Dicembre 2008

GRANDE CRISI E CRONISTORIA NAZIONALE

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PENDOLO ITALIA

Piergiorgio Rembado

 

 
 

 

 

Da noi le banche non falliscono, ma vengono salvate, di solito da altre banche, con una formula che prevede anche l'impiego dei soldi del contribuente.

 

Lo Stato banchiere è tramontato nel nostro Paese nei quindici anni che vanno dal 1990 al 2005: la quota di capitale delle banche detenuta da soggetti pubblici è scesa in quel periodo dal 75 all’1 per cento. Una ritirata in piena regola, più radicale di quella avviata nell’industria e negli altri servizi.
Nello stesso arco di tempo, il numero delle banche si è ridotto, la loro dimensione media è aumentata, è migliorata la redditività, è cresciuta la patrimonializzazione. Sembrava che l’unico problema delle banche, dopo la privatizzazione, fosse il record dei profitti o l’acquisizione successiva. Poi però è sopraggiunta la crisi. La sfiducia contagiosa, partita dagli Stati Uniti, ha raggiunto l’Europa e anche l’Italia. Dove il ministro dell’Economia, il Governatore della Banca d’Italia, i banchieri e gli analisti hanno sempre sostenuto che, grazie alla scarsa dimestichezza con (o alla scarsa fiducia verso) le più sofisticate tecniche
d’innovazione finanziaria, il sistema si è tenuto al riparo dal rischio dei prodotti cosiddetti “collateralizzati”.
In molti Paesi sono stati utilizzati i soldi dei contribuenti per evitare il trauma dei fallimenti
e per non alimentare il panico sui mercati finanziari. In Italia finora la questione non si è posta, ma non sarebbe da stupirsi se, all’occorrenza, lo Stato intervenisse. Lo insegna la storia. La presenza dello Stato in economia è una costante della storia italiana, in un capitalismo che qualcuno ha definito tout court “politico”. E infatti da noi le banche non falliscono, ma vengono salvate, generalmente da altre banche, con una formula che prevede anche l’impiego dei soldi del contribuente. Indipendentemente dal “clima” politico e culturale prevalente.
La legge Sindona, che dal 1974 consente alla Banca d’Italia di effettuare anticipazioni all’1 per cento ai “cavalieri bianchi”, è stata utilizzata per soccorrere il Banco Ambrosiano, il Banco di Napoli, la Sicilcassa. Tutti istituti che sono poi confluiti in gruppi bancari di grandi dimensioni, a volte conservando il proprio marchio.
Ancora prima, nel secolo scorso, gli interventi pubblici di salvataggio delle banche avevano assunto carattere “sistemico”. Tra il 1921 e il 1922 un consorzio formato dalla Banca Commerciale e dal Credito Italiano, insieme a Bankitalia, interviene in soccorso della Banca di Sconto e del Banco di Roma, acquisendone le partecipazioni industriali. Il consorzio fu successivamente liquidato, ma le sue attività furono trasferite al Consorzio Sovvenzioni Valori Industriali, la cui missione dal 1922 fu di aiutare le banche a smobilizzare il proprio patrimonio.
Nel 1933 il Governo fascista creò l’Iri, affidando la presidenza ad Alberto Beneduce e la direzione generale a Donato Menichella, con l’intento di salvare le banche in difficoltà per le conseguenze della Grande Depressione, arrivata da noi nel 1930: produzione industriale -30 per cento; produzione agricola -50 per cento; valore dei titoli industriali -40 per cento. L’obiettivo era lo stesso: rilevare le partecipazioni industriali e consentire alle banche di sopravvivere. La sua doveva essere una missione temporanea, ma nel 1937, quando il Governo decise di avviare la sua politica espansiva fatta di autarchia e di rafforzamento militare, l’Iri fu trasformato in ente pubblico permanente. Diventò di fatto un’holding pubblica che controllava imprese attive in vari settori (siderurgia, meccanica, telecomunicazioni, cantieristica, energia) e le tre “banche di interesse nazionale”: Comit, Credit e Banco di Roma. Che persero la loro identità di banca mista o universale, e divennero banche commerciali.
L’Iri sopravvisse al vaglio degli Alleati. Menichella scrisse al capitano Andrew Kamarck
un rapporto intitolato “Le origini dell’Iri e la sua azione nei confronti della situazione bancaria”, che si apre con questa considerazione: «L’Italia è stata definita come il Paese dei salvataggi bancari. Paese relativamente povero di capitali e di scarse tradizioni finanziarie; la caduta di una banca o la minaccia della caduta di una banca non sono mai state considerate come eventi normali della vita economica nella quale, come in quella degli individui, alla prosperità può succedere l’indigenza, alla salute la malattia e la morte, sebbene come eventi di carattere straordinario, capaci di commuovere larghe sfere dell’opinione pubblica, provocare dibattiti appassionati sulla stampa, cadute di Ministeri».
La nascita dell’Iri – continua il futuro Governatore di Bankitalia – non è frutto di un disegno industriale: «L’Iri trae origine dagli interventi bancari effettuati dal 1922 al 1932. Se lo Stato italiano (attraverso l’Iri) siè trovato a possedere le azioni delle tre maggiori banche del Paese e molte grosse partecipazioni industriali, ciò non è avvenuto in base ad un proposito dello Stato stesso di voler assumere la gestione di importanti complessi finanziari e industriali. È accaduto invece che avendo lo Stato proceduto al salvataggio di molte banche, esso si è trovato ad essere il proprietario delle azioni degli istituti stessi e delle azioni industriali da ciascuna banca possedute».
Fu così che l’Iri divenne, quasi involontariamente, il perno di quell’economia mista che caratterizzò l’Italia repubblicana dal dopoguerra alla fine del secolo XX. Venne liquidato soltanto nel 2000, dopo la privatizzazione delle società che controllava. Tra cui le tre banche di interesse nazionale che tuttora, dopo complessi processi di aggregazione e con altri nomi, sono al vertice del sistema bancario nazionale. Come nel 1920.

 

   
   
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