In tutta Europa,
a partire
da Bruxelles, si
è pensato in prima
battuta a come
non sprofondare
in una recessione
da brividi sapendo
che alla fine un
costo dovrà essere
stato pagato.
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Le ombre di una recessione, aggravata dalla
crisi finanziaria, si estenderà a tutto il
2009, e soltanto all’inizio dell’anno successivo
si potrebbe aprire un qualche spiraglio
di luce. A documentarlo sono i principali
centri studi del Paese, da Confindustria
a Confcommercio, fino al Ref e all’Isae,
che hanno rivisto al ribasso le stime di
crescita per il 2008 e il 2009. Sebbene la
crisi sia di natura internazionale, quasi tutti
concordano nell’affermare che la performance economica dell’Italia sarà peggiore
di quella degli altri partner internazionali.
Restano ferme, almeno per il momento, le
previsioni del Governo che, nella nota di
aggiornamento al Documento di programmazione
economica e finanziaria di settembre,
ha stimato un Prodotto interno
lordo dello 0,1 per cento nel 2008 e dello
0,5 per cento per l’anno seguente.
Ultimo, in ordine di tempo, a raggelare le
speranze di una rapida uscita dal tunnel, è
proprio il documento diffuso dal centro
studi di Confindustria, che ha confermato
l’analisi delineata dalla presidente degli
imprenditori, Emma Marcegaglia: «Il Pil
italiano – sostiene lo studio – cala dello 0,2
per cento nel 2008 e dello 0,5 per cento
l’anno prossimo, contro il -0,1 per cento e
il +0,4 per cento indicati in precedenza.
Il semplice slittamento del rilancio al 2010
basta a spiegare il cambiamento di segno
alla variazione del Pil nel 2009, a causa dell’arretramento già registrato dalla scorsa
primavera e diventato lievemente più
marcato nelle attuali stime».
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Dario Carrozzini |
Ad aggravare questo quadro congiunturale,
avverte il centro studi, si profila «un vero
e proprio credit crunch (cioè la rarefazione
del credito, N.d.R.) di cui pure cominciano
ad esserci alcuni segnali, sia nell’attività
bancaria sia nel prosciugarsi dei
canali diretti di finanziamento».
Per le famiglie italiane, tutto questo si tradurrà
in una riduzione drastica dei consumi
(già in sofferenza da anni) dello 0,6 per
cento: un fenomeno preoccupante, secondo
Confindustria, in quanto «si realizza
nonostante il progresso del reddito reale
legato alla decisa decelerazione dei prezzi
(dal 3,5 per cento del 2008 al 2,1 per cento
previsto per il 2009), all’incremento delle
retribuzioni per addetto (+2,7 per cento
determinato dai contratti già firmati), e alla
tenuta dell’occupazione», la cui crescita
sarà pari però a zero, mentre la disoccupazioneè destinata a crescere fino al 7,5 per
cento, il dato medio più alto dal 2005.
Il quadro internazionale, d’altro canto,
non autorizza alcun ottimismo: «Peggiorano
infatti anche le prospettive per gli altri
maggiori Paesi.
La concentrazione del Pil si osserva sia negli
Stati Uniti (-0,7 per cento nel 2009) sia
in Eurolandia (-0,2 per cento). In questo
scenario, le maggiori forze recessive internazionali
rimangono lo shock delle materie
prime, solo in parte rientrato, lo scoppio
della bolla immobiliare e l’aggiustamento
dell’economia americana, di per sé
sufficienti a far contrarre domanda interna
e attività produttive nelle principali economie
industriali».
Gli effetti sull’economia reale della crisi
dei mercati finanziari non sono prevedibili,
né si può dire con certezza quanto profondi
e lunghi possano essere. Per questo, occorre
giocare d’anticipo, per evitare di avere
degli effetti moltiplicativi negativi sullo
sviluppo di alcune regioni italiane, in modo
particolare quelle del Sud.
