Dicembre 2008

CRESCE IL DIVARIO NORD-SUD

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L’ULTIMA DERIVA

Italo Bonelli
Renato Marino

 

 
 

 

 

La storia si ripete. Il Mezzogiorno, ancora una volta, perde una delle principali risorse interne, mentre le regioni ricche del Paese rapinano il miglior capitale umano del Sud.

 

È stato rilevato che è dal 2003 che il Mezzogiorno cresce meno del Centro-Nord, e che,
di conseguenza, il divario fra le due macroaree si va allargando; che il differenziale di crescita del Prodotto interno lordo è stato lieve nel 2003 e nel 2005, ma ampio nel 2004 e nel 2006; e che il 2007 ha confermato il trend. Il Rapporto Svimez che esamina la situazione evidenzia una crescita – nel Sud – del settore turistico salentino, mentre restano stabili tra i grandi poli le aree di Taormina e della Sardegna. Ma analizziamo i dati fondamentali del Rapporto 2007. Le regioni meridionali, considerate nel loro insieme, perdono senza ombra di dubbio il confronto con le aree sempre meno arretrate della Spagna e dell’ex Germania Orientale. Madrid, già in presenza di un elevato tasso di crescita nazionale, ha sviluppato ancora di più le aree comprese nell’Obiettivo Uno, nelle quali sono aumentate a velocità crescente sia l’occupazione sia – anche se con un ritmo meno accelerato – la competitività. In Germania, malgrado la fase moderata di espansione, i Laender orientali hanno registrato un incremento della produttività superiore alla media europea.
Nel nostro Mezzogiorno, invece, non si è verificato nulla di tutto questo. Anzi, le famiglie
povere sono ormai più di una ogni quattro, con punte preoccupanti in alcune regioni, tra le quali la Campania, dove superano il 23 per cento. E i cartelli del crimine la fanno ancora da padrone, con territori, come quelli di Napoli e di Caserta, ma anche di varie altre province della Calabria, della Sicilia e della Puglia, dove i reati gravi, dalle rapine agli omicidi, restano su cifre drammaticamente alte. Ciò vale in particolare per la Campania, sebbene questa regione abbia fatto registrare una crescita del Prodotto interno lordo dell’1,4 per cento, e sebbene nel quinquennio 2001-2006 abbia conseguito la performance più elevata del Mezzogiorno in termini di ricchezza prodotta, insieme con la Sardegna.
La radiografia del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo presentata dal Rapporto 2007 è tanto impietosa quanto preoccupante. Il territorio meridionale sta per fare i conti con le nuove scelte, che potrebbero penalizzarlo non soltanto per la crisi internazionale che coinvolge anche l’economia italiana, ma anche per la presenza nella coalizione di governo, e dunque nelle stanze dei bottoni, della Lega, che è favorevole a un federalismo fiscale che, se non sarà concretamente solidale, come promesso, finirà col danneggiare soprattutto le regioni meridionali. Le quali già oggi risultato caratterizzate da una crescita infinitesimale nel biennio 2006-2007, da una fiducia dei consumatori in netto calo, da un mercato del lavoro ancora debole e incapace di assorbire la forte domanda di occupazione. A sostenere l’economia meridionale resta un buon andamento dell’export, che però ha un peso quantitativamente limitato se confrontato con l’interscambio commerciale del resto del Paese.
A somme tirate, dunque, più ombre che luci. L’economia cresce troppo lentamente anche perché ancora oggi è soltanto l’edilizia a tirare, e il tasso di occupazione complessivo è inchiodato a un modesto 46,5 per cento, di quasi venti punti inferiore rispetto a quello del Centro-Nord. Per non parlare del tasso di occupazione femminile, fermo a meno del 31 per cento. Eppure, se non fosse per l’industria, in particolare quella delle costruzioni, il trend sarebbe ancora più negativo, dal momento che l’agricoltura e i servizi continuano a perdere posti di lavoro.

