Adam Smith
non aveva mai
prefigurato
un'economia senza
Stato: l'apertura
dei mercati pone
l'esigenza non
dello Stato
assente, ma dello
Stato intelligente.
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«Si allarga il cuore leggendo che il succo
delle politiche economiche, celebrate come
modernissime e dette della rivoluzione laburistica
in Inghilterra e della rivoluzione rooseveltiana
negli Stati Uniti, non sta nella socializzazione
o nazionalizzazione o assunzione
dei pubblici servizi da parte dello Stato,
ma sta invece in tutt’altra cosa [...]. Il tipo
d’intervento dello Stato, il quale negli ultimi
decenni ha dato risultati veramente
brillanti è concepito su linee ben diverse:
grossissimo modo e in parte e con larga approssimazione,
tipo Tennessee Valley
Authority e Cassa per il Mezzogiorno».
Parole di socialista? Di cattocomunista?
No, parole di liberista, di Luigi Einaudi,
che in questo modo si esprime in un appunto
relativo alla riforma dello statuto dell’Iri
scritto al Quirinale il 19 dicembre 1954, nel
quale giunge a dichiararsi contrario al parere
espresso al riguardo dalla relazione parlamentare
di maggioranza (siamo negli anni
del centrismo) e a favore di quello della minoranza.
Naturalmente, i risultati possono far discutere:
quelli della Cassa per il Mezzogiorno li
abbiamo ben presenti; quanto alla Tennessee
Valley Authority, proprio essa venne assunta
come simbolo della disfatta dello Stato
interventista quando negli Stati Uniti
esplose la rivoluzione neoconservatrice che
portò al potere Ronald Reagan. Ma il punto
non è se Einaudi si sbagliasse o meno nel
confidare nella Cassa per il Mezzogiorno:
bensì sottolineare come nella sua visione
limpidamente liberale, che oggi sminuiremmo
a liberista o mercatista, ci sia spazio per
l’intervento statale e per gli investimenti
pubblici.
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Archivio BPP |
Un economista assai più recente, Duncan
Foley, docente di Economia alla New
School of Social Research di New York,
autore di un libro (Il peccato di Adam, pubblicato
per i tipi di Scheiwiller), nel quale
viene svolta una critica intelligente e misurata
di Adam Smith, riconosce del resto che
il pensatore scozzese non aveva mai prefigurato
un’economia senza Stato. E sullo
stesso punto hanno insistito i migliori libri e autori a favore della globalizzazione, da
Martin Wolf a Thomas Friedman, i quali
insieme sottolineano come l’apertura dei
mercati ponga l’esigenza non dello Stato assente,
ma dello Stato intelligente.
Tutto questo, dunque, sfata l’equivoco sul
quale stanno facendo leva la polemica antimercato,
innescata dalla crisi finanziaria, e
la rinnovata fiducia nei confronti dell’intervento
statale, precipitosamente dispiegatosi
al di qua e al di là dell’Atlantico per salvare
banche e assicurazioni. Una polemica ridotta
allo schema in cui il mercato è sempre e
soltanto “selvaggio”, cioè senza regole, e lo
Stato è sempre e soltanto pensoso del benessere
collettivo ed efficace nel tutelare
l’interesse pubblico.
Purtroppo, non è così; e i risultati di un lunghissimo
periodo d’intervento pubblico e di
statalismo, prolungatosi in tutto il mondo
fino agli anni Ottanta, stanno a dimostrarlo:
risultati negativi non soltanto in termini
economici e finanziari (in Italia ne stiamo
pagando ancora il conto nella dimensione
del debito pubblico), ma soprattutto politici
e istituzionali, con l’esasperata politicizzazione
delle scelte collettive.
Del resto, anche alla crisi finanziaria attuale
lo Stato e la politica non sono affatto estranei,
come molto efficacemente è stato ricordato,
quando si è chiarito il ruolo perverso
svolto nell’ingigantire la bolla immobiliare
da due istituti parapubblici (e piuttosto proni
alle pressioni delle lobby politiche) quali
Freddie Mac e Fannie Mae.

È probabile che non tutti i liberali la pensino
allo stesso modo sulla manovra Paulson,
divisi tra l’esigenza di tutelare i
princìpi e quella di restituire fiducia ai
mercati. È una questione, direbbe ancora
Einaudi, di “punto critico”, da misurare
per di più in una situazione di gravità mai
sperimentata.
E da ricercare proprio al di qua della soglia
che renderebbe lo Stato padrone delle nostre
scelte e delle nostre vite (e noi cittadini
spogliati delle nostre responsabilità, che è
anche assunzione di rischio). Per questo,
non è proprio il momento per pentirsi del
mercato, per dimettersi da liberista.
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