Dicembre 2008

IL CORSIVO. 90 ANNI FA LA FINE DELLA GRANDE GUERRA

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DALL’INUTILE STRAGE
ALLE DUE ITALIE

Aldo Bello

 

 
 

 

 

Doppia morale. Con l'Unità si consolidò il concetto di un'Italia con due anime, dunque con due popoli di cultura, mentalità, antropologia opposte: da una parte i cattivi, dall'altra i buoni.

 

Il 25 ottobre 1921 una donna di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, indicò, fra le undici bare raccolte nella Basilica di Aquileia, quella di un “Milite Ignoto” da trasferire a Roma, a Piazza Venezia, nel Vittoriano dedicato a Vittorio Emanuele II, “Padre della Patria”, ove il feretro è tuttora sepolto. Quella popolana si chiamava Maria Bergamàs, aveva cinquantaquattro anni, ed era stata prescelta perché suo figlio, richiamato alle armi dagli austriaci, (nel 1914 Gradisca d’Isonzo faceva parte dell’Impero Austro-ungarico), aveva disertato e si era arruolato volontario con gli italiani. Era stato colpito a morte il 16 giugno 1916. Non essendosi mai ritrovato il corpo, anche lui poteva essere il Soldato portato nel cuore della capitale del Regno d’Italia.
Le undici bare di Aquileia provenivano dalle undici zone nelle quali si era combattuto con maggiore accanimento: Rovereto, Dolomiti, Altipiani, Grappa, Montello, Basso Piave, Cadore, Gorizia, Basso Isonzo, San Michele, oltre al tratto da Castagnevizza al mare. Era stata esclusa un’area, quella dell’Alto Isonzo, forse perché Caporetto si trovava proprio da quelle parti, e permaneva l’infondato sospetto che alcuni italiani avessero tradito, consentendo al nemico di sfondare. Era, questa, la nota tecnica dello scaricabarile: si dava in pasto all’opinione pubblica il classico capro espiatorio, questa volta collettivo, deviando le accuse dalla tragica incompetenza dei generali alla presunta codardia dei soldati.

Roma: Particolare del Vittoriano,
dalla Fontana di Emilio Quadrelli, che simboleggia il mare Adriatico, proteso ad Oriente. - Rosa Pugliese
Roma: Particolare del Vittoriano, dalla Fontana di Emilio Quadrelli, che simboleggia il mare Adriatico, proteso ad Oriente. - Rosa Pugliese


Le cifre di cui non si è parlato quasi mai, se non per rare allusioni, quando proprio non si è potuto fare a meno, e con qualche strumentale vaghezza: dal 24 maggio 1914, giorno d’entrata in guerra dell’Italia, al 2 settembre 1919, data in cui fu concessa un’amnistia per i reati militari, ci furono 870 mila denunce all’autorità giudiziaria di civili chiamati alle armi; di questi, 470 mila erano perseguiti per renitenza alla leva. Circa 400 mila furono i militari inquisiti. Il maggior numero di denunce (162.563) e di condanne (101.665) si ebbero per diserzioni, non avvenute «per passaggio al nemico» né «in presenza del nemico», ma perché gli uomini non si ripresentavano ai reparti dopo le licenze, oppure si allontanavano dalle formazioni. Metà di queste pene furono comminate prima del 24 maggio 1917, l’altra metà dopo. La Direzione generale della pubblica sicurezza calcolò che fra il 1° dicembre 1916 e il 15 aprile 1917 si svolsero circa 500 manifestazioni alle quali presero parte decine di migliaia di donne.
Per tutta la durata del conflitto, in misura
più o meno intensa, valse la dichiarazione rilasciata al giornalista Olindo Malagodi dal Capo di Gabinetto del Primo ministro Vittorio Emanuele Orlando nella primavera del 1917: «L’irrequietezza [...] si manifesta nei centri proletari delle città e delle campagne, specie dove c’è l’organizzazione socialista o democattolica».

Il Monumento ai Caduti di Tricase. - Nello Wrona
Il Monumento ai Caduti di Tricase. - Nello Wrona


