La storia si ripete.
Il Mezzogiorno,
ancora una volta,
perde una delle
principali risorse
interne, mentre
le regioni ricche
del Paese rapinano
il miglior capitale
umano del Sud.
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È stato rilevato che è dal 2003 che il Mezzogiorno
cresce meno del Centro-Nord, e che,
di conseguenza, il divario fra le due macroaree
si va allargando; che il differenziale di
crescita del Prodotto interno lordo è stato
lieve nel 2003 e nel 2005, ma ampio nel 2004
e nel 2006; e che il 2007 ha confermato il
trend. Il Rapporto Svimez che esamina la
situazione evidenzia una crescita – nel Sud – del settore turistico salentino, mentre restano
stabili tra i grandi poli le aree di
Taormina e della Sardegna. Ma analizziamo
i dati fondamentali del Rapporto 2007.
Le regioni meridionali, considerate nel loro
insieme, perdono senza ombra di dubbio il
confronto con le aree sempre meno arretrate
della Spagna e dell’ex Germania Orientale.
Madrid, già in presenza di un elevato
tasso di crescita nazionale, ha sviluppato
ancora di più le aree comprese nell’Obiettivo
Uno, nelle quali sono aumentate a velocità
crescente sia l’occupazione sia – anche
se con un ritmo meno accelerato – la competitività.
In Germania, malgrado la fase
moderata di espansione, i Laender orientali
hanno registrato un incremento della produttività
superiore alla media europea.
Nel nostro Mezzogiorno, invece, non si è
verificato nulla di tutto questo. Anzi, le famiglie
povere sono ormai più di una ogni
quattro, con punte preoccupanti in alcune
regioni, tra le quali la Campania, dove superano
il 23 per cento. E i cartelli del crimine
la fanno ancora da padrone, con territori,
come quelli di Napoli e di Caserta, ma
anche di varie altre province della Calabria,
della Sicilia e della Puglia, dove i reati gravi,
dalle rapine agli omicidi, restano su cifre
drammaticamente alte. Ciò vale in particolare
per la Campania, sebbene questa regione
abbia fatto registrare una crescita del
Prodotto interno lordo dell’1,4 per cento, e
sebbene nel quinquennio 2001-2006 abbia
conseguito la performance più elevata del
Mezzogiorno in termini di ricchezza prodotta,
insieme con la Sardegna.
La radiografia del Dipartimento per le Politiche
di Sviluppo presentata dal Rapporto 2007 è tanto impietosa quanto preoccupante.
Il territorio meridionale sta per fare i
conti con le nuove scelte, che potrebbero
penalizzarlo non soltanto per la crisi internazionale
che coinvolge anche l’economia
italiana, ma anche per la presenza nella
coalizione di governo, e dunque nelle stanze
dei bottoni, della Lega, che è favorevole a
un federalismo fiscale che, se non sarà concretamente
solidale, come promesso, finirà
col danneggiare soprattutto le regioni meridionali.
Le quali già oggi risultato caratterizzate
da una crescita infinitesimale nel
biennio 2006-2007, da una fiducia dei consumatori
in netto calo, da un mercato del
lavoro ancora debole e incapace di assorbire
la forte domanda di occupazione.
A sostenere l’economia meridionale resta
un buon andamento dell’export, che però
ha un peso quantitativamente limitato se confrontato con l’interscambio commerciale
del resto del Paese.
A somme tirate, dunque, più ombre che luci.
L’economia cresce troppo lentamente
anche perché ancora oggi è soltanto l’edilizia
a tirare, e il tasso di occupazione complessivo è inchiodato a un modesto 46,5
per cento, di quasi venti punti inferiore rispetto
a quello del Centro-Nord. Per non
parlare del tasso di occupazione femminile,
fermo a meno del 31 per cento. Eppure,
se non fosse per l’industria, in particolare
quella delle costruzioni, il trend sarebbe
ancora più negativo, dal momento che l’agricoltura
e i servizi continuano a perdere
posti di lavoro.
