Dicembre 2008

GRANDE CRISI E DECLINO AMERICANO

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LA NASCITA
DEL MULTIPOLARISMO

Dimab - Mabel

 
 
 

 

 

Tutti gli Imperi sono caduti sotto la spinta di due eventi correlati: guerra e debito. L'America non sfugge allo stesso destino, sottoposta ai costi della guerra in Iraq e della gigantesca bolla del credito.

 

Il primo Rapporto che il Presidente americano Barack Obama troverà sulla scrivania dello Studio Ovale alla Casa Bianca, a fine gennaio 2009, si intitolerà Global Trends 2025. Lo redige ogni quattro anni il “National Intelligence Council”, il centro studi dei servizi segreti statunitensi. La firma in calce al documento è di Thomas Fingar, il capo di tutti gli analisti, un poliglotta che parla e legge anche cinese e tedesco.
Ai primi di settembre Fingar ha anticipato sommariamente le sue conclusioni, prospettando le sfide future che dovrà affrontare l’America, non soltanto a livello geopolitico, ma anche ambientale, con il progressivo mutamento del clima, la siccità, la penuria di cibo e di acqua potabile, che potrebbero provocare guerre locali in un’area che va dal nord della Cina al Corno d’Africa.
Nell’insieme, una doccia gelida, nel momento in cui si dispiegava la crisi finanziaria di
Wall Street, con ripercussioni a catena in tutto il mondo: «Gli Stati Uniti resteranno la potenza preminente, ma la supremazia sarà molto ridotta. La leadership americana sarà erosa a velocità esponenziale sia in campo politico sia in quello economico e con ogni probabilità anche nella cultura». Secondo una tesi attualmente diffusa, è iniziato il declino dell’Impero americano.«Siamo in presenza di una storica trasformazione geopolitica, nella quale la “balance of power” è stata alterata in maniera irrevocabile», afferma il filosofo britannico John Gray; «l’era della leadership globale degli Stati Uniti è finita». E se lo sostiene lui, il teorico del thatcherismo, c’è da prepararsi ad affrontare «tempi incerti e complessi». Tutti gli Imperi sono caduti sotto la spinta di due eventi correlati: la guerra e il debito.È successo all’Impero Britannico dopo il primo conflitto mondiale, e a quello dell’Urss umiliata in Afghanistan e schiacciata dalla sfida reaganiana delle Guerre Stellari.
L’America non sfugge allo stesso destino, sottoposta com’è ai costi della guerra in Iraq
(3 miliardi di dollari ogni settimana) e della gigantesca bolla del credito.

Dario Carrozzini
Dario Carrozzini


Addio «Unipolar moment», come lo definì nel suo saggio dopo la caduta del Muro di Berlino il premio Pulitzer Charles Krauthammer. Entra la nuova era, quella della non-polarità, secondo la formula di Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations di New York.
Secondo Haas, il futuro ordine mondiale multipolare si baserà su sei principali potenze:
Stati Uniti, Cina, Unione Europea, India, Giappone e Russia. Accanto a queste, una serie di importanti attori regionali: Brasile e Venezuela, in America Latina; Egitto, Nigeria e Sudafrica nel Continente Nero; Iran, Israele e Arabia Saudita nel Vicino Oriente; Australia, Indonesia e Corea del Sud, in Asia e in Oceania. E, per finire, i nuovi centri di potere: dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale, fino alle organizzazioni non governative, agli Imperi mediatici e ai Fondi sovrani.
Il problema è che l’America, pur rimanendo l’unica superpotenza ad avere una visione globale del mondo, non ha elaborato un’efficace strategia globale; l’11 settembre ha stravolto ogni possibile pianificazione politica; ha prevalso una sindrome imperiale, la necessità di scombussolare gli assetti, per poi riequilibrarli a proprio vantaggio: lo sostiene Gianluca Ansalone, autore del saggio I nuovi imperi. Solo che oggi tramontano anche, insieme con la primazia, l’ideologia (il “turbocapitalismo” senza regole), il modello economico che fa perno su un deficit di 800 miliardi di dollari l’anno, e lo stesso dollaro. Il biglietto verde non è più la moneta per eccellenza, abbandonata com’è progressivamente da grandi Banche centrali del mondo e da alcuni Paesi petroliferi, che nei contratti preferiscono transazioni in euro, in yen o in franchi svizzeri.