La maggioranza dei socialisti, che al momento dell’intervento avevano adottato la formula ambigua “né aderire né sabotare”, era contraria alla guerra. Ma a dare impulso a queste posizioni contribuì anche l’atteggiamento del Vaticano, che – al di là della sacralità della vita umana e della difesa della pace e della fratellanza tra i figli di Dio – riteneva il conflitto un attacco senza precedenti del mondo protestante contro quello cattolico, ed era dunque palesemente contrario alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. I dati ufficiali dell’epoca ci danno elementi solo indicativi sul numero complessivo dei morti in guerra. Quelli tedeschi furono circa 2.000.000, pari al 15,1 per cento della popolazione attiva maschile della Germania; mentre l’Austria-Ungheria lasciò sui campi di battaglia 1.543.000 uomini, il 17,1 per cento della popolazione attiva maschile. Nell’altro schieramento, le perdite maggiori furono accusate dalla Russia, con 1.750.000 morti, seguita dalla Francia con 1.400.000 vittime (10,5 per cento della popolazione attiva maschile). L’Impero inglese ne ebbe 900.000, e l’Italia complessivamente 680.000 circa. Uno studio francese ha calcolato in circa 6,5 milioni i mutilati di tutta Europa, 300 mila dei quali menomati al cento per cento. I mutilati
italiani furono 571 mila. Lo stesso studio ha stimato in 4.250.000 le vedove e in circa 8
milioni gli orfani del Vecchio Continente.
Le giovani generazioni furono quelle che subirono le perdite maggiori. I ceti sociali più
colpiti furono quello contadino, che più di tutti risentì degli effetti della mobilitazione, e
quello della media borghesia, dai cui ranghi provenivano gli ufficiali di complemento che guidavano le truppe all’assalto.

Una trincea sulle Dolomiti, nei pressi delle 5 Torri, uno dei musei all’aperto della Prima guerra mondiale. - Vito Primiceri
Una trincea sulle Dolomiti, nei pressi delle 5 Torri, uno dei musei all’aperto della Prima guerra mondiale. - Vito Primiceri


(A proposito dell’azione di Luigi Cadorna,
che era a capo delle armi italiane dal 1915 al 1917: il Capo del nostro esercito era convinto che il gran numero di caduti per le stragi sui due fronti avrebbe favorito l’Italia, che disponeva di quote di cittadini abili alle armi di gran lunga superiori a quelle dell’Austria. La strategia sanguinosa e inconcludente di questo capo dell’esercito italiano, tuttavia, non appartenne soltanto a lui. La condanna a una feroce, cruentissima guerra di trincea, con attacchi frontali fonti di inaudite carneficine – i soldati dovevano andare all’attacco senza esitare e senza ritirarsi, poiché erano tenuti sotto tiro dalle mitragliatrici amiche, piazzate alle loro spalle, pronte a far fuoco se retrocedevano senza un preciso ordine – fu comune all’epoca a tutti gli eserciti in campo. E, anzitutto, a quello inglese. Nella sola battaglia della Somme – venti settimane dal 1° luglio 1916 – caddero, senza alcun risultato, 700 mila uomini da parte alleata, per due terzi britannici, e 500 mila tedeschi: cioè circa il doppio dei morti italiani in tutta la guerra. Joffre dovette cedere perciò a Nivelle il comando delle truppe francesi. A Verdun – febbraio - dicembre 1916 – caddero tra alleati e tedeschi altri 700 mila uomini, ugualmente senza alcun risultato. Nel periodo aprilemaggio 1917 l’inutile offensiva di Nivelle sullo Chemin des Dames provocò ammutinamenti delle truppe, per cui il capo dell’esercito francese fu sostituito da Pétain. Del resto, furono via via defenestrati i Capi di tutti gli eserciti – per gli inglesi Douglas Haig al posto di John French sul fronte francese; per gli italiani Armando Diaz al posto di Cadorna –. Le responsabilità di Cadorna sono, insomma, enormi anche senza attribuirgli una tragica
incapacità strategica, che fu allora pagata orribilmente da tutti i combattenti in quella che, non a caso, fu subito e spontaneamente definita la Grande Guerra, e che fu riassunta non solo in opere di narrativa scritte da uomini dell’una e dell’altra parte, da Emilio Lussu per l’Italia, con “Un anno sull’Altipiano” a Erich Maria Remarque per l’Austria, con “All’ovest niente di nuovo”, ma anche da un film – ispirato proprio da Lussu – realizzato da Francesco Rosi, “Uomini contro”, che suscitò subito molte polemiche, in particolare per la scena in cui gli austriaci cessano di sparare con le mitragliatrici che falciano centinaia e centinaia di giovani e invitano gli italiani a porre fine al loro inutile attacco: scena tratta dal vero, al modo di altre del genere, anche perché non era raro il caso di italiani e austro-tedeschi che in alcune circostanze, come
nelle feste pasquali, natalizie e di fine anno, abbandonavano le trincee e fraternizzavano,
scambiandosi viveri o sigarette o caffè).

