La prima lezione
è riconoscere
lo sconcertante
ritardo con cui
la politica ha
reagito alla crisi,
aspettando di
arrivare sull'orlo
del collasso: sono
passati troppi anni
senza alcuna
reazione politica.
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La risposta dei mercati alle iniziative coordinate
dei Paesi europei, pur su un territorio
accidentato, tipico per montagne russe,è stata immediata. La mobilitazione dell’Eurogruppo,
insieme con Londra, è sembrata
abbastanza credibile. I problemi della
finanza globale sono ancora in buona parte
sul tavolo, tranne quello più importante: il
vuoto di fiducia e di garanzie di ultima
istanza. Ci saranno quindi nuovi scossoni e
altri costi da sopportare, ma il burrone nonè più senza fondo.
L’esito dell’iniziativa europea probabilmente
trasformerà anche il rapporto tra politica
e mercati. I poteri pubblici coordinati sembrano
per ora in grado di governare il mare
aperto dell’economia globale senza modificare
la cornice del modello europeo: non
cambiano le regole fiscali del patto di stabilità,
né riducono l’autonomia della politica
monetaria che veniva associata al dominio
esercitato dai mercati finanziari sulla politica.
Al contrario, l’alibi dello strapotere dell’economia,
che ha paralizzato a lungo l’iniziativa
politica – Nietzsche avrebbe parlato
di «tirannia dell’impotenza» – è caduto. Ma
proprio per questo è importante cogliere alcune
lezioni che questi mesi stanno impartendo
anche alla politica e che riguardano i
suoi ritardi, la tentazione di legare le mani
al mercato e la titubanza di fronte al coordinamento
sovranazionale.
La prima lezione è riconoscere lo sconcertante
ritardo con cui la politica ha reagito
alla crisi, aspettando di arrivare “sull’orlo
del collasso”. I mercati avevano segnalato
tensioni nel sistema finanziario americano
già alla fine del 2005. Il contagio europeo
era visibile a metà 2007. Sono passati troppi
anni senza alcuna reazione politica. I primi
interventi si sono interessati ai sintomi della
crisi (banche che stavano fallendo, o l’acquisto
dei titoli “tossici”), anziché sulle cause.
L’eccesso di debiti indotto da denaro a basso
costo, il trend insostenibile del mercato
immobiliare, la rischiosità strutturale del sistema
finanziario, gli effetti perversi delle
assicurazioni sui default. Gli interventi che
agiscono soltanto sui sintomi sono controproducenti:
salvare solo alcune grandi banche
ha distrutto la fiducia e il piano Paulson
ha provocato i collassi delle Borse rendendo
reali le perdite teoriche.
Perché allora la politica si è occupata dei
sintomi e non delle cause della crisi? In parte,
per un’oggettiva difficoltà a rinnegare i
benefìci passati del mercato così come lo conoscevamo,
in parte perché una cultura di
governo subalterna ai poteri finanziari tende
a tutelare quei poteri. Non è un caso che
l’intervento pubblico nel capitale delle banche
sia partito dall’Europa e non da Washington,
dove prevalevano i conflitti d’interesse
tra Amministrazione e Wall Street.
Ma perché tanto ritardo? Come avrebbe
detto von Mises, non esiste un’alternativa al mercato come meccanismo sociale che aggrega le informazioni sull’agire economico e
le rivela pubblicamente sotto forma di prezzi.
Così gran parte delle autorità pubbliche
sono rimaste prive di informazioni affidabili
fino a che lo stesso mercato non le ha rivelate
nelle forme di una crisi già conclamata.
Il mercato infatti svolge la funzione di
evidenziare anche i propri errori (paradossalmente
soprattutto con gli strumenti derivati),
cosicché, quando crescerà la pressione
per regolarlo, ci si dovrà preoccupare di
non legargli troppo le mani, ma piuttosto di
disperderne alcune oscurità finanziarie e dipanarne
molti conflitti d’interesse, per rendere
trasparente la sua funzione informativa.
Le autorità potranno reagire ai segnali
di crisi più rapidamente, avendo imparato
che più tardi lo faranno, più alti saranno i
costi per la collettività.
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Due pensionati in Piazza Sant’Oronzo,a Lecce. - Nello Wrona |
L’altra ragione per cui si è agito in ritardo è
che di fronte a mercati finanziari globali la
risposta nazionale è inservibile. Bisogna come
minimo coordinare le risposte e agire
congiuntamente, ma in assenza di istituzioni
già pronte, la difficile ripartizione dei costi
implicita nell’azione collettiva avviene
soltanto quando si è sull’orlo del burrone.
L’iniziativa dell’Eurogruppo dimostra inoltre
che esiste una relazione tra impegno politico
e capacità d’azione. Difficilmente sarebbe
stato possibile reagire a livello di
Unione a 27, con priorità troppo divergenti.
Forse sarebbe stato impossibile anche senza
la preliminare consultazione franco-tedesca.
In ogni caso, gli Stati hanno riscoperto la
loro forza nei confronti dei mercati proprio
quando ognuno di essi ha riconosciuto la
propria solitaria debolezza.
La lezione della crisi è dunque che i poteri
pubblici sono in grado di governare i fenomeni
globali, ma solo trasformando se stessi:
creando ambiti di decisione sovranazionale,
e sfruttando il funzionamento ordinato
dei mercati con un comportamento trasparente
di fronte ai cittadini.
Non si tratta di lezioni teoriche. Comunque
vadano i mercati, a breve termine avremo a
che fare con altre conseguenze recessive della
crisi. Anche se contabilmente sul capitale
delle grandi banche non modificano l’indebitamento
degli Stati, i margini finanziari
dei Governi si ridurranno in una fase di calo
dell’economia, in cui non sarà facile, dopo
anni di “razionalizzazioni”, spiegare ai
nuovi disoccupati che la responsabilità della
crisi è di anni di “follie finanziarie”.
Nonostante i vincoli imposti dai Governi
nei salvataggi, le grandi banche ridurranno
il credito all’economia per evitare nuove
perdite e una maggiore necessità di capitali,
o un ritardo nel recupero degli azionisti privati.
Molti Paesi, tra i quali quelli anglosassoni,
rischiano una severa recessione, e tutto
il mondo ne risentirà. Le ragioni per iniziative
coordinate non sono affatto finite. Al
contrario, quelle ragioni si sono rafforzate, e
l’Europa è nella condizione di farle valere.
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