Rosa Pugliese
Rosa Pugliese


Non solo. Nel 2007 al Sud è aumentata la quota dell’occupazione a termine, che ha toccato il 17,6 per cento, contro l’11,6 per cento del Centro-Nord. A livello regionale, il tasso di disoccupazione più elevato si registra in Sicilia, attorno al 12 per cento; l’isola è seguita dalla Calabria, dalla Campania e dalla Puglia, che registrano percentuali superiori al 10 per cento.
E il Mezzogiorno vanta anche il triste primato del lavoro irregolare, in quanto, in base alle ultime stime, è attestato intorno al 20 per cento, contro il 9 per cento delle regioni del Centro-Nord. Eppure, proprio la Campania e la Calabria sono, insieme con il Lazio, le aree regionali nelle quali c’è il più elevato tasso di creazione, ma anche di cessazione delle imprese, un indice, comunque, di forte effervescenza e vitalità del tessuto produttivo.
Il Mezzogiorno sconta un fortissimo ritardo sul terreno dell’istruzione: la scuola, in particolare, riceve un contributo dagli enti locali di gran lunga inferiore rispetto alle altre regioni, e ciò ha spesso un impatto molto negativo sulla qualità dei servizi, sui trasporti, sulle mense, perfino sulla manutenzione delle strutture. Il discorso diventa ancora più preoccupante se si sposta sull’università. Tra le numerose statistiche al riguardo, ne citiamo una, realmente drammatica: non c’è una sola università meridionale tra le prime trecento università del mondo. Neanche una! I risultati delle indagini sulla preparazione degli studenti meridionali, secondo tutti i parametri, (al di là di alcune eccellenze individuali, che però emigrano al Nord o all’estero alla prima occasione), sono bassissimi e tirano giù tutta l’Italia. I motivi di fondo? Basta dare un’occhiata anche superficiale allo stato in cui si trovano le infrastrutture scolastiche.
Ma la cosa che più preoccupa forse è un’altra. Qualche anno fa c’era una maggiore voglia di riscatto del Mezzogiorno: quella spinta morale, quel desiderio di venir fuori dall’antico ritardo e di trasferire terre e uomini su un gradino più alto, oggi sembrano affievoliti.
Questa rinuncia a cambiare che si è impossessata di una parte delle coscienze di siciliani,
di calabresi, di campani, di sardi, è avvilente. In Puglia e in Basilicata per fortuna ci sono forze ancora vive, che per quel che possono tentano di spingere nella direzione di un cambiamento. Ma ci sono zone nelle quali la rinuncia ad una mutazione positiva è sotto gli occhi di tutti.
Questa deriva è perfino più spaventosa del fatto che la famosa forbice della disuguaglianza
con le regioni del Nord si sia allargata su tutti i dati, dalla produttività alla ricchezza pro-capite. E va sottolineato un altro aspetto inquietante: nel Settentrione c’è ormai una diffidenza non più dissimulata, non più in qualche modo edulcorata con giri di parole, che riguarda la capacità del Sud di riscattarsi. Ed è una diffidenza che investe fasce di persone anche non leghiste, ma ceti unitari e antileghisti e gruppi che votano a sinistra.

Si preparano
i “cullurielli”,in Calabria. Il fritto coperto di zucchero, tipico dolce natalizio, ha un corrispondente nella “cuddhura” siciliana e salentina e rimanda alla “kolloura” (corona) greca. - Rosa Pugliese
Si preparano i “cullurielli”,in Calabria. Il fritto coperto di zucchero, tipico dolce natalizio, ha un corrispondente nella “cuddhura” siciliana e salentina e rimanda alla “kolloura” (corona) greca. - Rosa Pugliese