Fronte di guerra, 1916:
due commilitoni indicano i fori di proiettile sulla divisa del ten. Graziuso, rimasto miracolosamente incolume. - Courtesy Luciano Graziuso
Fronte di guerra, 1916: due commilitoni indicano i fori di proiettile sulla divisa del ten. Graziuso, rimasto miracolosamente incolume. - Courtesy Luciano Graziuso


Difficile contare, invece, il numero reale delle vittime della pandemia scatenata dalla cosiddetta influenza spagnola, che dal 1918 colpì un gran numero di Paesi, compresi anche quelli non belligeranti. Furono troppe. E furono troppo a lungo nascoste dai Governi del mondo, finché, alla fine, vennero confuse addirittura con le vittime della stessa Grande Guerra. Oggi, come bilancio di questa malattia maligna, abbiamo cifre che oscillano globalmente fra i 20 e i 100 milioni. Con una sola certezza: resta l’epidemia più devastante della storia dell’umanità. Nei soli Stati Uniti (ne narra la storia John Barry in “The Great Influenza”) uccise più persone di quante non ne morirono, sommate insieme, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea e in quella del Vietnam. Nel corso del 1918 perdettero la vita 187.884 tedeschi e 274.041 italiani. Ma per la Penisola italiana furono calcolati 500 mila morti, sepolti anche “a strati” – per indisponibilità immediata di spazi – nei cimiteri. Jeffrey Taubenberger, patologo molecolare americano, definì questa devastazione «un assassinio di massa mai consegnato alla giustizia».
Si gira attorno alle leggende, numerosissime, che accompagnarono la storia di quest’altra strage, che secondo alcuni venne chiamata “spagnola” perché in Spagna in un solo mese (maggio 1918) uccise oltre otto milioni di persone; oppure, forse, perché fu un lancio dell’agenzia ispanica “Fabra” a raccontare di una strana forma di influenza comparsa a Madrid. Oggi sappiamo che la verità porta ancora una volta in Cina: sembra sia stato un virus trovato nelle trachee dei maiali nell’area meridionale cinese a scatenare la pandemia. Era il virus H1N1, dove H sta per emoagglutinina ed N per neuroaminidasi. E non basta fermarsi qui, perché per riuscire a raggiungere l’uomo questo virus fu costretto a mutare la sua veste genetica, e sono anni che scienziati di tutto il mondo stanno impazzendo per mettere ordine nei passaggi della sua mutazione, sono anni che da ogni parte del mondo si va a scavare nei ghiacci per tirar fuori cadaveri ibernati (il virus sterminò anche il 90 per cento della popolazione eschimese) e isolare il killer spietato. Ma ancora non c’è niente di certo.

Fronte di guerra, 1916: Ufficiali del Genio. - Courtesy Luciano Graziuso
Fronte di guerra, 1916: Ufficiali del Genio. - Courtesy Luciano Graziuso


E anche ai nostri giorni aleggiano come spettri i racconti di questo virus come un proiettile che non lasciò finire la partita di bridge alle quattro donne sedute a un tavolo da gioco negli Usa; che non consentiva di arrivare al mattino ai soldati nelle loro brande, assottigliando gli eserciti già decimati dalla stanchezza e dalla scarsa igiene; che non dava adito a speranza, tanto che in alcuni States americani divenne reato tossire, starnutire e sputare in pubblico, per il terrore del contagio. Nel nostro Paese soltanto prevalse una storia positiva: l’infezione aveva colpito un grande campione del momento, il leggendario Costante Girardengo. La spagnola lo costrinse ad abbandonare un Giro d’Italia. Ma non riuscì a fargli abbandonare la vita.
(La cittadina di Chieri, in quel di Torino, non aveva braccia sufficienti a lavorare la terra. Aveva bisogno di almeno 300 uomini. Si era in piena guerra, dunque si poteva provvedere in qualche modo con dei prigionieri. Ne inviarono quaranta, 39 austriaci e un ungherese. Costo per ogni bracciante, una lira e 80 centesimi al giorno. Vennero sistemati nel convento di Sant’Andrea delle suore cistercensi. In venticinque morirono di stenti, per tubercolosi o per spagnola. Uno alla volta, li seppellirono in un’aiuola, ciascuno sotto una croce, e nient’altro: nessun passato, nessun fiore.
Anno di grazia 2008. I ragazzi della Scuola Media della cittadina, sezione III C, ricostruiscono storia e storie, biografie, memorie, ricordi di alcuni di coloro i quali per novant’anni non ne avevano avuti più. Adottano quei Caduti. Contattano le famiglie oltreconfine, identificano le esistenze, attribuiscono i nomi, dal più giovane, Johann Griesbaner, che aveva appena 18 anni, al più anziano, Andreas Lux, che ne aveva 44, passando per Johann Payr, che ne aveva 23, e Johann Cepò – questi soltanto ungherese – che ne aveva 36 e veniva da un paesino dal nome fiabesco, Felsoschihloy, e Johann Schushter, che ne aveva 43. Riscoprono in questo modo, i ragazzini belli di Chieri, i valori della pace, e riabilitano i nemici di una volta, ridando loro dignità umana, e nobilitando ciascuna delle croci piantate fra le erbe non più intonse dell’aiuola del cimitero, dove i discendenti di quegli eroi dell’altro fronte potranno fermarsi a pregare
e a riflettere sulle sciagure del mondo).

