Dicembre 2008

OLTRE LA GRANDE CRISI

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SE SI RIFONDA
UN MODERNO SISTEMA

Taomar C. Levi

 

 
 

 

 

Talebani del mercato. Quelli che affermano sempre la sacralità del mercato, davanti al quale si inginocchiano come davanti a un totem; quelli che sanno solo dire: il mercato metterà a posto ogni cosa.

 

«È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi... E in un batter d’occhio sono spariti, a cento per volta. Ah – diceva però tra sé don Abbondio, tornato a casa – se la peste facesse sempre e per tutte le cose in questa maniera, sarebbe
proprio peccato il dirne male: quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione; e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire, ve’». Così don Abbondio, rinfrancato e divenuto persino simpatico e spiritoso dopo essersi bene accertato che la peste aveva falciato anche don Rodrigo, ci ricorda che ogni crisi presenta anche delle opportunità. La crisi economico-finanziaria è ancora in corso e potrà avere anche ulteriori gravi conseguenze difficili per ora da valutare. Inquieta il fatto che sui mercati di Borsa non siano ancora apparse reazioni di difesa (nell’ottobre 1987 ero a Wall Street e ricordo che le prime reazioni apparvero dopo due giorni); preoccupano la tenuta di interi Paesi dal circuito finanziario debole, il rischio carte di credito, il non funzionamento del fondamentale mercato interbancario, i termini e la portata dell’inevitabile restrizione creditizia, gli effetti degli “attivi tossici” e della perdita dei valori azionari sui bilanci dei grandi fondi pensione, gli effetti sulle assicurazioni, gli effetti della crisi di mostri come la General Motors, (crisi in atto da tempo, ma che, sommandosi a quella finanziaria, può fare molto male), la rincorsa alle agevolazioni di Stato implorate da tanti settori industriali, gli effetti della crisi sui grandi fornitori del cliente Usa, come la Cina. Ciononostante, è bene cominciare subito a riordinare le idee per il dopo peste. Questa crisi per la sua profondità, vastità, intensità, può indurci a una riflessione seria sullo stato del mondo e a por mano, correggendoli, ai grandi squilibri che dominano l’economia mondiale.
Può aiutarci a sviluppare una più seria, equilibrata, responsabile e coinvolgente globalizzazione; a bilanciare il rapporto tra economia finanziaria ed economia produttiva;
a liberarci dall’idolatria del Prodotto interno lordo; ad attenuare e non esasperare le differenze di reddito, come sempre auspicato dal liberalismo classico (quello degli Einaudi, dei Röpke, degli Erhard); a porre fine all’esaltazione del gigantismo e dei monopoli che abbiamo ottusamente esaltato senza renderci conto che stavamo esaltando la corda alla quale ci volevamo impiccare; a ridiscutere la posizione sociale degli alti dirigenti dei grandi gruppi innalzati a un’impropria e dannosa posizione di neo-aristocrazia senza responsabilità che si appropria di un “surplus” totalmente sproporzionato ai meriti.
Oppure possiamo asciugarci le ferite, mettere in prigione un paio di mascalzoni, svendere
un po’ di appartamenti per pagare i mutui, rimettere giù la testa sul tavolo di lavoro o sulla scrivania, ricominciando pazientemente a faticare e a risparmiare. Business as usual: è quello che gli uomini di potere e i loro economisti portaborse sperano e per il quale si stanno già alacremente attivando.
Per ora, i segnali per un dibattito serio e costruttivo non sono buoni. Invece di sforzarci di spremere dalla crisi un nuovo pensiero, capace di apprendere le grandi lezioni che dalla crisi scaturiscono, i più leggono la crisi con occhiali deformanti, per trovare in essa nuova conferma dei loro antichi convincimenti. Tentando una schematizzazione, si possono intravedere le seguenti posizioni principali.