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Rosa Pugliese |
Non solo. Nel 2007 al Sud è aumentata la
quota dell’occupazione a termine, che ha
toccato il 17,6 per cento, contro l’11,6 per
cento del Centro-Nord. A livello regionale,
il tasso di disoccupazione più elevato si registra
in Sicilia, attorno al 12 per cento; l’isola è seguita dalla Calabria, dalla Campania
e dalla Puglia, che registrano percentuali
superiori al 10 per cento.
E il Mezzogiorno vanta anche il triste primato
del lavoro irregolare, in quanto, in
base alle ultime stime, è attestato intorno al
20 per cento, contro il 9 per cento delle regioni
del Centro-Nord. Eppure, proprio la
Campania e la Calabria sono, insieme con il
Lazio, le aree regionali nelle quali c’è il più
elevato tasso di creazione, ma anche di cessazione
delle imprese, un indice, comunque,
di forte effervescenza e vitalità del tessuto
produttivo.
Il Mezzogiorno sconta un fortissimo ritardo
sul terreno dell’istruzione: la scuola, in particolare,
riceve un contributo dagli enti locali
di gran lunga inferiore rispetto alle altre
regioni, e ciò ha spesso un impatto molto
negativo sulla qualità dei servizi, sui trasporti,
sulle mense, perfino sulla manutenzione
delle strutture. Il discorso diventa ancora
più preoccupante se si sposta sull’università.
Tra le numerose statistiche al riguardo,
ne citiamo una, realmente drammatica:
non c’è una sola università meridionale
tra le prime trecento università del
mondo. Neanche una! I risultati delle indagini
sulla preparazione degli studenti meridionali,
secondo tutti i parametri, (al di là
di alcune eccellenze individuali, che però
emigrano al Nord o all’estero alla prima occasione),
sono bassissimi e tirano giù tutta
l’Italia. I motivi di fondo? Basta dare un’occhiata
anche superficiale allo stato in cui si
trovano le infrastrutture scolastiche.
Ma la cosa che più preoccupa forse è un’altra.
Qualche anno fa c’era una maggiore
voglia di riscatto del Mezzogiorno: quella
spinta morale, quel desiderio di venir fuori
dall’antico ritardo e di trasferire terre e uomini
su un gradino più alto, oggi sembrano
affievoliti.
Questa rinuncia a cambiare che si è impossessata
di una parte delle coscienze di siciliani,
di calabresi, di campani, di sardi, è avvilente.
In Puglia e in Basilicata per fortuna
ci sono forze ancora vive, che per quel che
possono tentano di spingere nella direzione
di un cambiamento. Ma ci sono zone nelle
quali la rinuncia ad una mutazione positiva è sotto gli occhi di tutti.
Questa deriva è perfino più spaventosa del
fatto che la famosa forbice della disuguaglianza
con le regioni del Nord si sia allargata
su tutti i dati, dalla produttività alla
ricchezza pro-capite. E va sottolineato un
altro aspetto inquietante: nel Settentrione
c’è ormai una diffidenza non più dissimulata,
non più in qualche modo edulcorata con
giri di parole, che riguarda la capacità del
Sud di riscattarsi. Ed è una diffidenza che
investe fasce di persone anche non leghiste,
ma ceti unitari e antileghisti e gruppi che
votano a sinistra.
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Si preparano
i “cullurielli”,in Calabria. Il fritto coperto di zucchero, tipico dolce natalizio, ha un corrispondente nella “cuddhura” siciliana e salentina e rimanda alla “kolloura” (corona) greca. - Rosa Pugliese |
Questo dovrebbe far riflettere i meridionali,
i politici, gli amministratori, gli uomini di
cultura meridionali. Anche perché allo stato
delle cose, come qualcuno ha scritto, ormai
il cuore e il cervello di chi ci governa sono
al Nord.