Un rifugio con travature
in legno sulle Dolomiti. Questi bunker spesso fronteggiavano a pochissima distanza quelli del nemico, per cui non furono infrequenti
gli episodi di scambi di doni tra nemici nella “terra di nessuno”. - Vito Primiceri
Un rifugio con travature in legno sulle Dolomiti. Questi bunker spesso fronteggiavano a pochissima distanza quelli del nemico, per cui non furono infrequenti gli episodi di scambi di doni tra nemici nella “terra di nessuno”. - Vito Primiceri


Ma ci fu un’altra ragione che costrinse l’Italia a trasferire al Vittoriano il corpo del Milite Ignoto parecchio tempo dopo che lo avevano fatto gli inglesi e i francesi. Fu perché nel 1919-1920 non sarebbe stato possibile celebrare i Caduti in guerra: l’idea di Patria era in declino, e la memoria della Grande Guerra era diventata impopolare, per non dir peggio. Si era conclusa con una vittoria, ma perfino gli interventisti ritenevano che si era trattato di una “vittoria mutilata”. Dal canto loro i socialisti, affascinati da Lenin, volevano «fare la rivoluzione come in Russia»: allora gli ufficiali in divisa e decorati al valore venivano irrisi, insultati. Era però l’assetto sociale del Paese ad aver subìto mutamenti radicali: la guerra era stata un’esperienza collettiva, di massa, che come mai prima aveva messo a contatto diverse realtà sociali, diverse lingue, diversi costumi delle varie parti d’Italia. I contadini del Sud, in particolare, avevano potuto confrontare le loro condizioni di vita con quelle del Nord. I piccoli e medi borghesi,inoltre, avevano sperimentato il comando militare, intravedendo la possibilità di avere nella società un ruolo di maggior peso.
La fine delle ostilità rivelò il prezzo pagato dai ceti medi. Quelli che secondo FedericoChabod erano stati «la vera struttura» dello Stato italiano vedevano abbattersi sulle loro
spalle gravi conseguenze economiche. I piccoli proprietari terrieri avevano dovuto sopportare una severa politica fiscale. Quelli che vivevano di modeste rendite avevano visto i loro redditi svanire per l’inflazione. Gli stipendi degli impiegati statali avevano perso una parte del loro potere d’acquisto. Ne erano seguite una sfiducia verso l’ordine costituito e una crisi dei valori tradizionali.

Matino (Lecce):
Una panchina deserta, in Piazza Umberto I, la piazza del Monumento ai Caduti. - Nello Wrona
Matino (Lecce): Una panchina deserta, in Piazza Umberto I, la piazza del Monumento ai Caduti. - Nello Wrona


Il 1919 si aprì con una serie di lotte aspre nelle città e nelle campagne per il caroviveri.
Ha scritto Pietro Nenni: «Si trattò di un’impresa tumultuosa, anarcoide, priva di direzione, di vedute d’insieme, di chiari e precisi obiettivi (...). Ogni villaggio ebbe il suo Marat e il suo Lenin, di formato ridottissimo».
In agosto e settembre si ebbero in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia, scioperi nel settore metallurgico che per la prima volta posero il problema del potere in fabbrica.
Simultanee le lotte agrarie per il miglioramento dei contratti dei lavoratori salariati,
con il coinvolgimento dei mezzadri e dei coloni, che diedero inizio alle occupazioni dei
latifondi nell’Italia centro-meridionale e insulare. È stato chiamato il “Biennio Rosso”. Si concluse nel settembre 1920 con il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, perché fra l’altro gli operai non erano stati in grado di farne funzionare gli impianti senza i tecnici e di gestirle senza i capitali dei padroni. Lo stesso Lenin – in una lettera del 28 ottobre 1919, pubblicata dall’ “Avanti!” il 6 dicembre successivo – aveva chiesto agli italiani di non tentare alcuna rivoluzione. Gaetano Salvemini scrisse che quella lettera ebbe, soprattutto tra i massimalisti, l’effetto di una docciafredda. A destra si sospettò addirittura che si trattasse di un falso.

Album di guerra ‘15-’18. - 
Courtesy Luciano Graziuso
Album di guerra ‘15-’18. - Courtesy Luciano Graziuso


