Leadership?
L'America è
realmente pronta
ad affrontare un
mondo nel quale
non è più in grado
di affermare la
propria egemonia?
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Un opinionista di Newsweek ha definito
quello del futuro «un mondo post-americano». Ho la forte impressione che le condizioni
dell’economia globale stiano cambiando
in maniera drammatica. I presupposti
sui quali era fondato il mondo della Guerra
Fredda, e questo lungo periodo di egemonia
americana da allora, non saranno più
sufficienti a guidare l’America nella realtà
emergente.
Il primo e più evidente cambiamento che gli
Stati Uniti devono affrontare ha a che fare
con l’evoluzione di un mondo multipolare.
Gli Usa restano la potenza dominante del
pianeta, anche se il resto del mondo si affretta
ad accorciare le distanze.
Lo spostamento del potere in termini di forza
economica è impressionante. Russia, Cina,
India e gli Stati del Golfo Persico sono
tutti in forte crescita, mentre l’America
sprofonda nella recessione. Appare dunque
evidente come il resto del mondo si sia
sganciato dall’economia americana. La prova
più clamorosa del progressivo spostamento
del potere sta, da una parte, nell’indebitamento
degli Usa, e, dall’altra, nelle riserve
accumulate da molti Paesi nel resto
del pianeta. La Repubblica Popolare Cinese
può contare su una riserva pari a 1,5 trilioni
di dollari; la Russia, su 550 miliardi; la Corea
del Sud, su 260 miliardi. È inevitabile
che affronteremo un mondo nel quale le
scelte americane saranno sempre più limitate
e vincolate.
L’evoluzione di un mondo economico multipolareè stata ampiamente studiata. Quel che è cambiato nell’attuale assetto internazionale è che il mondo non è più dominato da Stati
forti, ma da Stati deboli, talvolta addirittura
fallimentari, dove i soliti strumenti del potere – in particolare, la forza militare – non funzionano
più come un tempo.
Com’è nato un mondo di Stati deboli? La
sua creazione è stata determinata dal coinvolgimento,
nello sviluppo economico, di
nuovi attori e gruppi sociali che precedentemente
erano stati esclusi dal potere, al modo
degli sciiti in Libano. E si estende anche
al continente americano.
Un mondo di Stati deboli ha numerose ripercussioni
per la potenza statunitense.
Prendiamo in considerazione questo fenomeno
abbastanza sconcertante: gli Stati
Uniti spendono per la difesa quanto tutto il
resto del mondo sommato insieme. Eppure
sono trascorsi cinque anni e più dall’occupazione
dell’Iraq, e fino ad oggi non si è
riusciti a pacificare del tutto quel Paese. Il
motivo va ricercato nel cambiamento del
potere stesso. Stiamo cercando di utilizzare
oggi, in un mondo di Stati deboli, lo stesso
strumento – la forza militare – che abbiamo
utilizzato nel mondo del secolo XX, fatto di
grandi Potenze e di Stati centralizzati. Nonè più pensabile ricorrere al potere “duro”
per creare istituzioni legittime sulle quali
fondare una nazione.
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Un’anziana contadina a dorso di mulo,a Mostar. - Dario Carrozzini |
Molte altre cose stanno accadendo nella politica
internazionale, in reazione al predominio
americano degli ultimi due decenni.
Altri Paesi si stanno mobilitando contro gli
Stati Uniti. Sono nate alleanze, come il
Consiglio di Cooperazione di Shanghai,
con l’obiettivo esplicito di estromettere gli
Stati Uniti dall’Asia dopo l’intervento militare
in questa regione, successivamente
all’11 settembre. L’America non è più in
grado di chiamare a raccolta i suoi alleati
democratici come avveniva in passato, e si è
visto chiaramente in Iraq.
In sintesi, davanti ai nostri occhi c’è oggi
un mondo che richiede abilità molto diverse.
