Di tanto in tanto,
l'Europa
e gli Stati Uniti
dovranno allungare
lo sguardo al di
là delle proprie
sciagure, per
tenere d'occhio
quel che accade
nel resto del
mondo.
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Dopo esserci lasciati andare, nell’illusione
che l’uragano statunitense si sarebbe placato
prima di giungere in vista dell’Europa, (o
avrebbe fatto qualche guasto, ma tutt’al più
nella finanza britannica), ci siamo accorti di
essere alle prese con una crisi molto più grave
di quella che colpì i Paesi della Comunità
europea durante gli shock petroliferi degli
anni Settanta. Se lo avessimo in qualche
modo previsto e ci fossimo preparati per
tempo, gli effetti, forse, sarebbe stati meno
gravi.
Oggi, dopo che le maggiori economie europee
sono corse ai ripari, rischiamo di commettere
un altro errore di distrazione, ignorando
gli effetti che la crisi potrebbe continuare
ad avere in altri continenti e i contraccolpi
che questi effetti potrebbero avere
sui rapporti internazionali. Nei momenti di
relax, e negli intervalli fra un salvataggio e
l’altro, proviamo a chiederci che cosa potrebbe
accadere in Cina, in Russia e nell’America
Latina.
Mentre il Congresso americano protestava
contro il protezionismo cinese e minacciava
rappresaglie, la Repubblica Popolare e gli
Stati Uniti hanno vissuto per molti anni in
stato di felice simbiosi. La Cina ha invaso
con i suoi prodotti a basso prezzo il mercato
americano e ha creato qualche disagio
nei settori industriali maggiormente colpiti
dalla concorrenza. Ma ha fatto la gioia dei
consumatori e ha usato i proventi in dollari
delle sue esportazioni per comperare i bond
con cui il Tesoro americano finanzia il suo
debito.
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Dario Carrozzini |
Noi sappiamo che il Prodotto interno lordo
cinese cresce ogni anno, mediamente, del 10
per cento. È un tasso di sviluppo per noi eccezionale,
ma è quello che consente alla dirigenza
cinese di governare i tumultuosi
mutamenti sociali del Paese e il crescente divario
fra ricchi e poveri. Se la percentuale,
in una fase di generale recessione, scendesse
al di sotto dell’8 per cento, la Cina sarebbe
con ogni probabilità costretta a puntare sul
mercato interno, su un ambizioso programma
di infrastrutture e sull’aumento della spesa sociale. Ma potrebbe fare ricorso anche
al nazionalismo, vale a dire allo strumento
di cui molti Governi si servono
quando vogliono zittire i dissidenti, spegnere
i malumori sociali, attribuire a un nemico
esterno i malanni della nazione.
La situazione russa è probabilmente migliore.
L’aumento medio del Prodotto interno
lordo fra il 1999 e il 2007 (pari al 7 per cento)è stato dovuto quasi esclusivamente al
mercato interno, agli investimenti, e, più recentemente,
all’aumento del prezzo del petrolio.
Gli screzi e gli attriti con l’Occidente
in materia di greggio e di gas avevano, paradossalmente,
un risvolto positivo. Si litigava
per la distribuzione di costi e profitti
in un contesto in cui uno dei litiganti, l’Occidente,
aveva bisogno di comprare, e l’altro,
la Russia, aveva bisogno di vendere.
Che cosa accadrebbe il giorno in cui la domanda
di energia diminuisse e il flusso dei
capitali verso la Russia si riducesse? Riusciranno
Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev
ad aggiustare il tiro, ma senza fare ricorso
al nazionalismo?
La crisi di Wall Street piace ideologicamente
ai nemici degli Stati Uniti nel continente
latino-americano, e soprattutto a Hugo
Chávez, il loro più chiassoso esponente. Ma
i legami economici e finanziari con il Nord
sono ancora troppo importanti, persino per
l’irrequieto Venezuela, e le ricadute negative
saranno numerose.
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“Il negozio di cose bellissime”, a Chinatown,
San Francisco. - Carlo Stasi |
È possibile comunque che la crisi acceleri il
processo d’integrazione dei Paesi del Mercosur
(il mercato unico di una parte dei Paesi
del Sudamerica) e contribuisca alla nascita di
una più solida economia latino-americana.
Sono semplicemente tre esempi. Sufficienti
però a dimostrare che l’Europa e gli Stati
Uniti dovranno di tanto in tanto allungare
lo sguardo al di là delle proprie sciagure,
per tenere d’occhio quel che accade nel resto del mondo.
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