Era invece autentica: Lenin temeva la rivoluzione in Italia!
L’Italia tornò a una relativa tranquillità. Il 4 luglio 1921 si formò un governo presieduto da Ivanoe Bonomi, un socialdemocratico che era stato espulso dal partito socialista perché aveva appoggiato la guerra di Libia, e che nel 1912 aveva fondato il Partito socialriformista.
Del suo governo facevano parte cattolici ed ex combattenti. Un anno dopo, nel ‘22, Mussolini sarebbe salito al potere.
Forse anche per questo esito c’è chi ancora
oggi si chiede se quella del ‘18 sia stata una
vera vittoria. Perché anche l’Italia, alla fine delle ostilità, ne uscì male, ne uscì fiaccata,
battuta come tutti, con un carniere pieno di conquiste territoriali su cui restano parecchie
ombre. Di colpo – sostiene ad esempio Guido Ceronetti – la fantastica portualità triestina
decadde, poiché l’oriente europeo aveva perso il suo sbocco al mare; un’Austria ridotta ai minimi termini sarebbe stata inghiottita appena vent’anni dopo dal Terzo Reich; un
grande socialista come Cesare Battisti non avrebbe mai rivendicato l’annessione del Sud-
Tirolo, una provincia che di italiano non aveva nulla, dove ancora oggi la popolazione italiana sopraggiunta si sente a disagio, convinta com’è, nei ceti più sensibili, che non è il bilinguismo ad unificare, perché il magnetismo spirituale pesa molto di più.
E poi, proiettando quegli accadimenti alla fine della (staremmo per dire) conseguenteSeconda Grande Guerra, fu già un miracolo se riuscimmo a riavere nuovamente Trieste
(che nel ‘45 era perduta), dal momento che la Jugoslavia voleva arrivare almeno al Tagliamento (senza trascurare l’annessione di Udine) e predisporre non soltanto un bel futuro di terrore per le popolazioni di quei luoghi, con «l’oscena complicità dei comunisti
togliattiani», ma anche «un potere enorme e perfettamente totalitario» nell’area nordorientale della Penisola. Trieste, presa con l’armistizio, «perché tutto lo sforzo si era
concentrato sul Piave, richiese quattro anni di tentativi disperati, di Carsi sanguinanti, e
poi nove anni (dal 1945 al 1954) per il rientro definitivo dell’incomprensione italiana.
Non va dimenticato l’ignobile trattato di Osimo, il regalino (...) dei fondali alti del porto
alla Slovenia, la Zona Franca industriale a una Belgrado ancora titina, proprio alle spalle di Trieste; minaccia sventata da una disperata rivolta cittadina...»: di cittadini memori di una Patria «sospirata dagli Oberdan e dagli Slataper, dai fratelli Stuparich, dalle élites intellettuali pronte a buttare, per questo,le loro giovani vite...».
E neppure va dimenticato che quando si discuteva del riassetto di pace «l’Italia fece dell’Istria una difesa d’ufficio», conclude Ceronetti, «e gettò invece un maestoso mantello protettivo sulla Somalia», proprio quando tutto il colonialismo andava ormai tramontando, guadagnandoci una manciata d’anni di mandato ultraprecario, «mentre alcune centinaia di migliaia di italiani istriani si precipitavano con le loro carabattole verso il confine».
Sul viaggio del Soldato Ignoto da Aquileia alla capitale italiana esiste un’impressionante
documentazione cinematografica dell’Istituto Luce: è un filmato muto, ma con didascalie, intitolato “Gloria”. Vi vediamo Maria Bergamàs fra le undici bare, e il treno speciale che attraversa l’Italia tra due ali di folla.Molti si inginocchiano al passaggio del convoglio,altri gettano fiori. In tanti immaginano che il padre, lo sposo, il figlio, il fratello caduto in guerra senza che se ne siano trovate le spoglie, possa trovarsi sul treno e scorgono in quel Milite il congiunto scomparso. Avvolte in veli neri, molte donne salgono sul vagone per una breve preghiera. Le soste sono a Conegliano, Venezia, Mestre, Padova, Bologna. A Venezia la bara percorre il Canal Grande su un barcone. A Firenze compie un breve giro in città. Sosta anche a Orvieto. Poi il convoglio riprende il viaggio, scortato da uno stormo di biplani.

Fronte orientale.Una parvenza
di normalità nella guerra di trincea. - Courtesy Luciano Graziuso
Fronte orientale.Una parvenza di normalità nella guerra di trincea. - Courtesy Luciano Graziuso


