Talebani
del mercato.
Quelli che
affermano sempre
la sacralità del
mercato, davanti
al quale si
inginocchiano
come davanti
a un totem; quelli
che sanno solo
dire: il mercato
metterà a posto
ogni cosa.
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«È stata un gran flagello questa peste; ma è
anche stata una scopa; ha spazzato via certi
soggetti che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo
più: verdi, freschi, prosperosi... E in
un batter d’occhio sono spariti, a cento per
volta. Ah – diceva però tra sé don Abbondio,
tornato a casa – se la peste facesse sempre
e per tutte le cose in questa maniera, sarebbe
proprio peccato il dirne male: quasi
quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione;
e si potrebbe stare a patti d’averla; ma guarire,
ve’». Così don Abbondio, rinfrancato
e divenuto persino simpatico e spiritoso dopo
essersi bene accertato che la peste aveva
falciato anche don Rodrigo, ci ricorda che
ogni crisi presenta anche delle opportunità.
La crisi economico-finanziaria è ancora in
corso e potrà avere anche ulteriori gravi
conseguenze difficili per ora da valutare. Inquieta
il fatto che sui mercati di Borsa non
siano ancora apparse reazioni di difesa (nell’ottobre
1987 ero a Wall Street e ricordo
che le prime reazioni apparvero dopo due
giorni); preoccupano la tenuta di interi Paesi
dal circuito finanziario debole, il rischio
carte di credito, il non funzionamento del
fondamentale mercato interbancario, i termini
e la portata dell’inevitabile restrizione
creditizia, gli effetti degli “attivi tossici” e
della perdita dei valori azionari sui bilanci
dei grandi fondi pensione, gli effetti sulle assicurazioni,
gli effetti della crisi di mostri
come la General Motors, (crisi in atto da
tempo, ma che, sommandosi a quella finanziaria,
può fare molto male), la rincorsa alle
agevolazioni di Stato implorate da tanti settori
industriali, gli effetti della crisi sui grandi
fornitori del cliente Usa, come la Cina.
Ciononostante, è bene cominciare subito a
riordinare le idee per il dopo peste. Questa
crisi per la sua profondità, vastità, intensità,
può indurci a una riflessione seria sullo stato
del mondo e a por mano, correggendoli,
ai grandi squilibri che dominano l’economia
mondiale.
Può aiutarci a sviluppare una più seria,
equilibrata, responsabile e coinvolgente globalizzazione;
a bilanciare il rapporto tra
economia finanziaria ed economia produttiva;
a liberarci dall’idolatria del Prodotto interno
lordo; ad attenuare e non esasperare
le differenze di reddito, come sempre auspicato
dal liberalismo classico (quello degli
Einaudi, dei Röpke, degli Erhard); a porre
fine all’esaltazione del gigantismo e dei monopoli
che abbiamo ottusamente esaltato
senza renderci conto che stavamo esaltando
la corda alla quale ci volevamo impiccare; a
ridiscutere la posizione sociale degli alti dirigenti
dei grandi gruppi innalzati a un’impropria
e dannosa posizione di neo-aristocrazia
senza responsabilità che si appropria
di un “surplus” totalmente sproporzionato
ai meriti.
Oppure possiamo asciugarci le ferite, mettere
in prigione un paio di mascalzoni, svendere
un po’ di appartamenti per pagare i mutui, rimettere giù la testa sul tavolo di lavoro o sulla scrivania, ricominciando pazientemente
a faticare e a risparmiare. Business as usual: è quello che gli uomini di potere
e i loro economisti portaborse sperano
e per il quale si stanno già alacremente attivando.
Per ora, i segnali per un dibattito serio e costruttivo
non sono buoni. Invece di sforzarci
di spremere dalla crisi un nuovo pensiero,
capace di apprendere le grandi lezioni che
dalla crisi scaturiscono, i più leggono la crisi
con occhiali deformanti, per trovare in essa
nuova conferma dei loro antichi convincimenti.
Tentando una schematizzazione, si
possono intravedere le seguenti posizioni
principali.