Il Rapporto segna un punto di discontinuità
decisivo rispetto al passato anche recente,
perché si conclude la fase di impostazione
della programmazione della politica regionale,
sia europea sia nazionale, per i prossimi
otto anni, e si avvia la fase attuativa, potendo
contare su ben 100 miliardi di euro destinati alle regioni meridionali, frutto della
scelta di unificare la programmazione comunitaria
con quella del Fondo nazionale
aree sottosviluppate.
Il fatto più innovativo è costituito dall’aver
fissato alcuni obiettivi per le regioni del
Sud, in tema di gestione dei rifiuti, di qualità
del servizio idrico, di servizi per l’infanzia
e per gli anziani, di istruzione, legando
al loro raggiungimento la possibilità di ottenere
gli stanziamenti premiali.
E discontinuità segna anche un’altra indagine,
quella dell’Istat, che illustra le cifre della
popolazione italiana al dicembre 2006. L’Istituto
di statistica ha rilevato che un milione
e mezzo di residenti nel Sud si sono trasferiti
nel Centro-Nord. Ammontano a circa
150 mila i pugliesi che hanno abbandonato
la terra natale. Perché discontinuità?
Perché, pur non essendo un fatto nuovo,
ma una tendenza in atto da una decina di
anni, l’emigrazione è l’occhio di spia del
malessere della società meridionale. Un malessere
che si riteneva controllabile e forse
anche guaribile, dal momento che, dopo le
bibliche ondate migratorie di fine Ottocento
e del secondo dopoguerra, il Sud era diventato
terra di immigrazione. Poi, il mancato
sviluppo ha indotto, dapprima sporadicamente,
e ora diremmo sistematicamente, le
nuove generazioni a riprendere le vie del
Nord. E il Settentrione, che ha una dinamica
demografica estremamente lenta, approfitta
delle forze giovani del Sud in cerca di
occupazione; tanto più che non si tratta più
di spostamenti di masse di analfabeti o di
semi-analfabeti generici, ma di elementi anche
di primissimo ordine, intellettualmente
maturi, in gran parte laureati, espulsi dalla
mancanza di lavoro, dunque esuli volontari
(ma obtorto collo) dello stato di necessità. Il
Mezzogiorno, ancora una volta, perde una
delle principali risorse interne, mentre le regioni
ricche del Paese letteralmente rapinano
il miglior capitale umano del Sud.
La storia si ripete. Ma, questa volta, senza
che il problema sia posto sul tappeto per un
attacco radicale, risolutore, all’arretratezza.
Salvo qualche voce, che sembra gridare nel
deserto, di tutto questo, e di quant’altro c’è
da discutere per cancellare una volta e per
sempre l’odiosa questione meridionale non
si parla più.
Anzi, come per un tragico contrappasso, si è ripreso il discorso sull’esistenza di una
questione settentrionale, di una “pentola
nel Nord” che da tempo borbotta, perché
c’era, e c’è, un risentimento crescente, frutto
non più soltanto dell’asimmetria dispotica
imposta dallo Stato nel rapporto con i cittadini,
ma ora anche dalla percezione di trovarsi
al centro di uno sconvolgimento globale
del quale sfuggono prospettive e implicazioni,
ma del quale incombono rischi e
costi.
Se così è, e se è vero – com’è vero – che il
Sud viene sempre più lasciato alla sua deriva
mediterranea, allora è deviante sostenere
che la riflessione dovrebbe vertere sul clima
alimentato in questi ultimi anni, che avrebbe
contribuito a consolidare la convinzione
che tutta la politica sia dannosa, che tutti i
politici siano ladri, che tutte le istituzioni
siano inutili, che tutte le spese per tenere insieme
un Paese siano uno spreco.
I problemi sono anche questi, ma non solo
questi. Siamo convinti che la politica italiana deve sicuramente e rapidamente riconquistare una legittimazione etica; che è cosa
diversa dall’alimentare un sentimento di antipolitica:
la moralità, in politica, si difende
tagliando lo statalismo, tenendo a bada la
voracità delle lobby, non alimentando il
qualunquismo, cancellando consapevolmente
le difficoltà a capirsi tra aree diverse
del Paese, eliminando lo iato tra la condizione
quotidiana dei cittadini (dei cittadini
di tutte le latitudini italiane) e gli scintillanti
traguardi economico-sociali, civili, prospettati
ma mai realmente attinti.