Londra: La Fontana dei Cavalli, all’incrocio di Regent Street, Piccadilly, Haymarket e Shaftesbury Avenue. - Carlo Stasi
Londra: La Fontana dei Cavalli, all’incrocio di Regent Street, Piccadilly, Haymarket e Shaftesbury Avenue. - Carlo Stasi


Se in politica c’è il vuoto, qualcuno è sempre pronto ad occuparne gli spazi lasciati liberi.
Il premier russo, Putin, non ha aspettato molto. Dopo aver ristabilito il primato navale nel Mar Nero, ha deciso di allungare il suo raggio d’azione fino al Mediterraneo, dove è in rapida costruzione la base navale di Tartus, in Siria. Lì ormeggerà la portaerei Admiral Kuznetsov, appoggiata dal più grande incrociatore della Federazione Russa, il Moskva, e da quattro sottomarini nucleari. Tornata dapprima potenza energetica e subito dopo potenza globale in Medio Oriente, la Russia ha ridato forza ai Paesi antagonisti degli Stati Uniti, come l’Iran (oltre che la Siria, che pure era tentata da un trattato di pace con Israele). Gli Stati arabi moderati (Egitto, Giordania, Arabia Saudita) appaiono disorientati e meditano se non sia il caso di riallacciare i rapporti con la Russia.
E non basta. Mosca si protende fino ai Caraibi, dove ha trovato un alleato nel leader antiamericano per eccellenza, Hugo Chávez, il presidente del Venezuela. Un altro schiaffo: quando la Nasa nel 2010 chiuderà il programma spaziale degli Shuttle, gli astronauti americani saranno costretti a volare almeno fino al 2015 soltanto sulle Soyuz, in attesa della nuova generazione di navicelle statunitensi.

Presso Giakarta,i banchi di un mercato di frutta e verdura.Anche per l’Indonesia,la crescita del Pil nel 2009 è stata rivista al ribasso, a causa della debolezza dell’economia - ICP, Milano
Presso Giakarta,i banchi di un mercato di frutta e verdura.Anche per l’Indonesia,la crescita del Pil nel 2009 è stata rivista al ribasso, a causa della debolezza dell’economia - ICP, Milano


Anche la Cina sta avvantaggiandosi della progressiva erosione dell’influenza politica Usa, soprattutto in Africa e in Asia, al punto che oggi un ambasciatore cinese in quelle latitudini sembra contare assai più di uno americano.
Tutto questo non promette nulla di buono. La perdita di tanti primati (dall’industria manifatturiera a quella di Hollywood) non è solo questione di orgoglio nazionale: ha profonde implicazioni negative anche per il resto del mondo. La tentazione è il ritorno al nazionalismo e al protezionismo, proprio nel momento in cui la globalizzazione ha legato l’uno all’altro i Paesi del pianeta.«I governi agiscono solo in stato di necessità e non colgono la necessità se non nella crisi». Sarà ancora una volta la massima di Jean Monnet a dischiudere nuove prospettive all’Europa? La Cancelliera tedesca e il Premier francese hanno evocato all’ombra del generale De Gaulle il patto carolingio che aveva avviato l’integrazione del Vecchio Continente. Sarebbe stato un gesto soltanto nostalgico se Sarkozy, per superare la tempesta finanziaria che ha sconvolto le due rive dell’Atlantico, non avesse anche riunito l’Eurogruppo al suo livello più alto: un’iniziativa in grado di recuperare gli elementi strutturali, senza i quali l’Europa sarebbe la vittima più illustre in quello che alcuni chiamano il secolo, se non proprio anti-americano, certamente post-americano.Alla fine del tunnel, l’Europa uscirà con un proprio profilo più marcato. O altrimenti finirà risucchiata dalla storia. La crisi segna il fallimento di una forma di governo della globalizzazione, ma non del governo della globalizzazione. Gli Stati riemergono come attori indispensabili e scoprono allo stesso tempo la loro finitezza. I mercati sono più capaci dei Governi di raccogliere capitali, di innovare, di cogliere le preferenze degli individui. Ma in circostanze eccezionali soltanto i Governi dispongono delle risorse sufficienti.
Senza le gravi turbolenze del passato, i Governi e le Banche centrali non avrebbero trovato la forza di rinunciare alla sovranità monetaria. Oggi la bufera investe l’economia e la moneta, che sono il cuore della costruzione europea. L’Unione è, tuttora, come sospesa intorno alle sorti del Trattato di Lisbona. Ma possiede già un nucleo duro che si avvale di strumenti molto forti. L’euro dovrebbe essere la trincea ultima intorno alla quale arrestare ogni rischio di sgretolamento. Il multipolarismo tocca anche la moneta. Il dollaro, che già con la fine della convertibilità in oro aveva divorziato dal mondo reale, non potrà più essere il solo standard oggettivo e universale delle relazioni economiche internazionali. Come la sterlina nell’età dell’Impero britannico, il marco tedesco nell’Europa comunitaria,
ora anche il dollaro sconta l’incompatibilità tra la funzione di moneta nazionale e quella di unità di misura globale. La fiducia assoluta nella divisa americana nasceva anche dalla condizione degli Stati Uniti di garanti ultimi della sicurezza occidentale nel sistema bipolare e di Paese egemone in quello che gli era succeduto.