Se è giusto che l’America conservi la capacità
di ricorrere, all’occorrenza, al potere“duro”, non deve tuttavia dimenticare che
esistono molti altri canali per proiettare
quei valori e quelle istituzioni che assicureranno
il perdurare della sua leadership nel
mondo. Gli sforzi del governo Clinton nei
Balcani, nella Somalia e ad Haiti per contribuire
alla creazione di nuove nazioni
vennero criticati come impegni da “assistente
sociale”. I detrattori sostennero che i
veri uomini e i veri professionisti di politica
estera non si abbassano a questi interventi,
né si curano del potere “morbido”, preferendo
far ricorso al duro impatto della forza
militare. Ma in realtà è bene che oggi la
politica estera americana faccia leva sull’intervento
sociale. Gli oppositori del potere
americano nel mondo – i Fratelli Musulmani,
Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano,
Mahmud Ahmadinejad in Iran, i leader
populisti in Sudamerica – sono riusciti a
raggiungere il potere perché offrono servizi
sociali direttamente alle fasce più povere
della popolazione.
Oggi le esigenze del ruolo di leadership per
l’America appaiono pertanto molto diverse.
E sollevano la questione: l’America è realmente
pronta ad affrontare un mondo nel
quale non è più in grado di affermare la
propria egemonia?
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Scene di ordinaria povertà, in una periferia
nordamericana. - Dario Carrozzini |
Non credo che il declino americano sia inevitabile.
Gli Stati Uniti possiedono enormi ricchezze
di tecnologia, di competitività e di imprenditorialità;
possono vantare un mercato
del lavoro flessibile e istituzioni finanziarie
fondamentalmente salde. I principali problemi
attuali degli Usa sono quelli interni.
Esistono tre specifiche aree di debolezza, alle
quali gli Stati Uniti dovranno porre rimedio
se vorranno superare gli scogli su menzionati.
Si tratta in primo luogo del calo di
efficienza nel settore pubblico; in secondo
luogo, di una certa pigrizia da parte degli
americani quando si deve capire il mondo da una prospettiva che non sia quella degli
Stati Uniti; in terzo luogo, di un sistema politico
polarizzato, che è diventato incapace
persino di discutere le possibili soluzioni a
questi problemi.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito
a un numero molto deprimente di insuccessi
politici dovuti all’incapacità dei funzionari
pubblici nel programmare e attuare
le politiche varate dal governo. Il caso più
noto riguarda la mancata pianificazione
dell’occupazione dell’Iraq e l’incapacità di
affrontare la successiva, e imprevista, guerra
civile.
Negli ultimi anni sono state avviate due
grandi riorganizzazioni del governo federale
a Washington: la creazione del ministero
della Sicurezza Nazionale e la ristrutturazione
dei Servizi segreti. Sorpresa: oggi gli
americani dimostrano minori capacità in
tutte e due queste aree rispetto a prima della
riorganizzazione.
Il secondo problema riguarda la pigrizia
mentale americana per quel che attiene al
mondo esterno. Dopo il lancio dello Sputnik,
sul finire degli anni Cinquanta, gli Stati
Uniti risposero alla sfida sovietica con massicci
investimenti nella ricerca scientifica e
tecnologica, che furono segno di grande accortezza,
e riaffermarono la leadership americana.
Dopo l’11 settembre, l’America
avrebbe potuto reagire in modo analogo,
lanciando grandi investimenti per capire
meglio quelle parti del mondo molto complesse,
e fino a quel momento trascurate,
come il Vicino Oriente. È un vero scandalo
che nella nuova e mostruosa ambasciata
americana a Baghdad solo pochissime persone
parlino correntemente l’arabo.
Il terzo punto concerne la situazione di stallo
che mina il sistema politico americano.
La polarizzazione ha fatto sparire ogni dibattito
serio sul modo di risolvere queste
sfide di lungo termine. La Destra non osa
parlare di nuove tasse per finanziare i servizi
pubblici essenziali. La Sinistra non osa
abbordare la questione della privatizzazione
della previdenza sociale né dell’innalzamento
dell’età pensionabile. Pertanto, la
cultura politica che si è venuta a creare, come
risultato di queste politiche, si rivela incapace
di prendere le decisioni necessarie.
Ho delineato alcune linee guida che consentiranno
all’America di affrontare il futuro,
ma nessuno potrà mai beneficiare di un’America
chiusa su se stessa, incapace di attuare
importanti politiche, e troppo divisa
per prendere decisioni cruciali. Questo atteggiamento
rischia di danneggiare non soltanto
gli americani, ma anche il resto del
mondo.
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