Manager e politici
sono i veri
demiurghi del
capitalismo
relazionale che
ha trasformato
l'economia
negli ultimi
quindici-vent'anni.
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Ritengo che sia del tutto inutile oggi evocare
il demone del capitalismo finanziario: sarebbe
addirittura dannoso per la Sinistra rispolverare
la sua tradizionale avversione ad
esso; ma è anche sterile puntare il dito inquisitore
contro la politica e lo Stato: farebbe
male soprattutto alla Destra insistere su
un liberismo con evidenti limiti nella regolazione
dei mercati finanziari. Più opportuno
sarebbe ragionare sui pezzi più importanti
che compongono il complesso puzzle che
abbiamo di fronte: ad esempio, sui protagonisti
della crisi, su quegli spezzoni di nuova
classe dirigente che ha “movimentato” e deciso
nel corso di questo quindicennio.
Manager e politici sono tra le professioni
che, negli ultimi tre lustri, sono cresciute a
livello percentuale molto più di altre: stiamo
parlando di oltre 500 mila soggetti in
Italia, se consideriamo che i politici sono da
300 a 400 mila, i manager privati intorno a
150 mila, ai quali vanno aggiunti dirigenti e
manager nel settore pubblico (all’incirca 20
mila). Sono le professioni emergenti, con
compensi “di punta” fantastici, che hanno
acceso l’immaginario di chi pensa al proprio
futuro professionale; anche nei consumi
hanno contribuito a portare nuove tendenze,
privilegiando quelli più esclusivi.
Manager e politici, con le loro élites, hanno
insomma costituito un segmento importante
delle nostre classi dirigenti nel recente
passato e perciò del presente.
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Archivio BPP |
Vale la pena riflettere su che cosa accomuni
queste professioni, oltre il trend emergente,che ha prodotto delle élites composte da veri e propri “uomini d’oro”. Un primo fattore
comune è che le élites di queste professioni
fanno parte di quella classe dirigente a
cui è esplicitamente richiesto di esserlo. È
richiesto al manager di pilotare e gestire una società, al politico mediante un mandato
elettorale. In secondo luogo, il vero comun
denominatore che accomuna manager
e politici e i loro leader sono le relazioni e,
più precisamente, la qualità delle relazioni e
delle conoscenze nei labirinti istituzionali
dell’autorità e del potere, nei salotti che
contano, eccetera. Per cui spesso queste
professioni acquistano l’ultrapotere dell’ubiquità
nei ruoli, in virtù della forza delle
relazioni, segnalata, ad esempio, dalla consistenza
dei manager tra i parlamentari
(porte girevoli) e viceversa (pantouflage).

Non è stato soltanto il credito educativo la
loro carta vincente, ma piuttosto le relazioni
guadagnate “sul campo”. In termini sociologici,
questa capacità relazionale è il capitale
sociale individuale. Sono quindi due
professioni di rete, destinate – con le loro élites – a governare il decision making di
network strategici (economici, politici,
informativi). Perciò manager e politici sono
i veri demiurghi del capitalismo relazionale
che ha trasformato l’economia negli ultimi
quindici-vent’anni.

Hanno mostrato capacità di modernizzare,
soprattutto utilizzando leve finanziarie e
tecnologiche, ma l’importanza della relazionalità
ha spesso inquinato – con l’arbitrio e
responsabilità diverse – le regole di mercato.
Oggi tutto questo è evidente nel resoconto
degli errori commessi dai superpoteri
e dai leader della finanza, così come sono
evidenti il malessere democratico e la sfiducia
verso la politica che affliggono i cittadini
in quasi tutto il Vecchio Mondo.
I risultati di questa classe dirigente sono
tutt’altro che incoraggianti e aprono importanti
interrogativi e scetticismi sugli eccessi
del capitalismo relazionale (e del mercato
politico) e sulla delega fiduciaria. Sarà
difficile affrontare una crisi finanziaria con
i livelli di sfiducia che colpiscono questi decisori
in campo politico ed economico.
Dalle ultime ricerche sulle classi dirigenti italiane (Primo e Secondo Rapporto Luiss)
si ricava che i manager di grandi banche e
finanza, così come i politici, sono in debito
d’ossigeno in termini di fiducia accordata
loro dalla popolazione (sotto il 20 per cento
per entrambi e circa 10 punti in meno rispetto
solo a otto anni fa).
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Archivio BPP |
Popolazione e classi dirigenti sono poi
d’accordo che le reti finanziarie e bancarie
e quelle politiche sono tra le dimensioni sociali
in cui il merito è meno riconosciuto.
La popolazione infine concorda con le classi
dirigenti intervistate che l’oligarchia finanziaria
debba in futuro contare meno.
Forse dalle macerie della finanza arretrata,
(“feudale”, l’ha definita qualcuno), nascerà e si forgerà una nuova classe dirigente.
Forse impareremo la lezione di rendere
prescrittivo il merito, innanzitutto per coloro
i quali ricevono potere in delega, che andrebbero
attentamente valutati, selezionati,
guardando soprattutto alla loro competenza
e alla loro integrità morale. Ci si aspetta
grandi cambiamenti nel senso di responsabilità
delle professioni e delle classi dirigenti
emergenti, soprattutto generosità per
contrastare la grave situazione che molti di
loro hanno contribuito a creare.

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