Se poi Obama
si rivelerà
all'altezza delle
sue idee coraggiose
allora avremo
vinto davvero tutti
quanti. E il Sogno
Americano
diventerà un
Sogno Planetario.
|
|
Il titolo più intrigante lo ha inventato El Mundo: “L’America cambia colore”. L’America
che si è sottratta alla trappola etnicistica
e che non ha issato la bandiera della
negritudine. L’America dove nulla è impossibile.
L’America che farà ancora la Storia
del mondo.
Il lungo autunno americano del 2008 ha registrato
la più partecipata delle tornate elettorali
dal trionfo di Lyndon B. Johnson nel
1964, quando si recò alle urne il 70 per cento
degli aventi diritto al voto. Nell’eterno pendolo
tra i due princìpi fondanti degli Stati
Uniti – l’opportunità che premia i più audaci,
l’uguaglianza che protegge i più deboli –
è l’ora di quest’ultimo. Sono in molti a sentirsi
deboli. Obama incarna questa stagione.
La cultura della speranza, tessuto connettivo
che tiene insieme opportunità e uguaglianza
e che si chiama Sogno Americano, ha
ricevuto da mesi di crisi finanziaria colpi pesanti,
e va dunque ricostituita.
Per farlo, l’America dovrà pensare molto
più a se stessa, rischiando di ripiegarsi e di
diventare, al di là della retorica, meno incline
all’azione, più trincerata commercialmente,
forse disposta a non congelare l’epoca
delle grandi aperture dei traffici, ma a patto
di essere stimolata e costruttivamente contrastata
da altri. Quest’America avrà troppo
da fare al proprio interno per dedicarsi davvero
alla scena internazionale, emergenze a
parte. Troppe promesse sono state fatte dai
democratici, e mai tante come nel corso delle
ultime elezioni, dopo quarant’anni di appoggi
dei sindacati, da
tempo protezionisti.
Gli Usa sono molto
deindustrializzati, hanno
nel settore manifatturiero
13 milioni di lavoratori.
Produttivi, ma
pochi: meno di quanti ne
contino insieme Germania
e Italia, che però hanno
la metà della popolazione
americana.
 |
|
Sconfitta l’Urss, ancora fuori gioco la Federazione
Russa, a riprova che un’economia
fondata solo sul petrolio non può reggere
in presenza di una crisi generale, il
mondo non è sempre diventato più americano.
Il senso di onnipotenza yankee è
smarrito. E il Paese va risanato: finanza,
economia, società; ma anche ponti, strade,
ferrovie, energia, reti di comunicazione...
Dunque, si è conclusa una lunga era repubblicana,
inaugurata da Nixon nel 1968, e
impersonata al meglio da Reagan. Il pendolo
americano si è spostato quasi naturalmente sull’altro quadrante. Per questo era
patetico il tentativo di alcuni politici nostrani
di proclamarsi vincitori al traino di
Obama. Del resto, era già privo di senso dibattere
furiosamente su chi – tra Obama e
McCain – potesse essere il miglior Presidente,
se l’innovativo, carismatico, affascinante
erede di Kennedy, oppure il saggio,
riflessivo, eroico discepolo di Bush.Nessun mediocre e nessun marxista diventa
Presidente americano; e anche quando la
spunta un candidato di piccolo cabotaggio,
com’è successo con Jimmy Carter, il secondo
mandato non lo vince. Negli ultimi quattro
decenni gli Usa hanno avuto un solo altro
democratico rieletto, malgrado il noto
scandalo e il tentato impeachement, Bill
Clinton, che è stato un notevole statista,
toccato anche dalla fortuna di un’età dell’oro
dell’economia statunitense.
Ma Clinton è stato, e resta, un uomo di
centro, un moderato, che, anche se gli è
toccato schierarsi dalla sua parte, in realtà
detesta Obama perché sa che è un protezionista
selvaggio, che è contrario alla costruzione
di nuove centrali nucleari, che
non è amato da molti economisti (il Premio
Nobel Edward Prescott non ha accettato
di lavorare per lui, indignato per un
programma che può rendere gli Stati Uniti«simili alla depressa Europa»).
In ultima analisi, quella del 2009-2010 potrà
essere un’iniezione di denaro pubblico superiore,
in proporzione, a quella del “New
Deal” di Roosevelt, che fu molto attivo, ma
sostanzialmente attento alla spesa. Con tutte
le conseguenze per inflazione e dollaro.
Stabilito che l’America venuta fuori dalle
elezioni ha bisogno di una scossa, questa
potrebbe essere positiva sul breve-medio periodo
per i mercati, storicamente cresciuti di
più con i democratici che con i repubblicani;
ma sul lungo periodo occorrerà l’azione di
una classe dirigente capace di far rientrare
nei ranghi la spesa, se si vuole evitare che il
costo ultimo sia estremamente pesante.
E intanto i nuovi tempi si caricano di attese
messianiche, speculari alle speranze e alle
certezze anche visionarie che caratterizzavano
i giorni immediatamente precedenti
la consultazione elettorale, riassunte in
tono scanzonato in una sequela di ipotesi
un po’ semiserie e un altro poco irriverenti:
se vince Obama, la Grande Crisi finirà; se
vince Obama, ci sarà sempre il sole, e comunque
la pioggia cadrà più lieve; se vince
Obama, in Italia avremo il maestro veramente
unico; se vince Obama, Colaninno
comprerà la Lufthansa; se vince Obama, i
banchieri svizzeri pagheranno i mutui dei
cittadini europei; se vince Obama, Sabina
Guzzanti ricomincerà a far ridere, ma solo
in inglese, e Carla Bruni acquisterà una
mansarda accanto alla Casa Bianca, casomai;
se vince Obama, ogni impresa diventerà
possibile, perfino poter prendere un
treno veloce in partenza dal Sud d’Italia;
se vince Obama, i petrolieri faranno la raccolta
differenziata e le mafie diventeranno
confraternite religiose senza fini di lucro;
se vince Obama, la Cina sarà conquistata
dal Tibet e gli africani ridurranno a una
mezza dozzina il numero sterminato delle
loro bellicose tribù; se vince Obama, i
ghiacciai ghiacceranno, il buco nell’ozono
si tapperà da solo e l’effetto-serra svanirà
nello spazio di un mattino, trasformandosi
in un inebriante effetto-primavera...
Ha vinto Obama, e non accadrà nulla di tutto
questo, lo sappiamo bene. Eppure, sarà
come per lo sbarco sulla Luna: le vite degli
uomini saranno rimaste ferme, ma l’umanità
avrà compiuto un passo avanti.
Se poi, diciamo in un tempo ragionevole,
Obama si rivelerà all’altezza della sua faccia
simpatica e delle sue idee coraggiose e perfino
spregiudicate, e sarà costretto dalle
aspettative degli altri a trasformarsi nel primo
statista del secolo, allora avremo vinto
davvero tutti quanti. E il Sogno Americano
diventerà – miracolosamente – un Sogno
Planetario.
|