Dicembre 2008

GRANDE CRISI E LIBERISMO

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MA ADAM SMITH
È A PROVA DI SHOCK

Ettore Marescalchi

 

 
 

 

 

Adam Smith non aveva mai prefigurato un'economia senza Stato: l'apertura dei mercati pone l'esigenza non dello Stato assente, ma dello Stato intelligente.

 

«Si allarga il cuore leggendo che il succo delle politiche economiche, celebrate come modernissime e dette della rivoluzione laburistica in Inghilterra e della rivoluzione rooseveltiana negli Stati Uniti, non sta nella socializzazione o nazionalizzazione o assunzione dei pubblici servizi da parte dello Stato, ma sta invece in tutt’altra cosa [...]. Il tipo d’intervento dello Stato, il quale negli ultimi decenni ha dato risultati veramente
brillanti è concepito su linee ben diverse: grossissimo modo e in parte e con larga approssimazione, tipo Tennessee Valley Authority e Cassa per il Mezzogiorno».
Parole di socialista? Di cattocomunista? No, parole di liberista, di Luigi Einaudi, che in questo modo si esprime in un appunto relativo alla riforma dello statuto dell’Iri scritto al Quirinale il 19 dicembre 1954, nel quale giunge a dichiararsi contrario al parere espresso al riguardo dalla relazione parlamentare di maggioranza (siamo negli anni del centrismo) e a favore di quello della minoranza. Naturalmente, i risultati possono far discutere: quelli della Cassa per il Mezzogiorno li abbiamo ben presenti; quanto alla Tennessee Valley Authority, proprio essa venne assunta come simbolo della disfatta dello Stato interventista quando negli Stati Uniti esplose la rivoluzione neoconservatrice che portò al potere Ronald Reagan. Ma il punto non è se Einaudi si sbagliasse o meno nel confidare nella Cassa per il Mezzogiorno: bensì sottolineare come nella sua visione limpidamente liberale, che oggi sminuiremmo a liberista o mercatista, ci sia spazio per l’intervento statale e per gli investimenti pubblici.

Archivio BPP
Archivio BPP


Un economista assai più recente, Duncan Foley, docente di Economia alla New School of Social Research di New York, autore di un libro (Il peccato di Adam, pubblicato per i tipi di Scheiwiller), nel quale viene svolta una critica intelligente e misurata di Adam Smith, riconosce del resto che il pensatore scozzese non aveva mai prefigurato un’economia senza Stato. E sullo stesso punto hanno insistito i migliori libri e autori a favore della globalizzazione, da Martin Wolf a Thomas Friedman, i quali insieme sottolineano come l’apertura dei mercati ponga l’esigenza non dello Stato assente, ma dello Stato intelligente.
Tutto questo, dunque, sfata l’equivoco sul quale stanno facendo leva la polemica antimercato, innescata dalla crisi finanziaria, e la rinnovata fiducia nei confronti dell’intervento statale, precipitosamente dispiegatosi al di qua e al di là dell’Atlantico per salvare banche e assicurazioni. Una polemica ridotta allo schema in cui il mercato è sempre e soltanto “selvaggio”, cioè senza regole, e lo Stato è sempre e soltanto pensoso del benessere collettivo ed efficace nel tutelare l’interesse pubblico.
Purtroppo, non è così; e i risultati di un lunghissimo periodo d’intervento pubblico e di statalismo, prolungatosi in tutto il mondo fino agli anni Ottanta, stanno a dimostrarlo: risultati negativi non soltanto in termini economici e finanziari (in Italia ne stiamo pagando ancora il conto nella dimensione del debito pubblico), ma soprattutto politici e istituzionali, con l’esasperata politicizzazione delle scelte collettive.
Del resto, anche alla crisi finanziaria attuale lo Stato e la politica non sono affatto estranei, come molto efficacemente è stato ricordato, quando si è chiarito il ruolo perverso svolto nell’ingigantire la bolla immobiliare da due istituti parapubblici (e piuttosto proni alle pressioni delle lobby politiche) quali Freddie Mac e Fannie Mae. L'ostentazione della ricchezza, in una strada di Los Angeles. - Archivio BPP
È probabile che non tutti i liberali la pensino allo stesso modo sulla manovra Paulson, divisi tra l’esigenza di tutelare i princìpi e quella di restituire fiducia ai mercati. È una questione, direbbe ancora Einaudi, di “punto critico”, da misurare per di più in una situazione di gravità mai sperimentata.
E da ricercare proprio al di qua della soglia che renderebbe lo Stato padrone delle nostre scelte e delle nostre vite (e noi cittadini spogliati delle nostre responsabilità, che è anche assunzione di rischio). Per questo, non è proprio il momento per pentirsi del mercato, per dimettersi da liberista.

   
   
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