La soluzione più
sicura della crisi
è il subentro dello
Stato nel capitale
delle grandi
banche: esito più
che probabile se
la crisi di fiducia
provocherà
ancora problemi
di solvibilità degli
istituti di credito.
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«È la fine del mercato onnipotente», ha
esclamato il Presidente francese Sarkozy.«Il mercato finanziario ha fallito», ha riecheggiato
l’ex presidente della Federal Reserve,
Paul Volcker. «Il capitalismo rozzo è
morto», ha confermato Henry Paulson. Paradossalmente,
nessuno concede dubbi nel
vortice di incertezza.
Sembra essere cominciata una nuova epoca
in cui il mercato è morto e lo Stato ne prende
il posto. Circa un secolo fa, in un decennio
non tanto diverso da quello attuale, Robert
Musil ammoniva: «Chi dice che una
nuova era è cominciata, non ha capito l’era
in cui stava vivendo». In una società in cui il
mercato finanziario è stato il metro della razionalità
sociale, la crisi del mercato rappresenta
infatti anche una crisi della ragione.
Il riflesso della crisi si è risolto così in uno
sguardo alle nostre spalle: se il mercato fallisce,è tornato il tempo dello Stato. L’antinomia
tra Stato e mercato ha assorbito interamente
la riflessione politica sulla crisi.
Certo, con buoni motivi: subito dopo il collasso
di Bear Stearns negli Stati Uniti è stata
allentata la politica monetaria ed è stato
riscoperto l’attivismo fiscale keynesiano
con un pacchetto di 150 miliardi di dollari
consegnati a domicilio alle famiglie americane.
Northern Rock, Ikb, Fannie e Freddie,
Aig e Bradford & Bingley sono state
nazionalizzate con procedure di poche ore.
Il piano Paulson dispone di centinaia di miliardi
di dollari per socializzare le perdite
degli istituti finanziari. Tuttora la soluzione
più sicura della crisi è il subentro dello Stato
nel capitale delle grandi banche. È anche
l’esito più probabile se la crisi di fiducia
continuerà a provocare problemi di solvibilità
degli istituti di credito. Una risposta
d’emergenza che, se diventasse un nuovo
assetto stabile del capitalismo, realizzerebbe
l’esito che Lenin prefigurava nella sua teoria
dell’imperialismo: banche di Stato contro
il potere dell’industria. Non sorprende
che lo scontro tra sostenitori del mercato e
dello Stato si sia ideologizzato.
Ma la nuova ortodossia sulle colpe del mercato
e sui meriti dello Stato dovrebbe essere
più realistica. Persino la suggestiva formula
evocata dal Presidente francese e dal ministro
dell’Economia italiano («Il mercato
quando possibile, lo Stato quando necessario») era già nel programma socialista di
Bad Godesberg del 1959; oggi Stato e mercato,
politica e finanza, si reggono e si influenzano
reciprocamente. Se questa crisi
ha insegnato qualcosa, è proprio che passata
la burrasca bisognerà cominciare a districare
la finanza dalla politica, senza più sovrapporle.
L’ipotesi di un nuovo dirigismo è poco
plausibile. Nonostante vent’anni di politiche
di ispirazione liberista, nei Paesi dell’Ocse
la quota di spesa pubblica è scesa solo
dal 40,9 per cento del Pil al 40,8 per cento.
E, contrariamente a quanto si crede, i bilanci pubblici si caricano di impegni gravosi
in materia di previdenza, salute e istruzione,
quanto più i Paesi diventano ricchi.
Non ci sono margini di manovra agevoli
per le politiche pubbliche a fronte di elettorati
che chiedono comunque minore imposizione
fiscale. Inoltre, la costosa sostituzione
della proprietà privata con quella pubblica
non dà garanzie: già oggi in Germania
la maggior parte del sistema bancario è in
mano pubblica e ciò non tiene i risparmiatori
di quel Paese al riparo dalla crisi.
