Bad capitalism.
Di fronte alla
crisi statunitense
ed europea,
c'è chi si spinge
a ipotizzare
il fallimento dei
valori occidentali
e del capitalismo
nel suo insieme.
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Disordine mondiale, colpi di scena, salvataggi
statali a go-go in un’improvvisa, spregiudicata
quanto inevitabile inversione di
180 gradi del credo neo-liberista imperante
sulle piazze finanziarie come nelle grandi
istituzioni internazionali: è la traumatica
realtà in cui si ritrova a vivere il ricco Nord
industrializzato del mondo che fino a non
molto tempo fa cercava di imporre le sue ricette
al Sud meno sviluppato, senza voler
vedere che i presupposti del “disordine”, inteso
come alterazione degli equilibri costituiti,
esistevano tutti da tempo.
E oggi il Sud assiste alla caduta degli dei di
Wall Street e della City londinese con i suoi
nuovi protagonisti: economie in sviluppo
oppure in transizione, dai numeri mai visti
in passato; multinazionali e gruppi industriali
dai nomi finora sconosciuti, allevati
nella protezione dello Stato ma rafforzati alla
palestra del mercato prima in patria e poi
all’estero; fondi sovrani rimpinguati dalle
ricchezze accumulate con le materie prime o
con l’apertura dei mercati ai capitali stranieri.
A dare l’idea del cambiamento epocale,
un numero: 4.300 miliardi di dollari, vale a
dire le riserve delle banche asiatiche che, come
ha scritto il Financial Times, potrebbero
finanziare il piano di salvataggio del Tesoro
americano almeno sei volte.
Così, di fronte alla crisi statunitense ed europea,
di quello che una volta veniva chiamato
l’Occidente, c’è chi si spinge a ipotizzare
il fallimento dei valori occidentali e del
capitalismo nel suo insieme. E dall’Asia all’Africa
e all’America Latina si guarda ai modelli di sviluppo dove lo Stato dirigista
c’è da sempre, sia pure con potenti iniezioni
di mercato, o è tornato alla ribalta. A partire
dal “socialismo di mercato” o capitalismo
di Stato cinese, con i suoi roboanti tassi di
sviluppo, passando per il modello indiano o
brasiliano, quello oligarchico della Russia di
Putin, per non parlare del dirigismo populista
di Chávez, in Venezuela, con la sua politica
di nazionalizzazioni a tappe forzate, risultata
contagiosa per altri Paesi dell’area.
Considerato l’autoritarismo che contraddistingue
gran parte delle realtà del Sud del
mondo, il nuovo orientamento potrebbe essere
una delle conseguenze più pericolose
del discredito calato sul modello americano,
in versione impero della finanza creativa, a
seguito dello tsunami scatenatosi nei mesi
scorsi.
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Carlo Stasi |
Secondo gli autori del libro Good Capitalism, bad Capitalism and the Economics of Growth and Prosperity (Yale University
Press, 2007), oggi esistono nel mondo quattro
principali modelli di capitalismo: di impresa,
dei grandi gruppi, di Stato, oligarchico.
La maggior parte delle economie è una
combinazione degli ultimi due, ritenuta il
mix peggiore, e contraddistingue molte economie
emergenti. Considerate le nuove rotte
dei capitali, l’avanzata degli investimenti
dei fondi sovrani asiatici o arabi e le acquisizioni
di gioielli del capitalismo “buono”
ad opera delle multinazionali emergenti, in molti casi strettamente collegate ai loro Governi, si potrebbe ipotizzare nei prossimi
anni un’avanzata dello Stato (spesso non
democratico) nell’economia globale e quindi
di un capitalismo “cattivo”.
In realtà, in tempi di grandi mutamenti, è
difficile prevedere chi contagerà chi. È del
resto abbastanza stupefacente che in un’intervista
rilasciata a un settimanale americano
il premier cinese Wen Jiabao, per spiegare
il modello del proprio Paese, si richiami
alle opere di Adam Smith, alla Ricchezza delle Nazioni, per sottolineare la necessità
della mano invisibile delle forze del mercato,
e alla Teoria dei sentimenti morali per mettere
in rilievo l’importanza della mano visibile
del Governo regolatore al fine di distribuire
con equità la ricchezza tra la popolazione.