Dario Carrozzini
Dario Carrozzini


I talebani del mercato. Sono coloro i quali, sempre e comunque, affermano la sacralità del mercato, davanti al quale si inginocchiano
come davanti a un totem; quelli che sanno solo dire: il mercato metterà a posto ogni cosa. A costoro va posta una semplice domanda: ma che cosa diavolo è per voi il mercato, e che cosa sono per voi i mercati finanziari attuali? Potrei rispondere con le parole di uno dei più esperti e importanti operatori finanziari europei, il quale, in una lettera privata, scrive: «In sintesi la mia opinione è che chiamiamo “mercati finanziari” un insieme di alvei di transazioni che, per almeno tre quarti, sono un’accozzaglia di dominii artificialmente segmentati e totalmente opachi di poche grandi banche oligopoliste che devono la loro posizione alle distorsioni del “too big to fail” (“Troppo grosso per fallire”, N.d.R.). Da questo privilegio deriva la rendita di posizione che, insieme alla leva, spiega i Roe esagerati di un settore protetto. Gli intermediari bancari sono stati iper-regolamentati in modo prociclico e controproducente, e così sono stati creati degli alvei di negoziazione fragili e instabili, che è fin vergognoso chiamare mercati. È necessario un ripensamento radicale della normativa che si focalizzi sulla funzionalità dei mercati».
Chi scrive queste parole non è un socialista,è un liberale che non solo crede nell’utilità del mercato, ma che sul mercato e del mercato vive da una vita. Ma non ha il binocolo coperto con il tappo, come i talebani del mercato, e quindi sa guardare ai fatti reali. E si pone delle domande di fondo sul funzionamento dei mercati. Io ne ho messe in fila una ventina di queste domande, per ciascuna delle quali sto approfondendo la risposta. Qui ne riproduco alcune, solo per dare l’idea della direzione in cui si dovrebbe svolgere l’analisi:
Dov’erano i controllori della base monetaria quando l’espansione del credito a enti finanziari non bancari ha raggiunto, nel 2005, importi incredibilmente elevati? Perché tutte le regolamentazioni internazionali hanno consentito la convergenza tra prodotti hedging e speculativi, e fondi pensione e d’investimento?

Nello Wrona
Nello Wrona


Perché le Banche centrali, pur conoscendo bene le pratiche dei veicoli fuori bilancio (tanto che la Banca d’Italia ne ha regolato gli effetti sin dalla fine del 2003 sulle cartolarizzazioni), ne hanno tollerato la crescita?
Perché tutte le regolamentazioni internazionali hanno favorito le prassi tipiche delle Investment Bank, snaturando modelli di business e operativi consolidati e sperimentati? Perché la Mifid (direttiva europea sui mercati finanziari) consente di nascondere e occultare le transazioni internazionalizzandole (come da noi era permesso prima degli anni Novanta), uccidendo così la trasparenza della formazione del prezzo; ha di fatto obbligato gli intermediari a non transitare più su una stanza di compensazione (clearing), ripristinando superate tradizioni e facendo dimenticare il rischio di controparte; non ha imposto la centralizzazione delle operazioni fuori mercato; e ha imposto o tollerato tante altre regolamentazioni che hanno fatto regredire di almeno dieci anni la qualità dei mercati?
Queste poche domande tecniche (e mi scuso per i lettori non di mestiere, ma è necessario
andare – ogni tanto – nella concretezza anche tecnica delle cose) sono utili per illustrare una tesi che sta emergendo con chiarezza: i mercati non sono poco regolamentati, sono molto male regolamentati; la Mifid è, sotto il profilo della trasparenza dei mercati, un disastro, e ha fatto fare all’Italia un salto all’indietro di un decennio. Questa cattiva regolamentazione, della quale Mifid è la punta avanzata, non è frutto né del caso né di errori né d’ignoranza né di trascuratezza. È frutto di una precisa volontà, di una precisa strategia, di un progetto creato, passo dopo passo, dalle potenti lobby che di questo tipo di
“mercato” avevano bisogno per fare gli affaracci loro. Ma chi di mercati ferisce, di mercato perisce.
Dunque, non bisogna più perdere tempo a recitare filastrocche sul valore del mercato,
ma occorre dedicarsi alla difficile opera di ricostruire il mercato, non imbalsamandolo con nuove regole, ma cambiando molte regole perverse che le lobby hanno fatto filtrare attraverso i regolamentatori americani ed europei.
Gli statalisti. Questi approfittano della crisi per esaltare il ritorno a un grande impegno dello Stato in economia. Gli interventi per salvare il sistema bancario mondiale dal tracollo
erano indispensabili, fondamentali. Vi è una differenza enorme tra le banche e le altre imprese. Attraverso le banche passa il“sangue” per le altre imprese e per tutto l’apparato
produttivo. È fondamentale che questo flusso non si fermi. E quando il sistema bancario, nel suo insieme, entra in una crisi così profonda, solo gli Stati possono salvare il salvabile, come hanno fatto. Ma questo non è socialismo, né statalismo: è salvataggio nell’interesse collettivo, è pragmatismo.
E come tutti gli interventi di salvataggio, deve essere temporaneo. E sono certo che così sarà negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ma ho una grande paura che così non sarà in Paesi come l’Italia e la Francia, che lo statalismo ce l’hanno nel sangue. E in Italia la bandiera dello statalismo è stata subito alzata a livello governativo, anche se il nostroè il Paese che non ha avuto bisogno, per ora, di interventi di salvataggio delle banche.
Allora è necessario ricordare lo squallore degli anni Settanta, quando tutti i movimenti di persone, cose e capitali erano strettamente controllati o impediti; quando Paesi come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna erano imbalsamati e rischiavano la morte per inedia, e Paesi come l’Italia erano un disastro sotto ogni punto di vista. Ogni progressista vero, nel momento in cui contesta i falsi liberali o talebani del mercato, deve, dunque, gridare a gran voce: mai più, mai più la politica nell’economia; mai più, mai più la politica nelle banche; mai più, mai più il ritorno ai tristissimi anni Settanta.