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Le tradizioni che resistono nel calesse e nella “brasserie” di Bruges, nelle Fiandre. - Archivio BPP |
Allora, la lezione della crisi sta proprio nella
cattiva commistione tra politica e finanza:
il mercato finanziario è stato drogato da
liquidità a basso costo fornita dalla Banca
centrale americana, ed è stato esaltato dal Greenspan put, la certezza che la Federal
Reserve avrebbe immesso ulteriore liquidità
ad ogni accenno di debolezza del mercato.
Il rapporto tra Governo, Fed e mercato è
stato – nei due sensi – compromissorio.
La Fed si era affrancata in parte dal finanziamento
del Governo, ma è stata “catturata”
dalla domanda di liquidità a basso costo
da parte del sistema finanziario, che a
sua volta ha permesso ai Governi di sostenere
la crescita nonostante l’indebitamento
pubblico e privato degli Stati Uniti: un gigantesco
conflitto di interessi tra più soggetti
che agiscono al di sopra della normale
consapevolezza del cittadino.
Se quindi il dirigismo è inattuabile, anche la
riscoperta keynesiana dell’ingerenza pubblica
nella politica monetaria e in quella fiscale
trascura i pericoli degli intrecci poco trasparenti
tra poteri dei Governi e della finanza.
In Europa, dove la Bce non è coinvolta
in singole politiche nazionali, né ha compiti
di orientamento degli istituti finanziari, l’intreccio è stato molto meno intricato, i Governi
sono costretti a tenere sotto controllo
l’indebitamento, le famiglie hanno saldi attivi
del risparmio, la finanza non determina
i nomi dei ministri e dei banchieri centrali.
Nonostante molti casi problematici, la crisi
sarebbe stata gestibile senza il collasso della
fiducia importato dagli Usa.
Qual è dunque il nuovo compito dello Stato,
se sono precluse sia la strada socialista
sia quella keynesiana? Superata l’emergenza,
in cui lo Stato opera nella sua qualità di
agente d’ordine e ultimo garante, la sfida
che aspetta la politica è addirittura di ripensare
la propria visione dell’individuo.
L’occhio di un economista sarebbe rivelatore
in questo caso: i modelli con cui descriviamo
la realtà e approntiamo le politiche si basano sul paradigma dell’individuo perfettamente razionale, che massimizza la propria
utilità futura e che è pienamente informato
(il paradigma dell’utilità dinamica necessario
a disporre di micro-fondazioni coerenti).
Per quanto siano state introdotte rigidità di
ogni tipo, l’attuale struttura dei modelli di
equilibrio generale usati dalle Banche centrali
trascura il fatto che ognuno di noi ha
una comprensione molto parziale del mondo
e tende a semplificare le proprie decisioni
in base a informazioni soggette all’illusionismo
degli intermediari politici o finanziari:
crediamo alle bolle, alle promesse di
miracoli, e siamo ogni volta stupiti e atterriti
dalle crisi.
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Dario Carrozzini |
Gli errori del mercato che risultano
da queste anfetamine collettive non
sono esogeni ai nostri modelli di interpretazione,
ma connaturati al mondo reale.
Si tratterebbe di semplificare la finanza o di
complicare i controlli. Ma ci trattengono
l’artificio dell’individuo onnisciente, difeso
dal proprio arbitrio, e l’ipotesi di razionalità
che tende a ridurre il mondo a una sola
verità perfettamente compresa da un singolo
cittadino, rappresentativo di tutti gli altri.
Più o meno la stessa unicità dell’individuo
che il socialismo reale imponeva ai
tempi della pianificazione.
Il lavoro della politica è riconoscere che il
Governo ha a che fare con relazioni sociali
tra individui diversi tra loro, che non conoscono
bene il mondo, sono vulnerabili alle
illusioni dei mercati e della politica, inconsapevoli
dei conflitti che chi ha potere regola
fuori dal controllo democratico.
Di fatto, si tratta di combattere i conflitti
d’interesse e la manipolazione della verità,
cioè nientemeno che dare un nuovo fondamento
etico alla vita pubblica.
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