Alla luce del profondo divario tra ricchi e
poveri, della corruzione e della burocrazia tuttora imperanti in Cina, per questo premier
e per lo stuolo di apprendisti stregoni
delle regole della libera impresa privata la
strada appare ancora lunga e piena di incognite.
Ma, considerata la peculiarità di un
Paese di un miliardo e mezzo di abitanti,
uscito da decenni di ferreo dirigismo statale
maoista grazie ad una strategia di apertura
e di riforme, forse non ci sono alternative
alla politica di stop and go adottata dai Signori
di Pechino. È quello che è stato definito
il vigor/chaos cycle: quando l’economia
ristagna, il Governo apre e liberalizza;
quando l’apertura (vigor) porta a uno stato
di caos, il Governo ristabilisce il controllo.
A ciascuno il suo caos, verrebbe da dire.
Ma qui entra in gioco il pragmatismo di un
altro cinese, Justin Yifu Lin, che il presidente
della Banca mondiale Robert Zoellick ha voluto
(segno dei tempi) come “Ceo” (Chief
economist officier) dell’istituzione internazionale.
Studi nella marxista Pechino e nella liberista
Chicago, poi consulente del Governo
cinese, Yifu Lin ha scritto che il Governo è
l’istituzione più importante e la sua qualità
determina il successo o il fallimento dello sviluppo.
Che è come dire: il mercato non può
essere la magica risposta a quasi tutti i problemi,
perché «è la soluzione ideale in un
mondo senza distorsioni, ma in realtà c’è tutta
una serie di storture, soprattutto nei Paesi
in via di sviluppo». E non soltanto nel Sud
del mondo, come dimostra la crisi planetaria.
A questo punto, a Washington come a Pechino
o a Mosca, a Parigi come a Londra o
a Roma, forse il problema non consiste in
un capitalismo buono o cattivo, ma in un
Governo buono o cattivo. Soprattutto all’altezza
di un mondo che non sarà più come
prima.
Presidenti americani
e politiche di intervento/non intervento
Da John Maynard Keynes ad Arthur Laffer. Le politiche
americane – di intervento o non intervento in economia,
soprattutto nei periodi di crisi – sono sempre state
orientate dai più grandi economisti. Fu a Keynes che
si ispirò la Commissione istituita da Roosevelt per rilanciare
l’economia dopo la Grande Depressione del
1929 e che mise in campo il New Deal, l’intervento
dello Stato basato sulla realizzazione di infrastrutture.
Fu invece Arthur Laffer, schizzando su un tovagliolo di
carta di un ristorante la sua “curva delle aliquote” a
Dick Cheney e a Donald Rumsfeld, stretti collaboratori
di Ronald Reagan, a ispirare il più rilevante taglio delle
tasse dell’economia americana e la “reaganomics”. Tra
le due epoche, una serie di piani e misure che hanno
avuto come faro l’affermazione di Truman nel discorso
d’insediamento del 1949: «Continueremo i nostri piani
per la ripresa dell’economia mondiale».
1935-1945. Franklin Delano Roosevelt
1933-1937: New Deal.
Una serie di misure economiche per far ripartire l’economia
dopo la Grande Depressione del 1929 basata su
un mastodontico piano di costruzione di opere pubbliche
e sull’istituzione di misure di assistenza per disoccupati
e indigenti. Stanziati 500 milioni di dollari e concessi
prestiti per 1,5 miliardi di dollari.
1933-1934: Legge bancaria.
La nuova legge bancaria proibisce la circolazione e
l’uso privato di monete d’oro e lo scambio con banconote.
1937: Riforma della Corte Suprema.
Il Presidente americano può eleggere i giudici. La Corte
Suprema aveva bocciato otto programmi del New Deal.
