrimenti finirà
risucchiata dalla storia. La crisi segna il
fallimento di una forma di governo della globalizzazione,
ma non del governo della globalizzazione.
Gli Stati riemergono come attori
indispensabili e scoprono allo stesso tempo
la loro finitezza. I mercati sono più capaci dei
Governi di raccogliere capitali, di innovare,
di cogliere le preferenze degli individui. Ma in
circostanze eccezionali soltanto i Governi dispongono
delle risorse sufficienti.
Senza le gravi turbolenze del passato, i Governi
e le Banche centrali non avrebbero
trovato la forza di rinunciare alla sovranità
monetaria. Oggi la bufera investe l’economia
e la moneta, che sono il cuore della costruzione
europea. L’Unione è, tuttora, come
sospesa intorno alle sorti del Trattato di
Lisbona. Ma possiede già un nucleo duro
che si avvale di strumenti molto forti.
L’euro dovrebbe essere la trincea ultima intorno
alla quale arrestare ogni rischio di
sgretolamento. Il multipolarismo tocca anche
la moneta. Il dollaro, che già con la fine
della convertibilità in oro aveva divorziato
dal mondo reale, non potrà più essere il solo
standard oggettivo e universale delle relazioni
economiche internazionali. Come la
sterlina nell’età dell’Impero britannico, il
marco tedesco nell’Europa comunitaria,
ora anche il dollaro sconta l’incompatibilità
tra la funzione di moneta nazionale e quella
di unità di misura globale. La fiducia assoluta
nella divisa americana nasceva anche
dalla condizione degli Stati Uniti di garanti
ultimi della sicurezza occidentale nel sistema
bipolare e di Paese egemone in quello
che gli era succeduto.
 |
La bandiera a stelle e strisce sul Campidoglio
di Washington, sede del Congresso americano. E proprio dal Congresso, a metà novembre, la proposta di un piano da 700-1.000 miliardi di dollari in investimenti per la crescita e per nuovi posti di lavoro. - ICP, Milano |
La disfatta economica comporta una delegittimazione dell’unica superpotenza. Si attenua
la fiducia che aveva indotto tanti popoli
a mettere nelle mani americane i propri
risparmi. Ogni timore reverenziale verso
quel potere politico è venuto meno, almeno
in questa fase critica, e in attesa di eventuali futuri sviluppi positivi. Un mercato basato
sul dollaro, una distruzione creatrice sospinta
dalla finanza, non saranno più le forze
capaci di portare avanti l’occidentalizzazione
del pianeta. Tramontano vecchie forze
produttive, esplodono nuove fonti di ricchezza.
Spetta a un’Europa più coesa offrire
un suo codice monetario, regole elementari
di prudenza e correttezza, un’ideologia
non eccessivamente fiduciosa nella capacità
di autoregolamentazione del mercato.
 |
La Walt Disney Concert Hall, a Los Angeles. - Oli Bac |
Sarà in grado l’Europa di mettere in campo
un “New Deal” continentale, al modo di
quello che il Presidente americano sarà
chiamato a proporre, pur in presenza di
mezzi esigui? Funzioneranno bene le decisioni
che saranno di volta in volta prese per
favorire non solo la ripresa del fluire indisturbato
del credito, ma anche per rianimare
l’intero processo di convergenza dei Paesi
membri? Al momento, sembra che almeno
all’interno dell’euro sia possibile correggere
due insufficienze dell’Europa più larga, la
modesta capacità decisionale e la riluttanza
ad adottare regole comuni, ad esempio in
materia di sorveglianza.
Dal disordine delle esperienze recenti potrebbe
venire un impulso ad approfondire
gli strumenti creati a difesa della moneta
unica, dalle politiche di bilancio a quelle
strutturali, fino alla voce unica nei Fori finanziari
internazionali. La quota dell’Europa
nel Fondo monetario è quasi il doppio di
quella americana. I Paesi dell’euro prima
degli altri dovrebbero cogliere il rischio altissimo
di strategie solo nazionali, che sarebbero
inevitabilmente conflittuali.
Dovrebbero difendere il mercato da chi lo
demonizza e vorrebbe disfarsene, per ricrearne
invece la capacità di distribuire razionalmente
le risorse. La ritirata, insegnava
Carl von Clausewitz, è la più difficile
delle operazioni. In questo momento soltanto
l’Europa può impedire che il ripiegamento
del mercato si trasformi in una rotta
disordinata.
In ultima analisi, la questione fondamentale è questa: i poli geopolitici che si stanno
creando punteranno alla collaborazione o
alla competizione? Vivremo in pace, o avremo
disordini e guerre, come dopo la Grande
Depressione? Certamente, si torna alla
necessità che il declino americano si arresti
presto e che l’America abbia una Wall
Street ripulita, grazie all’azione della Casa
Bianca, ma anche grazie all’Fbi, da tutti i
predoni della finanza criminale.
|