Dicembre 2008

GRANDE CRISI E DEMOCRAZIA

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IL POPOLO
A SOVRANITÀ LIMITATA

Noam Chomsky

Docente al Massachusetts Institute of Technology di Boston

 
 

 

 

Nelle società fondate sul business, come gli Stati Uniti, l'ovvia conseguenza della libertà assoluta dei capitali è che la democrazia si è ridotta, con effetti che vanno ben oltre l'economia.

 

La fine della campagna per le elezioni presidenziali statunitensi e il crollo dei mercati finanziari si sono sovrapposti, offrendo una rara occasione per riflettere sul sistema politico e su quello economico. Non tutti si saranno appassionati alla campagna elettorale,
ma quasi tutti sono stati in ansia per il pignoramento di un milione di case e si sono preoccupati dei posti di lavoro, dei risparmi e della sanità. Le cause immediate della crisi possono essere fatte risalire allo scoppio della bolla immobiliare favorita dall’allora presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, che stimolò l’economia sostenendo i consumi con il debito e con i prestiti dall’estero. Ma le radici sono più profonde. Sono nate dal trionfo della liberalizzazione finanziaria degli ultimi trent’anni, in cui si è cercato di svincolare il più possibile i mercati da regole pubbliche. Gli stessi settori che hanno ottenuto profitti smisurati grazie alla liberalizzazione hanno poi invocato un intervento dello Stato per salvare le istituzioni finanziarie. Interventi del genere sono tipici del capitalismo di Stato, anche se questi sono di un’entità insolita. Quindici anni or sono uno studio degli
economisti Winfried Ruigrok e Rob van Tulder mostrava che almeno venti delle più importanti aziende del mondo non sarebbero sopravvissute senza l’aiuto dei Governi, e che molte delle altre avevano guadagnato imponendo allo Stato di “socializzare le perdite”.
In una democrazia ben funzionante, una campagna elettorale affronterebbe questi temi, esplorando le radici e le soluzioni, e offrendo a chi subisce le conseguenze della crisi gli strumenti per riacquistare il controllo della situazione. Il compito delle istituzioni finanziarie è correre dei rischi e, se sono gestiti bene, fare in modo che le loro eventuali perdite siano
sempre coperte. L’accento va messo su “le loro”. Secondo le regole del capitalismo di Stato, invece, il mondo finanziario non deve preoccuparsi dei costi esterni nel caso in cui le sue scelte portino a una crisi finanziaria (cosa che avviene regolarmente).
La liberalizzazione finanziaria ha effetti che vanno ben oltre l’economia. È noto da tempo
che rappresenta un’arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea quello che qualcuno ha chiamato un Parlamento virtuale di investitori e prestatori, che analizzano i programmi del Governo e votano contro se li considerano irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato. Chi investe e chi presta può votare attraverso la fuga di capitali, gli attacchi alle valute e altri strumenti finanziari.
È una delle ragioni per cui il sistema di Bretton Woods, istituito da Stati Uniti e Gran Bretagna dopo la Seconda guerramondiale, prevedeva dei controlli sui capitali e regolamentava le valute. John Maynard Keynes riteneva che il risultato più importante di Bretton Woods fosse l’acquisizione, da parte dei Governi, del diritto di limitare i movimenti di capitale. Invece nella fase neoliberista che si è aperta negli anni Settanta, in seguito all’abolizione di quel sistema, il Tesoro americano considera il libero movimento dei capitali come un diritto fondamentale.

Il “Charging Bull”,il famoso toro
di Bowling Green,a Wall Street, divenuto simbolo della Borsa americana (almeno quando le azioni sono al rialzo...).
Il “Charging Bull”,il famoso toro di Bowling Green,a Wall Street, divenuto simbolo della Borsa americana (almeno quando le azioni sono al rialzo...).


L’ovvia conseguenza di questa idea di libertà assoluta dei capitali è che la democrazia si è ridotta. Si è reso dunque necessario controllare ed emarginare in qualche modo l’opinione pubblica, un processo particolarmente evidente nelle società fondate sul business, come gli Stati Uniti. Il fatto che le elezioni siano state gestite come una kermesse da parte delle società di pubbliche relazioni ne è un esempio lampante.«La politica è l’ombra gettata sulla società dal grande capitale», scriveva John Dewey, il più grande filosofo sociale americano del Novecento, e tale resterà finché il potere sarà in mano al «business privato, attraverso il controllo privato delle grandi banche, della terra e dell’industria, rafforzato dalla diretta influenza su giornali, agenzie di stampa e altri strumenti di pubblicità e propaganda».
Gli Stati Uniti, in effetti, sono un sistema a partito unico, il partito del business, con due fazioni, repubblicani e democratici. Tra le due fazioni ci sono delle differenze reali. Nel suo studio Unequal Democracy: The Political Economy of the New Gilded Age, il politologo Larry M. Bartels spiega che negli ultimi sessant’anni «il reddito reale delle famiglie del ceto medio è cresciuto a velocità doppia durante le amministrazioni democratiche rispetto a quelle repubblicane, mentre il reddito reale da lavoro delle famiglie
povere è cresciuto a velocità sei volte superiore».
Le differenze si sono viste anche in queste ultime elezioni. Gli elettori non avrebbero dovuto tenerne conto, ma senza farsi illusioni sui partiti, e riconoscendo che sempre, nel corso dei secoli, la legislazione progressista e lo Stato sociale sono stati il frutto di lotte popolari e non sono piovute dall’alto. Queste lotte seguono un ciclo di successi e di sconfitte.
Devono essere portate avanti ogni giorno e non soltanto ogni quattro anni, sempre con l’obiettivo di dar vita a una società davvero aperta e democratica, dal seggio elettorale al posto di lavoro.

   
   
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