Per cogliere il clima di quei giorni, si ponga mente al fatto che si era vicini alla commemorazione dei defunti e, nello stesso tempo, al terzo anniversario della vittoria.
La monarchia
sabauda aveva bisogno di consenso manifestato in massa. Perciò si era fatto in modo che il Milite giungesse nella capitale il 2 novembre, e che alla stazione Termini il feretro fosse accolto da Vittorio Emanuele III che, a piedi, lo accompagnò alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, nella contigua piazza dell’Esedra. La messa venne celebrata da monsignor Angelo Bartolomasi, che nel ‘22 sarebbe stato nominato arcivescovo dell’Ordinariato Militare d’Italia. In chiesa erano presenti anche la regina Elena e le principesse, in lutto rigoroso.
Nel documentario si nota una forte presenza del clero cattolico. Mezzo secolo prima, Roma e lo Stato Pontificio erano stati sottratti al Papa, e la ricorrenza del 20 Settembre
(Porta Pia) è celebrata come festa nazionale, sebbene l’art. 1 dello Statuto Albertino
continui ad affermare che “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”. Il 4 novembre 1921, in coincidenza con l’anniversario della vittoria sugli austro-tedeschi, un gruppo di Medaglie d’oro trasferisce il Milite Ignoto a piazza Venezia, per l’inumazione sull’Altare della Patria. Oltre ai sovrani, è presente la settantenneRegina Madre, Margherita di Savoia, che sale a fatica le scale del Vittoriano. È la vedova di Umberto I, il re ucciso a Monza nel luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci. Accanto alle scale, un vecchio trombettiere garibaldino di Mentana (1867) suona il silenzio. Formazioni militari schierate presentano le armi. La Grande Guerra ha compiuto la missione del Risorgimento, – dice il messaggio alla Nazione – l’Italia è finalmente unita entro i confini naturali.
Storia travagliata, quella del Vittoriano. In calcare di botticino, molto bianco, abbagliante nei giorni di sole pieno, un po’ in contrasto con il tipico travertino dei monumenti romani, è stato spesso criticato per l’aspetto, tanto da essere irrispettosamente definito, di volta in volta, torta nuziale, macchina da scrivere, calamaio, persino dentiera. In ogni caso, resta il simbolo dell’Unità d’Italia, come tale ideato nel 1878 e iniziato nel 1885 su progetto di Giuseppe Sacconi.Data la complessità dell’opera e il protrarsi dei lavori, dopo la morte del progettista, nel 1905, il monumento fu completato da Gaetano Kock, Manfredo Manfredi e Pio Piacentini; fu inaugurato nel 1911 da Vittorio Emanuele III, anche se la parte decorativa non era stata completata. Venne poi rimodellato, nel 1921, per la tumulazione del Milite Ignoto. Inaugurato nuovamente nel 1925, fu realizzato nel suo aspetto esterno nel 1927, mentre gli ambienti interni furono completati soltanto nel 1935.
Discussa la struttura architettonica, controversa l’idea di Unità che proietta fino a noi,
conflittuali anche i tratti salienti dell’identità nazionale, per le contraddizioni che proprio la Grande Guerra portava con sé, e che ancora oggi ostinatamente persistono. Ha scritto Ernesto Galli della Loggia che ogni volta che all’ordine del giorno della società italiana si pone qualche questione sul senso dello Stato, o sull’ethos e sui meccanismi della democrazia, oppure sul significato profondo e sugli effetti della modernità, sempre i problemi, i conflitti, le inadeguatezze che avvertiamo rimandano in qualche modo a quel passato: come se la Guerra del 1915-18 e il vorticoso succedersi di eventi che da quella presero le mosse costituiscano una sorta di Dna del nostro presente. Noi, cioè, diventammo allora quel che siamo ora.

Un reparto del Genio,
sul Fronte orientale, con una preda molto speciale. - Courtesy Luciano Graziuso
Un reparto del Genio, sul Fronte orientale, con una preda molto speciale. - Courtesy Luciano Graziuso


«Il paradosso di questo sovrapporsi di lontananza e di presenza, di passato e di attualità»,scrive Galli della Loggia, «rispecchia bene la natura ambigua di quella guerra, che fu insieme l’ultima guerra per l’Unità nazionale, ma anche il primo episodio di un aspro scontro interno al Paese: scontro che in modi e forme diverse era destinato a caratterizzare gran parte del Novecento italiano, assumendo spesso toni e contenuti di una guerra civile».
In sintesi: la Grande Guerra determinò la rottura dell’antico rapporto con lo Stato, la
fine del regime notabilare post-risorgimentale,con le avvisaglie della democrazia e della
modernizzazione, e infine l’ingresso delle masse nella vita politica nazionale; ma scoprì anche la fragilità degli ordinamenti e la mediocrità delle classi dirigenti, da una parte, e dall’altra la «concezione primitiva della democrazia» di tanti che premevano per nuovi equilibri politici e sociali.
Il 1919-22 fu quasi un ultimo atto di quanto era iniziato tra l’inverno del ‘14 e la primavera del ‘15: d’un tratto emersero quelli che nel mezzo secolo successivo sarebbero stati alcunitra i fattori determinanti della scena italiana:una cultura e una pratica di governo dominate dall’indecisione e dai condizionamenti, il radicalismo intellettuale di una parte significativa del ceto dei colti, la variegata vocazione attivistica di gruppi consistenti di piccola e media borghesia specie giovanile, il massimalismo largamente diffuso nei pensieri e nell’azione degli strati popolari. A cominciare dalle “Radiose Giornate”, dal “Biennio Rosso” e dalla “Marcia su Roma”: tre atti di un unico dramma.