Questo dovrebbe far riflettere i meridionali, i politici, gli amministratori, gli uomini di cultura meridionali. Anche perché allo stato delle cose, come qualcuno ha scritto, ormai il cuore e il cervello di chi ci governa sono al Nord.
Il Rapporto segna un punto di discontinuità decisivo rispetto al passato anche recente, perché si conclude la fase di impostazione della programmazione della politica regionale, sia europea sia nazionale, per i prossimi otto anni, e si avvia la fase attuativa, potendo contare su ben 100 miliardi di euro destinati alle regioni meridionali, frutto della scelta di unificare la programmazione comunitaria con quella del Fondo nazionale aree sottosviluppate.
Il fatto più innovativo è costituito dall’aver fissato alcuni obiettivi per le regioni del Sud, in tema di gestione dei rifiuti, di qualità del servizio idrico, di servizi per l’infanzia e per gli anziani, di istruzione, legando al loro raggiungimento la possibilità di ottenere gli stanziamenti premiali.
E discontinuità segna anche un’altra indagine, quella dell’Istat, che illustra le cifre della popolazione italiana al dicembre 2006. L’Istituto di statistica ha rilevato che un milione e mezzo di residenti nel Sud si sono trasferiti nel Centro-Nord. Ammontano a circa 150 mila i pugliesi che hanno abbandonato la terra natale. Perché discontinuità? Perché, pur non essendo un fatto nuovo, ma una tendenza in atto da una decina di anni, l’emigrazione è l’occhio di spia del malessere della società meridionale. Un malessere che si riteneva controllabile e forse anche guaribile, dal momento che, dopo le bibliche ondate migratorie di fine Ottocento e del secondo dopoguerra, il Sud era diventato terra di immigrazione. Poi, il mancato sviluppo ha indotto, dapprima sporadicamente, e ora diremmo sistematicamente, le nuove generazioni a riprendere le vie del Nord. E il Settentrione, che ha una dinamica demografica estremamente lenta, approfitta delle forze giovani del Sud in cerca di occupazione; tanto più che non si tratta più di spostamenti di masse di analfabeti o di semi-analfabeti generici, ma di elementi anche di primissimo ordine, intellettualmente
maturi, in gran parte laureati, espulsi dalla mancanza di lavoro, dunque esuli volontari (ma obtorto collo) dello stato di necessità. Il Mezzogiorno, ancora una volta, perde una delle principali risorse interne, mentre le regioni ricche del Paese letteralmente rapinano il miglior capitale umano del Sud.
La storia si ripete. Ma, questa volta, senza che il problema sia posto sul tappeto per un attacco radicale, risolutore, all’arretratezza. Salvo qualche voce, che sembra gridare nel deserto, di tutto questo, e di quant’altro c’è da discutere per cancellare una volta e per sempre l’odiosa questione meridionale non si parla più.
Anzi, come per un tragico contrappasso, si è ripreso il discorso sull’esistenza di una questione settentrionale, di una “pentola nel Nord” che da tempo borbotta, perché c’era, e c’è, un risentimento crescente, frutto non più soltanto dell’asimmetria dispotica imposta dallo Stato nel rapporto con i cittadini, ma ora anche dalla percezione di trovarsi al centro di uno sconvolgimento globale del quale sfuggono prospettive e implicazioni, ma del quale incombono rischi e costi.
Se così è, e se è vero – com’è vero – che il Sud viene sempre più lasciato alla sua deriva mediterranea, allora è deviante sostenere che la riflessione dovrebbe vertere sul clima alimentato in questi ultimi anni, che avrebbe contribuito a consolidare la convinzione che tutta la politica sia dannosa, che tutti i politici siano ladri, che tutte le istituzioni siano inutili, che tutte le spese per tenere insieme un Paese siano uno spreco.
I problemi sono anche questi, ma non solo questi. Siamo convinti che la politica italiana deve sicuramente e rapidamente riconquistare una legittimazione etica; che è cosa diversa dall’alimentare un sentimento di antipolitica: la moralità, in politica, si difende tagliando lo statalismo, tenendo a bada la voracità delle lobby, non alimentando il qualunquismo, cancellando consapevolmente le difficoltà a capirsi tra aree diverse del Paese, eliminando lo iato tra la condizione quotidiana dei cittadini (dei cittadini di tutte le latitudini italiane) e gli scintillanti traguardi economico-sociali, civili, prospettati ma mai realmente attinti.