E tuttavia, passando a un discorso generale
di filosofia economica, una crisi di sistema
come quella che si è abbattuta sui mercati
finanziari può rivelarsi utile. Anche – e
appunto – a livello culturale. Perché scompaginando
prassi e convinzioni consolidate,
rendite di posizione anche intellettuali e
luoghi comuni, accende una luce diversa e
contribuisce a una riflessione un po’ meno“a breve” e autoreferenziale di quella a cui
siamo (tutti) abituati.
Storia e realtà sono sempre più complesse
di quelle che appaiono a prima vista. Ad
esempio, un luogo comune persistente in
Italia, e che fornisce di frequente l’occasione
per polemiche politiche interne, riguarda
la responsabilità ultima della crisi in atto.
Mercati selvaggi, destra liberista: ecco
il doppio crack facile da servire sul piatto.
Ma non si ricorda che la crisi dei mutui sub prime in America, insieme alla deregolamentazione
del credito, data 1999, cioè al
tempo dell’amministrazione democratica
di Bill Clinton, che spingeva affinché gli
americani divenissero proprietari di una
casa (sogno poi ripreso in grande stile dalla
presidenza di George W. Bush). Non fu
allora che Fannie Mae e Freddie Mac
(agenzie che controllavano il mercato deimutui, poi salvate da Washington) cominciarono
il loro rischiosissimo volo?
Sempre gli Stati Uniti d’America, nell’agosto
1989, furono protagonisti di un megasalvataggio
pubblico, quello di quasi 800
Casse di risparmio. Però, si fa molta fatica
a rammentarlo. D’altra parte, nel 1987 c’era
stato il grande crollo di Wall Street, e
anche allora si cominciò a parlare di “fine
del capitalismo”. Caso curioso: soltanto
qualche giorno prima della caduta rovinosa
dei mercati azionari era apparso sugli
schermi il film Wall Street, di Oliver Stone
(Michael Douglas premio Oscar), che voleva
rappresentare l’ascesa e la fine del rampantismo
finanziario. Operazione riuscita
a metà, visto ciò che è accaduto (nella
realtà) in seguito, dallo scandalo Enron al
fallimento di Lehman Brothers.
I confini tra Stato e mercato sono molto
più mobili di quelli pietrificati, più o meno
strumentalmente, dalle polemiche politiche,
che in Italia sono eternamente dietro
l’angolo. Lo stesso vale per il concetto di“interesse nazionale”, variamente declinato
da ciascun partito della Penisola a proprio
uso e consumo. Forse che nelle patrie
del libero mercato (come, ad esempio, negli
Stati Uniti) non si tiene alta la guardia?
Oppure, di fronte a una gravissima emergenza,
si esita a mettere in campo lo Stato
per restituire la fiducia e tappare le falle di
una macchina creditizia (privata) che ha
mostrato problemi clamorosi?
Londra è parte dell’Unione europea, ma
non ha aderito all’euro. Eppure questo
non ha impedito al piano del premier Gordon
Brown di fare da battistrada al “modello”
di riscossa europeo. Un premier fino
a poco tempo fa schiacciato, mediaticamente,
dall’immagine del predecessore
Tony Blair, ma che ha trovato i concetti
giusti per un momento storico senza precedenti:
senso del lavoro, assunzione responsabile
dei rischi, «mercati che lavorano
nell’interesse pubblico riflettendo i valori
che tutti condividiamo».
E andrà pure sottolineato che Paesi come
Francia e Italia (con i loro Presidenti dipinti
spesso come poco influenti o, peggio,
inconcludenti) hanno svolto nella circostanza
un ruolo decisivo. In tutta Europa,
a partire dalla “capitale” Bruxelles, si è
pensato in prima battuta a come non
sprofondare in una recessione da brividi.
Non “costi quel che costi”, ma di sicuro
sapendo che alla fine un costo dovrà essere
stato pagato. Del resto, il Patto di stabilità
era anche, formalmente, “di crescita”. Ma
pochi lo ricordano.

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