Senza lasciarsi prendere da vaghe apparenze
e da stolti pregiudizi. Ci sarà anche una questione
settentrionale, e non saremo certo noi
a considerarla una non-questione; ma prioritariaè quella del Sud, senza la cui soluzione
l’intera Italia sarà sempre in seconda linea
nelle classifiche dei Paesi sviluppati.
Giuseppe Galasso, che segue i problemi del
Sud con grande sensibilità, ha scritto (dissentendo
da Egidio Sterpa, il quale aveva
lamentato l’assenza di un «vigoroso e razionale
meridionalismo») che mai, come oggi,
si è studiato il Mezzogiorno, con voci autorevoli,
con alcuni giornali che al Sud dedicano
supplementi quotidiani, con altri giornali
che alle regioni meridionali prestano
attenzione costante con servizi e commenti,
e via di seguito. Poi sottolinea: «È vero che
molti sono coloro che esplicitamente negano
realtà e consistenza alla questione nel
presente, e molti addirittura anche nel passato.È vero che sono stati e sono numerosi,
e spesso (ahimè !) fin troppo dannosi, gli
equivoci circa la domanda se “abolire il
Mezzogiorno”, o circa il “meridiano” sostituito
al “meridionale” o identificato con esso,
o circa la supposta opportunità di considerare
un “Mezzogiorno senza meridionalismo”,
o circa le benefiche virtù dello scrivere “Mezzo Giorno” invece che Mezzogiorno,
o circa la grande idea di studiare il Mezzogiorno
al di fuori di ogni confronto con
altre parti del mondo o come un qualsiasi
altro pezzo di mondo o come Terzo Mondo
europeo, e così via. Se ne sono viste e sentite, effettivamente, di tutti i colori, fino all’ennesima proclamazione della fine della “questione”, perché la sua strada il Mezzogiorno
l’ha trovata o perché esso non sta affatto
male quanto si dice...».
E così, forse involontariamente, ma forse
no, Galasso ha elencato una buona parte
delle tribolazioni e dei pregiudizi che hanno
martirizzato, non soltanto spiritualmente, il
Sud. Tuttavia, ci tiene a precisare, non è
questo il problema: «Non è neppure una
questione di idee: sul Mezzogiorno l’unica
cosa che abbondi sono proprio le idee. Né è
questione di “un nuovo racconto” del Mezzogiorno
che ne metta in luce elementi di
diversità rispetto alla sua condizione media
e di positività: elementi che vi sono stati
sempre e non hanno mai annullato la questione».
Il problema, dunque, «è politico», e la politica
rilutta a dire e a fare qualcosa di veramente
meridionalistico: «Ma è chiaro che,
se la politica vi crede poco, ve ne sarà una
qualche ragione (...). Se il Mezzogiorno appare
oggi così in secondo piano nella vita
del Paese, (...) la prima responsabilità è qui,
tra noi, nel Mezzogiorno stesso. E non illudiamoci
molto neppure perché si è ben sperimentato
che il Mezzogiorno riduce e appesantisce
il ritmo di crescita dell’intero
Paese. Il monito di Giustino Fortunato (l’Italia
sarà quel che il Mezzogiorno sarà) si è
rivelato, alla fine, attendibile solo a metà.
Dopo 150 anni di unità nazionale il Mezzogiorno
sta come sta e l’Italia, bene o male, è
andata avanti ed è cresciuta, anche se oggi
affanna. Ricordiamo anche questo».
Certamente, l’Italia è andata avanti: di
quanto, è questione di relativi punti di vista.
