Dicembre 2008

GRANDE CRISI E BELPAESE

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CRESCITA FERMA.
LUOGHI COMUNI AL ROGO

Renato De Palma

 

 
 

 

 

In tutta Europa, a partire da Bruxelles, si è pensato in prima battuta a come non sprofondare in una recessione da brividi sapendo che alla fine un costo dovrà essere stato pagato.

 

Le ombre di una recessione, aggravata dalla crisi finanziaria, si estenderà a tutto il 2009, e soltanto all’inizio dell’anno successivo si potrebbe aprire un qualche spiraglio di luce. A documentarlo sono i principali centri studi del Paese, da Confindustria a Confcommercio, fino al Ref e all’Isae, che hanno rivisto al ribasso le stime di crescita per il 2008 e il 2009. Sebbene la crisi sia di natura internazionale, quasi tutti concordano nell’affermare che la performance economica dell’Italia sarà peggiore di quella degli altri partner internazionali.
Restano ferme, almeno per il momento, le previsioni del Governo che, nella nota di aggiornamento al Documento di programmazione economica e finanziaria di settembre, ha stimato un Prodotto interno lordo dello 0,1 per cento nel 2008 e dello 0,5 per cento per l’anno seguente. Ultimo, in ordine di tempo, a raggelare le speranze di una rapida uscita dal tunnel, è proprio il documento diffuso dal centro studi di Confindustria, che ha confermato l’analisi delineata dalla presidente degli imprenditori, Emma Marcegaglia: «Il Pil italiano – sostiene lo studio – cala dello 0,2 per cento nel 2008 e dello 0,5 per cento
l’anno prossimo, contro il -0,1 per cento e il +0,4 per cento indicati in precedenza. Il semplice slittamento del rilancio al 2010 basta a spiegare il cambiamento di segno alla variazione del Pil nel 2009, a causa dell’arretramento già registrato dalla scorsa primavera e diventato lievemente più marcato nelle attuali stime».

