Dicembre 2008

GRANDE CRISI, FINANZA E POLITICA

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SE LO STATO
SALVA IL MERCATO

Alberto Mariani Sebastiano Rovasio

 
 
 

 

 

La soluzione più sicura della crisi è il subentro dello Stato nel capitale delle grandi banche: esito più che probabile se la crisi di fiducia provocherà ancora problemi di solvibilità degli istituti di credito.

 

«È la fine del mercato onnipotente», ha esclamato il Presidente francese Sarkozy.«Il mercato finanziario ha fallito», ha riecheggiato l’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker. «Il capitalismo rozzo è morto», ha confermato Henry Paulson. Paradossalmente,
nessuno concede dubbi nel vortice di incertezza.
Sembra essere cominciata una nuova epoca in cui il mercato è morto e lo Stato ne prende
il posto. Circa un secolo fa, in un decennio non tanto diverso da quello attuale, Robert Musil ammoniva: «Chi dice che una nuova era è cominciata, non ha capito l’era in cui stava vivendo». In una società in cui il mercato finanziario è stato il metro della razionalità
sociale, la crisi del mercato rappresenta infatti anche una crisi della ragione. Il riflesso della crisi si è risolto così in uno sguardo alle nostre spalle: se il mercato fallisce,è tornato il tempo dello Stato. L’antinomia tra Stato e mercato ha assorbito interamente la riflessione politica sulla crisi. Certo, con buoni motivi: subito dopo il collasso di Bear Stearns negli Stati Uniti è stata allentata la politica monetaria ed è stato riscoperto l’attivismo fiscale keynesiano con un pacchetto di 150 miliardi di dollari consegnati a domicilio alle famiglie americane. Northern Rock, Ikb, Fannie e Freddie, Aig e Bradford & Bingley sono state
nazionalizzate con procedure di poche ore. Il piano Paulson dispone di centinaia di miliardi
di dollari per socializzare le perdite degli istituti finanziari. Tuttora la soluzione più sicura della crisi è il subentro dello Stato nel capitale delle grandi banche. È anche l’esito più probabile se la crisi di fiducia continuerà a provocare problemi di solvibilità degli istituti di credito. Una risposta d’emergenza che, se diventasse un nuovo assetto stabile del capitalismo, realizzerebbe l’esito che Lenin prefigurava nella sua teoria dell’imperialismo: banche di Stato contro il potere dell’industria. Non sorprende che lo scontro tra sostenitori del mercato e dello Stato si sia ideologizzato.
Ma la nuova ortodossia sulle colpe del mercato e sui meriti dello Stato dovrebbe essere più realistica. Persino la suggestiva formula evocata dal Presidente francese e dal ministro dell’Economia italiano («Il mercato quando possibile, lo Stato quando necessario») era già nel programma socialista di Bad Godesberg del 1959; oggi Stato e mercato, politica e finanza, si reggono e si influenzano reciprocamente. Se questa crisi ha insegnato qualcosa, è proprio che passata la burrasca bisognerà cominciare a districare la finanza dalla politica, senza più sovrapporle. L’ipotesi di un nuovo dirigismo è poco plausibile. Nonostante vent’anni di politiche di ispirazione liberista, nei Paesi dell’Ocse la quota di spesa pubblica è scesa solo dal 40,9 per cento del Pil al 40,8 per cento. E, contrariamente a quanto si crede, i bilanci pubblici si caricano di impegni gravosi in materia di previdenza, salute e istruzione, quanto più i Paesi diventano ricchi. Non ci sono margini di manovra agevoli
per le politiche pubbliche a fronte di elettorati che chiedono comunque minore imposizione
fiscale. Inoltre, la costosa sostituzione della proprietà privata con quella pubblica non dà garanzie: già oggi in Germania la maggior parte del sistema bancario è in mano pubblica e ciò non tiene i risparmiatori di quel Paese al riparo dalla crisi.