La bandiera a stelle e strisce sul Campidoglio
di Washington, sede del Congresso americano. E proprio dal Congresso, a metà novembre, la proposta di un piano da 700-1.000 miliardi di dollari in investimenti per la crescita e per nuovi posti di lavoro. - ICP, Milano
La bandiera a stelle e strisce sul Campidoglio di Washington, sede del Congresso americano. E proprio dal Congresso, a metà novembre, la proposta di un piano da 700-1.000 miliardi di dollari in investimenti per la crescita e per nuovi posti di lavoro. - ICP, Milano


La disfatta economica comporta una delegittimazione dell’unica superpotenza. Si attenua la fiducia che aveva indotto tanti popoli a mettere nelle mani americane i propri risparmi. Ogni timore reverenziale verso quel potere politico è venuto meno, almeno in questa fase critica, e in attesa di eventuali futuri sviluppi positivi. Un mercato basato sul dollaro, una distruzione creatrice sospinta dalla finanza, non saranno più le forze capaci di portare avanti l’occidentalizzazione del pianeta. Tramontano vecchie forze produttive, esplodono nuove fonti di ricchezza. Spetta a un’Europa più coesa offrire un suo codice monetario, regole elementari di prudenza e correttezza, un’ideologia non eccessivamente fiduciosa nella capacità di autoregolamentazione del mercato.

La Walt Disney Concert Hall, a Los Angeles. - Oli Bac
La Walt Disney Concert Hall, a Los Angeles. - Oli Bac


Sarà in grado l’Europa di mettere in campo un “New Deal” continentale, al modo di quello che il Presidente americano sarà chiamato a proporre, pur in presenza di mezzi esigui? Funzioneranno bene le decisioni che saranno di volta in volta prese per favorire non solo la ripresa del fluire indisturbato del credito, ma anche per rianimare l’intero processo di convergenza dei Paesi membri? Al momento, sembra che almeno all’interno dell’euro sia possibile correggere due insufficienze dell’Europa più larga, la modesta capacità decisionale e la riluttanza ad adottare regole comuni, ad esempio in materia di sorveglianza.
Dal disordine delle esperienze recenti potrebbe venire un impulso ad approfondire gli strumenti creati a difesa della moneta unica, dalle politiche di bilancio a quelle strutturali, fino alla voce unica nei Fori finanziari internazionali. La quota dell’Europa nel Fondo monetario è quasi il doppio di quella americana. I Paesi dell’euro prima degli altri dovrebbero cogliere il rischio altissimo di strategie solo nazionali, che sarebbero inevitabilmente conflittuali.
Dovrebbero difendere il mercato da chi lo demonizza e vorrebbe disfarsene, per ricrearne
invece la capacità di distribuire razionalmente le risorse. La ritirata, insegnava Carl von Clausewitz, è la più difficile delle operazioni. In questo momento soltanto l’Europa può impedire che il ripiegamento del mercato si trasformi in una rotta disordinata.
In ultima analisi, la questione fondamentale è questa: i poli geopolitici che si stanno creando punteranno alla collaborazione o alla competizione? Vivremo in pace, o avremo disordini e guerre, come dopo la Grande Depressione? Certamente, si torna alla necessità che il declino americano si arresti presto e che l’America abbia una Wall Street ripulita, grazie all’azione della Casa Bianca, ma anche grazie all’Fbi, da tutti i predoni della finanza criminale.

   
   
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