1944: Bretton Woods.
Il trattato di Bretton Woods aggancia il valore del dollaro
a quello dell’oro.
1945-1953. Harry Truman
5 giugno 1947: Piano Marshall.
17 miliardi di dollari in quattro anni destinati allo sviluppo
dei Paesi europei colpiti dalla guerra. Il piano
contiene neologismi quali “libera impresa”, “spirito imprenditoriale”,
“recupero di efficienza”.
1949: Fair Deal.
Tra le misure economiche del Piano di intervento
pubblico, fortemente osteggiato dai conservatori,
l’Housing Act, un programma per la riqualificazione
delle città, gli aiuti alla costruzione di case private, e
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la realizzazione e l’assegnazione di case pubbliche.
Incompiuto il piano di garantire a tutti i cittadini l’assistenza
medica pubblica.
1953-1961. Dwight Eisenhower
1956: Federal Aid Higway
Un massiccio piano pubblico di costruzione di strade
e autostrade. Stanziati 13,5 miliardi di dollari in tredici
anni.
1957: Dottrina Eisenhower
Approvata dopo la crisi di Suez del 1957, prevede aiuti
economici e militari ai Paesi del Vicino Oriente minacciati
dall’Urss. Viene applicata per la prima volta nel
1958 con massicci aiuti economici al Libano.
1961-1963. John Fitzgerald Kennedy
1963: L’emissione di valuta
L’ordine esecutivo 11110 dà al Governo il potere di
emettere moneta senza l’autorizzazione della Federal
Reserve.
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1963-1969. Lyndon Johnson
1966-1967: Piani per la difesa.
Viene approvato un piano straordinario di stanziamenti
per la Difesa pari a 70 miliardi di dollari. Comincia a
lievitare il debito pubblico.
1969-1974. Richard Nixon
1971: Addio a Bretton Woods.
Viene dichiarata la fine della convertibilità dollaro-oro.
1973: Prezzi controllati.
A causa della crisi petrolifera viene approvato un regime
di prezzi e di salari controllati.
1974-1977. Gerald Ford
1976: Fallimento dell’American Bank and Trust. Il Governo
non adotta alcuna misura in quello che sarà il
quarto fallimento per dimensioni della storia.
1977-1981. Jimmy Carter
1979: Aiuti a Chrysler.
Viene concesso un prestito straordinario di un miliardo
di dollari al Chrysler Group per prevenire il fallimento.
1981-1989. Ronald Reagan
1981: Reaganomics.
La diminuzione delle imposte del 25 per cento è l’atto
più significativo della “Reaganomics”, il programma
economico basato sulla riduzione delle tasse e il non
intervento in economia. Grazie anche al crollo del prezzo
del petrolio, l’economia riparte. Raddoppia il deficit.
Esplode il debito pubblico.
1989-1993. George Herbert Bush
Agosto 1989: Salvate le Casse di Risparmio.
Con il piano per il salvataggio delle Casse di Risparmio
il Governo americano subentra nella proprietà dei certificati
di credito inesigibili. Un’agenzia indipendente
mette in liquidazione asset per 450 miliardi di dollari. Il
costo per il Governo è stimato in 300 miliardi di dollari.
1993-2001. Bill Clinton
1993: Tagli e tasse.
Varato un piano straordinario di tagli di spese e nuove
tasse per 496 miliardi di dollari.
1995: Prestiti al Messico.
Varato un piano straordinario di prestiti e aiuti al Messico
per rilanciare l’economia e per prevenire la crisi
delle società americane con interessi nel Paese centroamericano.
2001-2008. George Walker Bush
2008: Dal surplus al deficit.
Nel corso della sua presidenza, Bush junior, che aveva
ricevuto dal predecessore un surplus di circa 220 miliardi
di dollari, ha accumulato un deficit pari a poco
più di 400 miliardi di dollari. Esplode la crisi, che dagli
Stati Uniti dilaga nel mondo.
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