Le tradizioni che resistono nel calesse e nella “brasserie” di Bruges, nelle Fiandre. - Archivio BPP
Le tradizioni che resistono nel calesse e nella “brasserie” di Bruges, nelle Fiandre. - Archivio BPP


Allora, la lezione della crisi sta proprio nella cattiva commistione tra politica e finanza: il mercato finanziario è stato drogato da liquidità a basso costo fornita dalla Banca centrale americana, ed è stato esaltato dal Greenspan put, la certezza che la Federal Reserve avrebbe immesso ulteriore liquidità ad ogni accenno di debolezza del mercato.
Il rapporto tra Governo, Fed e mercato è stato – nei due sensi – compromissorio. La Fed si era affrancata in parte dal finanziamento del Governo, ma è stata “catturata” dalla domanda di liquidità a basso costo da parte del sistema finanziario, che a sua volta ha permesso ai Governi di sostenere la crescita nonostante l’indebitamento pubblico e privato degli Stati Uniti: un gigantesco conflitto di interessi tra più soggetti che agiscono al di sopra della normale consapevolezza del cittadino.
Se quindi il dirigismo è inattuabile, anche la riscoperta keynesiana dell’ingerenza pubblica
nella politica monetaria e in quella fiscale trascura i pericoli degli intrecci poco trasparenti
tra poteri dei Governi e della finanza. In Europa, dove la Bce non è coinvolta in singole politiche nazionali, né ha compiti di orientamento degli istituti finanziari, l’intreccio è stato molto meno intricato, i Governi sono costretti a tenere sotto controllo l’indebitamento, le famiglie hanno saldi attivi del risparmio, la finanza non determina i nomi dei ministri e dei banchieri centrali. Nonostante molti casi problematici, la crisi sarebbe stata gestibile senza il collasso della fiducia importato dagli Usa.
Qual è dunque il nuovo compito dello Stato, se sono precluse sia la strada socialista sia quella keynesiana? Superata l’emergenza, in cui lo Stato opera nella sua qualità di agente d’ordine e ultimo garante, la sfida che aspetta la politica è addirittura di ripensare la propria visione dell’individuo. L’occhio di un economista sarebbe rivelatore in questo caso: i modelli con cui descriviamo la realtà e approntiamo le politiche si basano sul paradigma dell’individuo perfettamente razionale, che massimizza la propria utilità futura e che è pienamente informato (il paradigma dell’utilità dinamica necessario a disporre di micro-fondazioni coerenti).
Per quanto siano state introdotte rigidità di ogni tipo, l’attuale struttura dei modelli di equilibrio generale usati dalle Banche centrali trascura il fatto che ognuno di noi ha una comprensione molto parziale del mondo e tende a semplificare le proprie decisioni in base a informazioni soggette all’illusionismo degli intermediari politici o finanziari: crediamo alle bolle, alle promesse di miracoli, e siamo ogni volta stupiti e atterriti dalle crisi.

Dario Carrozzini
Dario Carrozzini


Gli errori del mercato che risultano da queste anfetamine collettive non sono esogeni ai nostri modelli di interpretazione, ma connaturati al mondo reale.
Si tratterebbe di semplificare la finanza o di complicare i controlli. Ma ci trattengono l’artificio dell’individuo onnisciente, difeso dal proprio arbitrio, e l’ipotesi di razionalità che tende a ridurre il mondo a una sola verità perfettamente compresa da un singolo cittadino, rappresentativo di tutti gli altri. Più o meno la stessa unicità dell’individuo che il socialismo reale imponeva ai tempi della pianificazione.
Il lavoro della politica è riconoscere che il Governo ha a che fare con relazioni sociali tra individui diversi tra loro, che non conoscono bene il mondo, sono vulnerabili alle illusioni dei mercati e della politica, inconsapevoli dei conflitti che chi ha potere regola fuori dal controllo democratico. Di fatto, si tratta di combattere i conflitti d’interesse e la manipolazione della verità, cioè nientemeno che dare un nuovo fondamento etico alla vita pubblica.

   
   
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