Senza lasciarsi prendere da vaghe apparenze e da stolti pregiudizi. Ci sarà anche una questione settentrionale, e non saremo certo noi a considerarla una non-questione; ma prioritariaè quella del Sud, senza la cui soluzione l’intera Italia sarà sempre in seconda linea nelle classifiche dei Paesi sviluppati.
Giuseppe Galasso, che segue i problemi del Sud con grande sensibilità, ha scritto (dissentendo da Egidio Sterpa, il quale aveva lamentato l’assenza di un «vigoroso e razionale meridionalismo») che mai, come oggi, si è studiato il Mezzogiorno, con voci autorevoli, con alcuni giornali che al Sud dedicano supplementi quotidiani, con altri giornali che alle regioni meridionali prestano attenzione costante con servizi e commenti,
e via di seguito. Poi sottolinea: «È vero che molti sono coloro che esplicitamente negano
realtà e consistenza alla questione nel presente, e molti addirittura anche nel passato.È vero che sono stati e sono numerosi, e spesso (ahimè !) fin troppo dannosi, gli equivoci circa la domanda se “abolire il Mezzogiorno”, o circa il “meridiano” sostituito al “meridionale” o identificato con esso, o circa la supposta opportunità di considerare un “Mezzogiorno senza meridionalismo”, o circa le benefiche virtù dello scrivere “Mezzo Giorno” invece che Mezzogiorno, o circa la grande idea di studiare il Mezzogiorno al di fuori di ogni confronto con altre parti del mondo o come un qualsiasi altro pezzo di mondo o come Terzo Mondo europeo, e così via. Se ne sono viste e sentite, effettivamente, di tutti i colori, fino all’ennesima proclamazione della fine della “questione”, perché la sua strada il Mezzogiorno l’ha trovata o perché esso non sta affatto
male quanto si dice...».
E così, forse involontariamente, ma forse no, Galasso ha elencato una buona parte delle tribolazioni e dei pregiudizi che hanno martirizzato, non soltanto spiritualmente, il Sud. Tuttavia, ci tiene a precisare, non è questo il problema: «Non è neppure una questione di idee: sul Mezzogiorno l’unica cosa che abbondi sono proprio le idee. Né è questione di “un nuovo racconto” del Mezzogiorno che ne metta in luce elementi di diversità rispetto alla sua condizione media e di positività: elementi che vi sono stati sempre e non hanno mai annullato la questione».
Il problema, dunque, «è politico», e la politica rilutta a dire e a fare qualcosa di veramente meridionalistico: «Ma è chiaro che, se la politica vi crede poco, ve ne sarà una qualche ragione (...). Se il Mezzogiorno appare oggi così in secondo piano nella vita del Paese, (...) la prima responsabilità è qui, tra noi, nel Mezzogiorno stesso. E non illudiamoci molto neppure perché si è ben sperimentato che il Mezzogiorno riduce e appesantisce il ritmo di crescita dell’intero Paese. Il monito di Giustino Fortunato (l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà) si è rivelato, alla fine, attendibile solo a metà. Dopo 150 anni di unità nazionale il Mezzogiorno sta come sta e l’Italia, bene o male, è andata avanti ed è cresciuta, anche se oggi affanna. Ricordiamo anche questo». Certamente, l’Italia è andata avanti: di quanto, è questione di relativi punti di vista. Perché bisogna chiedersi anche che cosa il Paese sarebbe potuto diventare, se avesse sviluppato per tempo e con equilibrio le sue aree arretrate; quale eventuale maggiore ruolo avrebbe potuto assumere in Europa
(e nel mondo), se il Sud non fosse rimasto in buona parte un mercato (importante quanto si voglia, ma pur sempre un mercato tutt’altro che autosufficiente) dell’Italia avanzata; e cosa sarebbe stato del Sud se, invece di avvitarsi in studi e in analisi e in indagini conoscitive, senz’altro utili, ma rimaste quasi del tutto alte e sterilizzate negli scaffali impolverati delle istituzioni italiche,si fosse proceduto alla graduale soluzione delle problematiche economiche e civili, anche sulla scorta delle esperienze non sempre e non del tutto negative del mezzo secolo di intervento dello Stato centralizzato. Vogliamo dirla tutta, allora? Non hanno funzionato proprio le istituzioni e tutti gli apparati dello Stato. L’arretratezza del Mezzogiorno è servita ai politici per acquisire consenso.
L’azione della giustizia nelle aree dei cartelli mafiosi è stata intermittente, e accanto all’opera di menti illuminate e di sacerdoti del diritto votati anche alla morte, ha registrato silenzi, collusioni, complicità che hanno perpetuato la vita delle piovre e la sudditanza di vasti ceti sociali alle strategie criminogene.