Dario Carrozzini
Dario Carrozzini


Ad aggravare questo quadro congiunturale, avverte il centro studi, si profila «un vero e proprio credit crunch (cioè la rarefazione del credito, N.d.R.) di cui pure cominciano ad esserci alcuni segnali, sia nell’attività bancaria sia nel prosciugarsi dei canali diretti di finanziamento».
Per le famiglie italiane, tutto questo si tradurrà in una riduzione drastica dei consumi (già in sofferenza da anni) dello 0,6 per cento: un fenomeno preoccupante, secondo Confindustria, in quanto «si realizza nonostante il progresso del reddito reale legato alla decisa decelerazione dei prezzi (dal 3,5 per cento del 2008 al 2,1 per cento previsto per il 2009), all’incremento delle retribuzioni per addetto (+2,7 per cento determinato dai contratti già firmati), e alla tenuta dell’occupazione», la cui crescita sarà pari però a zero, mentre la disoccupazioneè destinata a crescere fino al 7,5 per cento, il dato medio più alto dal 2005. Il quadro internazionale, d’altro canto, non autorizza alcun ottimismo: «Peggiorano infatti anche le prospettive per gli altri maggiori Paesi.
La concentrazione del Pil si osserva sia negli Stati Uniti (-0,7 per cento nel 2009) sia in Eurolandia (-0,2 per cento). In questo scenario, le maggiori forze recessive internazionali
rimangono lo shock delle materie prime, solo in parte rientrato, lo scoppio della bolla immobiliare e l’aggiustamento dell’economia americana, di per sé sufficienti a far contrarre domanda interna e attività produttive nelle principali economie industriali».
Gli effetti sull’economia reale della crisi dei mercati finanziari non sono prevedibili, né si può dire con certezza quanto profondi e lunghi possano essere. Per questo, occorre giocare d’anticipo, per evitare di avere degli effetti moltiplicativi negativi sullo sviluppo di alcune regioni italiane, in modo particolare quelle del Sud. E tuttavia, passando a un discorso generale di filosofia economica, una crisi di sistema come quella che si è abbattuta sui mercati finanziari può rivelarsi utile. Anche – e appunto – a livello culturale. Perché scompaginando prassi e convinzioni consolidate, rendite di posizione anche intellettuali e luoghi comuni, accende una luce diversa e contribuisce a una riflessione un po’ meno“a breve” e autoreferenziale di quella a cui siamo (tutti) abituati.
Storia e realtà sono sempre più complesse di quelle che appaiono a prima vista. Ad esempio, un luogo comune persistente in Italia, e che fornisce di frequente l’occasione per polemiche politiche interne, riguarda la responsabilità ultima della crisi in atto. Mercati selvaggi, destra liberista: ecco il doppio crack facile da servire sul piatto. Ma non si ricorda che la crisi dei mutui sub prime in America, insieme alla deregolamentazione del credito, data 1999, cioè al tempo dell’amministrazione democratica di Bill Clinton, che spingeva affinché gli americani divenissero proprietari di una casa (sogno poi ripreso in grande stile dalla presidenza di George W. Bush). Non fu allora che Fannie Mae e Freddie Mac (agenzie che controllavano il mercato deimutui, poi salvate da Washington) cominciarono il loro rischiosissimo volo?
Sempre gli Stati Uniti d’America, nell’agosto 1989, furono protagonisti di un megasalvataggio pubblico, quello di quasi 800 Casse di risparmio. Però, si fa molta fatica
a rammentarlo. D’altra parte, nel 1987 c’era stato il grande crollo di Wall Street, e anche allora si cominciò a parlare di “fine del capitalismo”. Caso curioso: soltanto qualche giorno prima della caduta rovinosa dei mercati azionari era apparso sugli schermi il film Wall Street, di Oliver Stone (Michael Douglas premio Oscar), che voleva rappresentare l’ascesa e la fine del rampantismo finanziario. Operazione riuscita a metà, visto ciò che è accaduto (nella realtà) in seguito, dallo scandalo Enron al fallimento di Lehman Brothers.
I confini tra Stato e mercato sono molto più mobili di quelli pietrificati, più o meno strumentalmente, dalle polemiche politiche, che in Italia sono eternamente dietro l’angolo. Lo stesso vale per il concetto di“interesse nazionale”, variamente declinato da ciascun partito della Penisola a proprio uso e consumo. Forse che nelle patrie del libero mercato (come, ad esempio, negli Stati Uniti) non si tiene alta la guardia? Oppure, di fronte a una gravissima emergenza, si esita a mettere in campo lo Stato per restituire la fiducia e tappare le falle di una macchina creditizia (privata) che ha mostrato problemi clamorosi?
Londra è parte dell’Unione europea, ma non ha aderito all’euro. Eppure questo non ha impedito al piano del premier Gordon Brown di fare da battistrada al “modello” di riscossa europeo. Un premier fino a poco tempo fa schiacciato, mediaticamente, dall’immagine del predecessore Tony Blair, ma che ha trovato i concetti giusti per un momento storico senza precedenti: senso del lavoro, assunzione responsabile dei rischi, «mercati che lavorano nell’interesse pubblico riflettendo i valori che tutti condividiamo».
E andrà pure sottolineato che Paesi come Francia e Italia (con i loro Presidenti dipinti spesso come poco influenti o, peggio, inconcludenti) hanno svolto nella circostanza un ruolo decisivo. In tutta Europa, a partire dalla “capitale” Bruxelles, si è pensato in prima battuta a come non sprofondare in una recessione da brividi. Non “costi quel che costi”, ma di sicuro sapendo che alla fine un costo dovrà essere stato pagato. Del resto, il Patto di stabilità era anche, formalmente, “di crescita”. Ma pochi lo ricordano.

   
   
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