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Dario Carrozzini |
I talebani del mercato. Sono coloro i quali,
sempre e comunque, affermano la sacralità
del mercato, davanti al quale si inginocchiano
come davanti a un totem; quelli che
sanno solo dire: il mercato metterà a posto
ogni cosa. A costoro va posta una semplice
domanda: ma che cosa diavolo è per voi il
mercato, e che cosa sono per voi i mercati
finanziari attuali? Potrei rispondere con le
parole di uno dei più esperti e importanti
operatori finanziari europei, il quale, in
una lettera privata, scrive: «In sintesi la
mia opinione è che chiamiamo “mercati finanziari”
un insieme di alvei di transazioni
che, per almeno tre quarti, sono un’accozzaglia
di dominii artificialmente segmentati
e totalmente opachi di poche grandi banche
oligopoliste che devono la loro posizione
alle distorsioni del “too big to fail”
(“Troppo grosso per fallire”, N.d.R.). Da
questo privilegio deriva la rendita di posizione
che, insieme alla leva, spiega i Roe esagerati di un settore protetto. Gli intermediari bancari sono stati iper-regolamentati
in modo prociclico e controproducente,
e così sono stati creati degli alvei di negoziazione
fragili e instabili, che è fin vergognoso
chiamare mercati. È necessario
un ripensamento radicale della normativa
che si focalizzi sulla funzionalità dei mercati».
Chi scrive queste parole non è un socialista,è un liberale che non solo crede nell’utilità
del mercato, ma che sul mercato e del
mercato vive da una vita. Ma non ha il binocolo
coperto con il tappo, come i talebani
del mercato, e quindi sa guardare ai fatti
reali. E si pone delle domande di fondo sul
funzionamento dei mercati. Io ne ho messe
in fila una ventina di queste domande, per
ciascuna delle quali sto approfondendo la
risposta. Qui ne riproduco alcune, solo per
dare l’idea della direzione in cui si dovrebbe
svolgere l’analisi:
Dov’erano i controllori della base monetaria
quando l’espansione del credito a enti
finanziari non bancari ha raggiunto, nel
2005, importi incredibilmente elevati?
Perché tutte le regolamentazioni internazionali
hanno consentito la convergenza tra
prodotti hedging e speculativi, e fondi pensione
e d’investimento?
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Nello Wrona |
Perché le Banche centrali, pur conoscendo
bene le pratiche dei veicoli fuori bilancio
(tanto che la Banca d’Italia ne ha regolato
gli effetti sin dalla fine del 2003 sulle cartolarizzazioni),
ne hanno tollerato la crescita?
Perché tutte le regolamentazioni internazionali
hanno favorito le prassi tipiche delle Investment
Bank, snaturando modelli di business
e operativi consolidati e sperimentati?
Perché la Mifid (direttiva europea sui mercati
finanziari) consente di nascondere e occultare
le transazioni internazionalizzandole
(come da noi era permesso prima degli anni
Novanta), uccidendo così la trasparenza della
formazione del prezzo; ha di fatto obbligato
gli intermediari a non transitare più su una stanza di compensazione (clearing), ripristinando superate tradizioni e facendo dimenticare
il rischio di controparte; non ha
imposto la centralizzazione delle operazioni
fuori mercato; e ha imposto o tollerato tante
altre regolamentazioni che hanno fatto regredire
di almeno dieci anni la qualità dei
mercati?
Queste poche domande tecniche (e mi scuso
per i lettori non di mestiere, ma è necessario
andare – ogni tanto – nella concretezza anche
tecnica delle cose) sono utili per illustrare
una tesi che sta emergendo con chiarezza: i
mercati non sono poco regolamentati, sono
molto male regolamentati; la Mifid è, sotto il
profilo della trasparenza dei mercati, un disastro,
e ha fatto fare all’Italia un salto all’indietro
di un decennio. Questa cattiva regolamentazione,
della quale Mifid è la punta
avanzata, non è frutto né del caso né di errori
né d’ignoranza né di trascuratezza. È frutto
di una precisa volontà, di una precisa strategia,
di un progetto creato, passo dopo passo,
dalle potenti lobby che di questo tipo di
“mercato” avevano bisogno per fare gli affaracci
loro. Ma chi di mercati ferisce, di mercato
perisce.
Dunque, non bisogna più perdere tempo a
recitare filastrocche sul valore del mercato,
ma occorre dedicarsi alla difficile opera di ricostruire
il mercato, non imbalsamandolo
con nuove regole, ma cambiando molte regole
perverse che le lobby hanno fatto filtrare
attraverso i regolamentatori americani ed
europei.
