L'effetto
deprimente
che hanno sulle
Borse gli annunci
dei Governi
a sostegno delle
banche in crisi
suggerisce che
meno i governi
fanno, meglio è.
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Ci salverà la speculazione. Che non è una brutta parola – come vuole il moralismo d’accatto
anti-capitalista – ma ha la stessa funzione del mercato di ridurre le differenze di prezzo; si
compera quando il prezzo è basso e si vende quando è alto. È un fattore di razionalizzazione
nell’allocazione della ricchezza. Nei giorni di crisi, in Borsa, tutti hanno venduto; qualcuno,
invece, ha incominciato a chiedersi se non fosse il caso di comprare. Si è scommesso su
prezzi, allo scoperto, senza neppure la disponibilità del bene scambiato; è bastato tenerne
d’occhio il prezzo e fissare l’esito della scommessa.
La prospettiva di deflazione produce speculatori, altrimenti detti ribassisti. Francesco Micheli – un finanziere con alle spalle una sana e robusta cultura classica (che non guasta mai) – lo sostiene con esemplare chiarezza; «Tutti odiano, e da sempre, i ribassisti, perché il mondo è per sua natura rialzista, spera nella crescita dell’economia. Però storicamente il ribassista
ha anche svolto un importante ruolo di moderatore. Una delle tragedie che ci hanno
portato alla situazione di grande crisi è stata l’autoprofezia della crescita tendente all’infinito
che fa lievitare in maniera esasperata i valori dei titoli in Borsa. Quando questo succede e
arriva qualcuno che, sulla base dei fondamentali, punta contro un certo titolo salito a quotazioni
irragionevolmente alte, allora si tratta di un’azione riequilibratrice utile al mercato».
È la rivincita dello spontaneismo sull’Utopia programmatrice; sul mito razionalista della
prevedibilità del processo sociale e della capacità degli “esperti” di gestirlo; sul mito progressista
di un futuro sempre più luminoso: entrambi figli della Rivoluzione del 1789.È nata così una realtà “virtuale”, nei laboratori dell’econometria (l’economia matematica),
sugli algoritmi della quale molti operatori hanno fondato le loro previsioni e le loro scelte
sbagliate. Un’economia fondata sui consumi a debito, invece che sul risparmio e sugli investimenti
a lungo termine, l’uno e gli altri in uggia a John Maynard Keynes, del quale si riesumano
oggi le teorie “sul breve”.
Il rischio è che si faccia lo stesso errore. Che l’analisi macro-economica – che apre sempre la
strada all’intervento pubblico nell’economia – la faccia ancora una volta da padrone su
quella micro-economica. L’effetto deprimente che hanno sull’andamento delle Borse gli annunci
degli interventi dei Governi a sostegno delle banche in crisi sembrerebbe suggerire
che, in questi casi, meno i governi fanno, meglio è. Non arrivo a sostenere tanto. Ma sono,
però, convinto che, più degli interventi pubblici, saranno, se li si lascerà fare, i milioni di birrai
e i macellai di turno – che fanno previsioni e operano scelte sulla base della propria prospettiva
individuale – a tirarci fuori, e prima del previsto, dai guai.
Forse, è opportuno ricordare che i grandi economisti del passato erano anche e soprattutto
filosofi empirici; analisti dei comportamenti degli uomini in carne e ossa; delle passioni che
guidano la ragione, non della ragione che governa quelle.
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