Archivio BPP
Archivio BPP


I nichilisti.
Non trovo denominazione più appropriata per quelli che dicono: la crisi è seria, ma passerà e dopo che sarà passata sarà come prima, perché questo è il gioco del capitalismo e nulla si può cambiare. Business as usual, dunque. Ma Wolfgang Streek, docente di Sociologia dell’Università di Colonia e direttore del “Max Planck Institute” per le ricerche sociali della stessa città, in un acuto saggio intitolato Lektion zum Kapitalismus, (sulla Frankfurter Allgemeine della fine dello scorso mese di settembre), ci ricorda che anche business as usual è continuità, mentre il capitalismo produce sempre e comunque discontinuità: «Il capitalismo non è un ordine, ma un disordine istituzionalizzato [...]; non è continuità, ma è la più sorprendente discontinuità; non è business as casual, ma la più libera creatività».
Quindi, ipotizzare, se non desiderare che tutto riprenda come prima è profondamente sbagliato, anche da un punto di vista capitalistico. Tutti gli strumenti utilizzati nel portare alla crisi (dai derivati agli swap ai Cdf) sono stati ingegnose invenzioni utili per rendere i mercati più liquidi e più ampi. Sono dunque strumenti che rimarranno tra noi. Sono le modalità con cui sono stati adoperati che hanno portato al collasso di tanta parte del sistema bancario internazionale; e, dunque, tali modalità devono essere corrette ed è importante analizzare, capire e correggere gli abusi, le esagerazioni, le cattive gestioni.
Ma se l’analisi tecnica e di dettaglio è indispensabile, non ci si deve fermare qui. Bisogna
poi domandarsi perché queste esagerazioni sono avvenute e avventurarsi, con fatica, alla ricerca di una più aggiornata cultura economica, di una più profonda visione politica, di una più elevata morale, di un più responsabile management.
Bisogna riprendere la ricerca per un’economia di mercato non contro l’uomo, come i grandi sostenitori dell’economia libera e di mercato hanno sempre luminosamente sostenuto, da Hayek a von Mises, a Einaudi, a Erhard, fino al recente Premio Nobel Paul
Krugman. Bisogna trovare la strada per imbrigliare la neo-aristocrazia dei top manager onorati e pagati come sciamani senza più alcuna relazione con i loro apporti e i loro meriti,
e per aumentare e non cancellare la loro responsabilità anche penale; ed è certamente inquietante che da noi la peste non falci, ma valorizzi ulteriormente i don Rodrigo. Se riusciremo a fare dei passi importanti in questa direzione, la crisi diventerà una grande opportunità, perché ci aiuterà a costruire un mondo migliore, senza utopie e senza arroganza, ma anche senza arrenderci prima di combattere.

   
   
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