Lecce: Memorial di tutte le guerre. - Nello Wrona
Lecce: Memorial di tutte le guerre. - Nello Wrona


Chiosa il politologo: «Proprio intorno alla Prima guerra mondiale si precisò e si approfondì quella propensione alla “divisività” che ha caratterizzato in modo patologico, e per certi aspetti ancora caratterizza, la storia italiana». Una divisività che, oltre a riferirsi a una dimensione propriamente ideologico-politica,anzi quasi prima di essa, tende a presentarsi addirittura in una dimensione antropologico - culturale e perfino morale: «Come uno spartiacque tra due nazioni, tra due Italie, una buona e degna, l’altra cattiva e indegna, destinate perciò a farsi in eterno la guerra. La nostra
identità novecentesca, ci piaccia o no,sembra anche fatta di questa incomponibile volontà contrappositiva, sempre pronta ad alimentare reciproche, eterne scomuniche».
Ma – e non proprio in filigrana – un altro fenomeno ha determinato il maledetto imbroglio della moderna vicenda storica italiana:la frequente migrazione di personalità e di idee da un’Italia all’altra, da uno schieramento politico-culturale ad un altro, da una
trincea ad un’altra, e viceversa. Si è trattato, e si tratta, di qualcosa di diverso dal vecchio trasformismo ottocentesco ripreso e rimesso in gioco da Giolitti.
Il variegato fronte interventista del ‘15 va visto piuttosto come preannuncio della «grande contaminazione di forze, di ideali, di gruppi»,che la Grande Guerra produsse già al suo inizio e poi subito dopo; e che in seguito si sarebbe ripetutamente verificato nell’Italia del XX secolo, del cosiddetto “Secolo breve”, in occasione di ogni incisivo accadimento storico.Segno, questo, di una cronica instabilità,tipica della vita italiana, delle sue culture e dei suoi gruppi dirigenti, costretti a muoversi senza il punto di riferimento di una reale,consolidata tradizione nazionale. Non è un caso, secondo Galli della Loggia, se ben due volte, in occasione di altrettanti conflitti mondiali, l’Italia ha dovuto mutare radicalmenteil proprio regime politico.
Quello più accanitamente divisivo era il demone del moralismo, vale a dire l’idea che il nostro non sia un unico Paese con propensioni, aspetti, caratteri buoni e cattivi, intrecciati e quasi inestricabilmente confusi in tutte le sue parti e, in una certa misura, anche dentro di noi. Dai tempi immediatamente successivi all’Unità si consolidò il concetto di un’Italia con due anime, con due morali, dunque con due popoli di cultura, mentalità, antropologia opposte: da una parte i cattivi (per natura reazionari,
prevaricatori e imbroglioni), dall’altra i buoni (altrettanto naturalmente democratici,
rispettosi della legge e attenti al bene pubblico); da una parte l’Italia maggioritaria
moralmente grigia; dall’altra, speculare, quella che si è definita “l’altra Italia”, minoritaria e senza possibilità di redenzione.
Questo tipo di moralismo è servito e serve a vanificare ogni tentativo di trovare una causa razionale del fenomeno. È una storia antica, infatti; una storia che ha inizio subito dopo la conquista del Sud, quando lo sdegno per le miserie del Paese appena unificato e il venir meno delle grandi speranze risorgimentali si tramutarono nella messa sotto accusa delle sue classi politiche, di quello che fu definito il “Paese legale”; una storia che proseguì poi con l’antigiolittismo di tanta parte della cultura nazionale che, alla denuncia delle malefatte del “ministro della malavita”, associa oggi la novità della denuncia dell’inadeguatezza morale del socialismo degli anni 1918-21, colpevole di collusioni e di carsici patti di sostegno e di collaborazione con la borghesia coeva; una
storia, infine, che finora sembrava culminare e compendiarsi nell’appassionata predicazione di Gobetti e nel suo culto per le “minoranze eroiche” chiamate a lottare contro tutto e contro tutti: contro Giolitti, contro Turati, contro Mussolini, egualmente colpevoli, anche se a vario titolo, d’aver promosso la “diseducazione” morale e politica del popolo italiano.

Londra:Parata delle guardie
scozzesi al “Poppy Day”, la Festa dei Papaveri, in ricordo dei Caduti delle due guerre mondiali - Carlo Stasi
Londra:Parata delle guardie scozzesi al “Poppy Day”, la Festa dei Papaveri, in ricordo dei Caduti delle due guerre mondiali - Carlo Stasi