Perché bisogna chiedersi anche che cosa il
Paese sarebbe potuto diventare, se avesse
sviluppato per tempo e con equilibrio le sue
aree arretrate; quale eventuale maggiore
ruolo avrebbe potuto assumere in Europa
(e nel mondo), se il Sud non fosse rimasto
in buona parte un mercato (importante
quanto si voglia, ma pur sempre un mercato
tutt’altro che autosufficiente) dell’Italia
avanzata; e cosa sarebbe stato del Sud se,
invece di avvitarsi in studi e in analisi e in
indagini conoscitive, senz’altro utili, ma rimaste
quasi del tutto alte e sterilizzate negli
scaffali impolverati delle istituzioni italiche,si fosse proceduto alla graduale soluzione
delle problematiche economiche e civili, anche
sulla scorta delle esperienze non sempre
e non del tutto negative del mezzo secolo di
intervento dello Stato centralizzato.
Vogliamo dirla tutta, allora? Non hanno
funzionato proprio le istituzioni e tutti gli
apparati dello Stato. L’arretratezza del
Mezzogiorno è servita ai politici per acquisire
consenso.
L’azione della giustizia nelle aree dei cartelli
mafiosi è stata intermittente, e accanto
all’opera di menti illuminate e di sacerdoti
del diritto votati anche alla morte, ha
registrato silenzi, collusioni, complicità
che hanno perpetuato la vita delle piovre e
la sudditanza di vasti ceti sociali alle strategie
criminogene.
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Le foto di questo contributo
sono state “catturate” a Pietrapaola (Cosenza). - Rosa Pugliese |
Gli interventi straordinari nelle “aree depresse”
sono serviti al Sud per arricchire illecitamente
amministratori e mafiosi, e al
Nord per ristrutturarsi e ammodernare le
proprie aziende, trasferendo oltre la Linea
Gotica i loro impianti obsoleti.
Le Partecipazioni
Statali portarono al Sud industrie
ingombranti, assistite, devastanti per il territorio,
e in ultima analisi destinate alla
chiusura o al crollo dell’occupazione.
Dunque, è giusto chiamare in causa il
Mezzogiorno, col cumulo dei flagelli biblici
che continuano ad insidiarlo e, in certi
casi, a ricacciarlo indietro nella Storia.
Ma è altrettanto giusto affermare che se il
Sud non riesce a venir fuori da se stesso, è
perché alla debolezza endogena si sono
sommate altre cause, esterne ma contigue e
corresponsabili.
Non a caso anche Raffaele La Capria si è
interrogato su che cosa abbia impedito lo
sviluppo delle terre meridionali, riassunte
emblematicamente in quella che fu la loro
splendida capitale, Napoli, ma altrettanto emblematicamente allargate all’intera Penisola.
E si è chiesto e ha chiesto a tutti, lo scrittore: «Non si deve chiamare in causa anche per
l’Italia la società civile e la classe politica e i
comportamenti che la contraddistinguono?
Non è vero anche per l’Italia che non sa
uscire da sé e dai propri vizi, dalle proprie
abitudini e dai propri “misteri”? Non è vero
anche per l’Italia che ogni cosa che tenta finisce
a mezza strada? Cos’è, se non questa
incapacità, l’anomalia italiana? ».
Insomma, Galasso fa bene a rimproverare al
Mezzogiorno l’incapacità di trovare al suo
interno gli anticorpi che lo aiutino a superare
la drammatica linea d’ombra che separa
la sua arretratezza dal suo sviluppo. Ma anche
l’irrisolvibilità del problema italiano dovrebbe
in qualche modo aiutarci a capire
l’irrisolvibilità del problema del Sud. Forse
Giustino Fortunato non aveva del tutto torto
quando scriveva quel pensiero che, a rifletterci
bene, ancora oggi ci pare più rivoluzionario
di tutti gli studi e le indagini, analisi,
ricerche, e quant’altro continuano a sfornare
(con quale conseguente utilità pratica?)
tutte le sedi deputate.
Non diciamo questo per amor di polemica,
né per creare alibi o per predisporre via di
fuga a un moderno dibattito meridionalista,
ma quanto meno per immaginare strumenti
nuovi, efficaci e decisivi di rinascita per una
società permanentemente disastrata. Almeno
questo.
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