Dicembre 2008

GRANDE CRISI E TEMPO PRESENTE

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LA RIVINCITA DELLA POLITICA

Flavio Albini

 

 
 

 

 

La prima lezione è riconoscere lo sconcertante ritardo con cui la politica ha reagito alla crisi, aspettando di arrivare sull'orlo del collasso: sono passati troppi anni senza alcuna reazione politica.

 

La risposta dei mercati alle iniziative coordinate dei Paesi europei, pur su un territorio accidentato, tipico per montagne russe,è stata immediata. La mobilitazione dell’Eurogruppo, insieme con Londra, è sembrata abbastanza credibile. I problemi della
finanza globale sono ancora in buona parte sul tavolo, tranne quello più importante: il vuoto di fiducia e di garanzie di ultima istanza. Ci saranno quindi nuovi scossoni e altri costi da sopportare, ma il burrone nonè più senza fondo.
L’esito dell’iniziativa europea probabilmente trasformerà anche il rapporto tra politica e mercati. I poteri pubblici coordinati sembrano per ora in grado di governare il mare aperto dell’economia globale senza modificare la cornice del modello europeo: non cambiano le regole fiscali del patto di stabilità, né riducono l’autonomia della politica monetaria che veniva associata al dominio esercitato dai mercati finanziari sulla politica. Al contrario, l’alibi dello strapotere dell’economia, che ha paralizzato a lungo l’iniziativa politica – Nietzsche avrebbe parlato di «tirannia dell’impotenza» – è caduto. Ma proprio per questo è importante cogliere alcune lezioni che questi mesi stanno impartendo anche alla politica e che riguardano i suoi ritardi, la tentazione di legare le mani al mercato e la titubanza di fronte al coordinamento sovranazionale.
La prima lezione è riconoscere lo sconcertante ritardo con cui la politica ha reagito alla crisi, aspettando di arrivare “sull’orlo del collasso”. I mercati avevano segnalato tensioni nel sistema finanziario americano già alla fine del 2005. Il contagio europeo era visibile a metà 2007. Sono passati troppi anni senza alcuna reazione politica. I primi interventi si sono interessati ai sintomi della crisi (banche che stavano fallendo, o l’acquisto dei titoli “tossici”), anziché sulle cause. L’eccesso di debiti indotto da denaro a basso costo, il trend insostenibile del mercato immobiliare, la rischiosità strutturale del sistema finanziario, gli effetti perversi delle assicurazioni sui default. Gli interventi che agiscono soltanto sui sintomi sono controproducenti: salvare solo alcune grandi banche ha distrutto la fiducia e il piano Paulson ha provocato i collassi delle Borse rendendo reali le perdite teoriche.
Perché allora la politica si è occupata dei sintomi e non delle cause della crisi? In parte, per un’oggettiva difficoltà a rinnegare i benefìci passati del mercato così come lo conoscevamo, in parte perché una cultura di governo subalterna ai poteri finanziari tende
a tutelare quei poteri. Non è un caso che l’intervento pubblico nel capitale delle banche sia partito dall’Europa e non da Washington, dove prevalevano i conflitti d’interesse tra Amministrazione e Wall Street. Ma perché tanto ritardo? Come avrebbe detto von Mises, non esiste un’alternativa al mercato come meccanismo sociale che aggrega le informazioni sull’agire economico e le rivela pubblicamente sotto forma di prezzi.
Così gran parte delle autorità pubbliche sono rimaste prive di informazioni affidabili fino a che lo stesso mercato non le ha rivelate nelle forme di una crisi già conclamata. Il mercato infatti svolge la funzione di evidenziare anche i propri errori (paradossalmente soprattutto con gli strumenti derivati), cosicché, quando crescerà la pressione per regolarlo, ci si dovrà preoccupare di non legargli troppo le mani, ma piuttosto di disperderne alcune oscurità finanziarie e dipanarne molti conflitti d’interesse, per rendere trasparente la sua funzione informativa. Le autorità potranno reagire ai segnali di crisi più rapidamente, avendo imparato che più tardi lo faranno, più alti saranno i costi per la collettività.

Due pensionati in Piazza Sant’Oronzo,a Lecce. - Nello Wrona
Due pensionati in Piazza Sant’Oronzo,a Lecce. - Nello Wrona


L’altra ragione per cui si è agito in ritardo è che di fronte a mercati finanziari globali la risposta nazionale è inservibile. Bisogna come minimo coordinare le risposte e agire congiuntamente, ma in assenza di istituzioni già pronte, la difficile ripartizione dei costi implicita nell’azione collettiva avviene soltanto quando si è sull’orlo del burrone.
L’iniziativa dell’Eurogruppo dimostra inoltre che esiste una relazione tra impegno politico
e capacità d’azione. Difficilmente sarebbe stato possibile reagire a livello di Unione a 27, con priorità troppo divergenti. Forse sarebbe stato impossibile anche senza la preliminare consultazione franco-tedesca. In ogni caso, gli Stati hanno riscoperto la loro forza nei confronti dei mercati proprio quando ognuno di essi ha riconosciuto la propria solitaria debolezza.
La lezione della crisi è dunque che i poteri pubblici sono in grado di governare i fenomeni globali, ma solo trasformando se stessi: creando ambiti di decisione sovranazionale, e sfruttando il funzionamento ordinato dei mercati con un comportamento trasparente di fronte ai cittadini.
Non si tratta di lezioni teoriche. Comunque vadano i mercati, a breve termine avremo a che fare con altre conseguenze recessive della crisi. Anche se contabilmente sul capitale delle grandi banche non modificano l’indebitamento degli Stati, i margini finanziari dei Governi si ridurranno in una fase di calo dell’economia, in cui non sarà facile, dopo anni di “razionalizzazioni”, spiegare ai nuovi disoccupati che la responsabilità della crisi è di anni di “follie finanziarie”.
Nonostante i vincoli imposti dai Governi nei salvataggi, le grandi banche ridurranno il credito all’economia per evitare nuove perdite e una maggiore necessità di capitali, o un ritardo nel recupero degli azionisti privati. Molti Paesi, tra i quali quelli anglosassoni, rischiano una severa recessione, e tutto il mondo ne risentirà. Le ragioni per iniziative coordinate non sono affatto finite. Al contrario, quelle ragioni si sono rafforzate, e l’Europa è nella condizione di farle valere.

   
   
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