E proprio questo è stato riconosciuto: che sono stati gli scrittori, il ceto accademico, gli intellettuali in genere, a svolgere un ruolo centrale nel far sorgere e nell’alimentare questa tradizione del moralismo divisivo. Un ruolo che rimanda alla funzione politica di coscienza della nazione che sempre gli intellettuali hanno avuto in Italia, prima e durante il Risorgimento, prima e durante la Grande Guerra, prima e durante il Secondo conflitto mondiale, e che hanno mantenuto fino ai nostri giorni. La storia politica italiana, infatti, soprattutto quella del Novecento, è stata una storia d’impegno politico degli intellettuali; e questo impegno si è esercitato quasi sempre come denuncia e scomunica dai toni moralistici non di una politica con nome e cognome, ma di una generica “Italia cattiva”, di «quest’Italia che non ci piace», secondo le celebri parole di Giovanni Amendola.
È naturale che farsi alleato un simile atteggiamento, sollecitarlo e vezzeggiarlo, ha rappresentato una tentazione per qualunque forza di opposizione. Ne sa qualcosa il Pci del secondo dopoguerra, il partito che (dopo la dichiarata avversione democristiana al “culturame” italiano) iniziò una politica di stretta alleanza con gli intellettuali, e dunque anch’esso fece proprio in misura notevole il moralismo divisivo che nella tradizione della Penisola caratterizzava il loro impegno. Del resto, un partito antisistema com’era quello marxiano di allora – sicuro di non poter mai arrivare al governo per vie normali, e dunque condannato ad una permanente contrapposizione – divisivo lo era
naturalmente. Esso doveva tener viva la spaccatura verticale tra “buoni” e “cattivi”. Il taglio moralistico che vi aggiunsero gli intellettuali perciò vi fu, e fu senz’altro significativo, non fosse che per tener viva la tradizione, anche se l’algido realismo di Togliatti curò di non farsene prendere mai la mano, e di sbarrargli qualunque approccio al terreno cruciale della decisione politica.

Un ufficiale osservatore
in ricognizione sulla campagna francese a bordo di un pallone frenato, nella primavera del 1917. - Archivio BPP
Un ufficiale osservatore in ricognizione sulla campagna francese a bordo di un pallone frenato, nella primavera del 1917. - Archivio BPP


Le cose cominciarono a mutare tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta. Fu allora che il discredito progressivo della tradizione marxiana e la crisi dell’Unione Sovietica lasciarono i comunisti italiani sempre più privi della loro identità storica.
E fu allora che il vuoto ideologico, che nel frattempo era divenuto vuoto politico, cominciò inesorabilmente ad essere sempre più riempito dall’irrigidimento moralistico. Il quale tese a sua volta a diventare sistema delegittimante, creatore del nemico assoluto, mentre si manifestava una sorta di mutazione genetica della forza politica generata dalla scissione del ‘21 a Livorno: con sempre meno operai e sempre più esponenti del “ceto medio riflessivo” nelle proprie file, suggestionato da spregiudicati gruppi editoriali che quasi ambivano a dettargli la linea, coadiuvato da giudici di nuovo tipo che consideravano – e in parte continuano a considerare – se stessi e la giustizia come investiti da una missione etica, e infine condizionato da una stampa straniera abituata a semplificare drasticamente, e a volte a manipolare ottusamente, una realtà italiana che nella sostanza non conosceva, quel partito non trovò di meglio che fare della “questione morale” la sua nuova carta d’identità. Incapace di convertirsi in una socialdemocrazia, a questa forza, che pure una volta non aveva ignorato gli aspri dilemmi della politica, non rimase che presentarsi come il “partito degli onesti”, che affidava le sue speranze alla delegittimazione morale dell’avversario.
Era il ripudio drammatico e totale di una storia, una rottura sociale e antropologica, questo salto nella solitudine o tutt’al più fra vecchi compagni di strada di infima caratura, quelli che, bocciati dagli elettori, da tutti ricacciati oltre i territori di qualsiasi valenza politica moderna, ma vogliosi di ricostituire innaturali alleanze in funzione della propria sopravvivenza, nel sito www.bellaciao.org / it scrivono testualmente: «Contro la banda di razzisti, fascisti, mafiosi, clericali, criminali, avventurieri e speculatori che governa il nostro Paese! Eliminare le conquiste e i diritti dei lavoratori, strappare per i padroni e i ricchi del nostro Paese un ruolo di primo piano negli affari mondiali, reprimere quanti si organizzano e lottano: questo è il programma del governo, e questo è il compito affidatogli dalla borghesia imperialista, dal Vaticano, dagli imperialisti USA, dai sionisti... ».

Sulle pendici del Monte
Sei Busi, cima aspramente contesa nella Prima guerra mondiale, il Sacrario militare di Redipuglia. Vi sono sepolti 100.000 soldati,
“senza distinzione di tempi e di fortune”. - Ph. Pelòdia
Sulle pendici del Monte Sei Busi, cima aspramente contesa nella Prima guerra mondiale, il Sacrario militare di Redipuglia. Vi sono sepolti 100.000 soldati, “senza distinzione di tempi e di fortune”. - Ph. Pelòdia


Ecco: il moralismo divisivo non poteva che
culminare nel vuoto infinito e nell’arretramento giurassico, poiché implicava, in una parola, solo la concreta impossibilità della democrazia. Era l’esito drammatico che si verificò nel 1914, quando ebbe inizio il “Secolo breve”. Ed è la spada di Damocle che oscilla, terroristicamente minacciosa, sulla testa degli italiani, anche in questi primi anni del Terzo millennio.

   
   
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