Gli statalisti. Questi approfittano della crisi
per esaltare il ritorno a un grande impegno
dello Stato in economia. Gli interventi per
salvare il sistema bancario mondiale dal tracollo
erano indispensabili, fondamentali. Vi è una differenza enorme tra le banche e le altre
imprese. Attraverso le banche passa il“sangue” per le altre imprese e per tutto l’apparato
produttivo. È fondamentale che questo
flusso non si fermi. E quando il sistema
bancario, nel suo insieme, entra in una crisi
così profonda, solo gli Stati possono salvare
il salvabile, come hanno fatto.
Ma questo non è socialismo, né statalismo: è
salvataggio nell’interesse collettivo, è pragmatismo.
E come tutti gli interventi di salvataggio,
deve essere temporaneo. E sono certo
che così sarà negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.
Ma ho una grande paura che così non
sarà in Paesi come l’Italia e la Francia, che lo
statalismo ce l’hanno nel sangue. E in Italia
la bandiera dello statalismo è stata subito alzata
a livello governativo, anche se il nostroè il Paese che non ha avuto bisogno, per ora,
di interventi di salvataggio delle banche.
Allora è necessario ricordare lo squallore degli
anni Settanta, quando tutti i movimenti
di persone, cose e capitali erano strettamente
controllati o impediti; quando Paesi come gli
Stati Uniti o la Gran Bretagna erano imbalsamati
e rischiavano la morte per inedia, e
Paesi come l’Italia erano un disastro sotto
ogni punto di vista. Ogni progressista vero,
nel momento in cui contesta i falsi liberali o
talebani del mercato, deve, dunque, gridare a
gran voce: mai più, mai più la politica nell’economia;
mai più, mai più la politica nelle
banche; mai più, mai più il ritorno ai tristissimi
anni Settanta.
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Archivio BPP |
I nichilisti.
Non trovo denominazione più
appropriata per quelli che dicono: la crisi è
seria, ma passerà e dopo che sarà passata
sarà come prima, perché questo è il gioco del
capitalismo e nulla si può cambiare. Business as usual, dunque. Ma Wolfgang Streek, docente
di Sociologia dell’Università di Colonia
e direttore del “Max Planck Institute”
per le ricerche sociali della stessa città, in un
acuto saggio intitolato Lektion zum Kapitalismus,
(sulla Frankfurter Allgemeine della fine
dello scorso mese di settembre), ci ricorda
che anche business as usual è continuità,
mentre il capitalismo produce sempre e comunque
discontinuità: «Il capitalismo non è
un ordine, ma un disordine istituzionalizzato
[...]; non è continuità, ma è la più sorprendente
discontinuità; non è business as casual,
ma la più libera creatività».
Quindi, ipotizzare, se non desiderare che
tutto riprenda come prima è profondamente
sbagliato, anche da un punto di vista capitalistico.
Tutti gli strumenti utilizzati nel
portare alla crisi (dai derivati agli swap ai
Cdf) sono stati ingegnose invenzioni utili
per rendere i mercati più liquidi e più ampi.
Sono dunque strumenti che rimarranno tra
noi. Sono le modalità con cui sono stati
adoperati che hanno portato al collasso di
tanta parte del sistema bancario internazionale;
e, dunque, tali modalità devono essere
corrette ed è importante analizzare, capire e
correggere gli abusi, le esagerazioni, le cattive
gestioni.
Ma se l’analisi tecnica e di dettaglio è indispensabile,
non ci si deve fermare qui. Bisogna
poi domandarsi perché queste esagerazioni
sono avvenute e avventurarsi, con fatica,
alla ricerca di una più aggiornata cultura
economica, di una più profonda visione politica,
di una più elevata morale, di un più responsabile management.
Bisogna riprendere la ricerca per un’economia
di mercato non contro l’uomo, come i
grandi sostenitori dell’economia libera e di
mercato hanno sempre luminosamente sostenuto,
da Hayek a von Mises, a Einaudi, a
Erhard, fino al recente Premio Nobel Paul
Krugman. Bisogna trovare la strada per imbrigliare
la neo-aristocrazia dei top manager onorati e pagati come sciamani senza più alcuna
relazione con i loro apporti e i loro meriti,
e per aumentare e non cancellare la loro
responsabilità anche penale; ed è certamente
inquietante che da noi la peste non falci, ma
valorizzi ulteriormente i don Rodrigo.
Se riusciremo a fare dei passi importanti in
questa direzione, la crisi diventerà una grande
opportunità, perché ci aiuterà a costruire
un mondo migliore, senza utopie e senza arroganza,
ma anche senza arrenderci prima di
combattere.
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