Le foto di questo contributo
sono state “catturate” a Pietrapaola (Cosenza). - Rosa Pugliese
Le foto di questo contributo sono state “catturate” a Pietrapaola (Cosenza). - Rosa Pugliese


Gli interventi straordinari nelle “aree depresse” sono serviti al Sud per arricchire illecitamente amministratori e mafiosi, e al Nord per ristrutturarsi e ammodernare le proprie aziende, trasferendo oltre la Linea Gotica i loro impianti obsoleti.
Le Partecipazioni Statali portarono al Sud industrie ingombranti, assistite, devastanti per il territorio, e in ultima analisi destinate alla chiusura o al crollo dell’occupazione. Dunque, è giusto chiamare in causa il Mezzogiorno, col cumulo dei flagelli biblici che continuano ad insidiarlo e, in certi casi, a ricacciarlo indietro nella Storia. Ma è altrettanto giusto affermare che se il Sud non riesce a venir fuori da se stesso, è perché alla debolezza endogena si sono sommate altre cause, esterne ma contigue e corresponsabili.
Non a caso anche Raffaele La Capria si è interrogato su che cosa abbia impedito lo sviluppo delle terre meridionali, riassunte emblematicamente in quella che fu la loro splendida capitale, Napoli, ma altrettanto emblematicamente allargate all’intera Penisola.
E si è chiesto e ha chiesto a tutti, lo scrittore: «Non si deve chiamare in causa anche per
l’Italia la società civile e la classe politica e i comportamenti che la contraddistinguono?
Non è vero anche per l’Italia che non sa uscire da sé e dai propri vizi, dalle proprie abitudini e dai propri “misteri”? Non è vero anche per l’Italia che ogni cosa che tenta finisce a mezza strada? Cos’è, se non questa incapacità, l’anomalia italiana? ».
Insomma, Galasso fa bene a rimproverare al Mezzogiorno l’incapacità di trovare al suo interno gli anticorpi che lo aiutino a superare la drammatica linea d’ombra che separa la sua arretratezza dal suo sviluppo. Ma anche l’irrisolvibilità del problema italiano dovrebbe
in qualche modo aiutarci a capire l’irrisolvibilità del problema del Sud. Forse Giustino Fortunato non aveva del tutto torto quando scriveva quel pensiero che, a rifletterci bene, ancora oggi ci pare più rivoluzionario di tutti gli studi e le indagini, analisi, ricerche, e quant’altro continuano a sfornare (con quale conseguente utilità pratica?) tutte le sedi deputate.
Non diciamo questo per amor di polemica, né per creare alibi o per predisporre via di fuga a un moderno dibattito meridionalista, ma quanto meno per immaginare strumenti nuovi, efficaci e decisivi di rinascita per una società permanentemente disastrata. Almeno questo.

   
   
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