Dicembre 2008

TANOS, MACARONÌ E GLI ALTRI

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DANNATI EMIGRANTI

Monica Marano
Carla Stagno

 

 
 

 

 

Ellis Island. Chi non entrava veniva rispedito in Italia, con un vestito nuovo e con un mucchio di banconote verdi fruscianti in tasca, a girovagare per i paesi del Sud a raccontare quanto era “facile far fortuna nella Merica’.

 

Rimase aperta per ben sei mesi, a partire dal 6 maggio 1931. E ne valeva la pena. Otto milioni di visitatori varcarono la soglia dell’Esposizione coloniale di Parigi, al Bois de Vincennes, affascinati da quanto vi era esposto. Infatti, si potevano ammirare la riproduzione a grandezza naturale del tempio cambogiano di Angkor Vat e degli altri edifici
tirati su a tempo di record per celebrare i fasti dell’Impero francese; e soprattutto per assistere alle performance delle danzatrici di Bali, oppure a quelle – minacciose – degli indigeni kanaki, trasferiti lì per l’occasione dalla remota Nuova Caledonia. Oppure si andavano ad osservare a distanza ravvicinata elefanti e cammelli, la cui vista faceva impazzire i bambini. Poi, calato il sole, avevano inizio i giochi di luce: colorati, suggestivi, avvolgenti.

Archivio BPP
Archivio BPP


La capitale francese ha deciso di ricordare quello straordinario ed eccentrico evento, a metà strada fra l’esposizione pedagogica (e molto propagandistica) e la sagra popolare. E lo fa nell’unico edificio rimasto in piedi dell’Esposizione (il resto, perfino la copia del tempio di Angkor Vat, in cima al quale vennero liberate inconsapevoli famiglie di scimmie, tanto per far colore, venne raso al suolo subito dopo la chiusura). È un palazzo alla Porte Dorée, alla periferia sudorientale della città, nel Dodicesimo Arrondissement, esattamente là dove inizia il Bois de Vincennes. Dal settembre 2007 ospita la Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration. E da solo giustifica la trasferta, per i bassorilievi esterni di Alfred Auguste Janniot. Proprio la Cité ha organizzato una mostra: 1931 - Gli stranieri ai tempi dell’Esposizione coloniale. Che non è soltanto il ricordo di quell’evento. Lo pone nel contesto della Francia dell’epoca, una delle maggiori destinazioni al mondo degli emigranti. Mette in relazione colonialismo trionfante e immigrazione dolente, con impliciti riferimenti alla nostra epoca, dunque alla contemporaneità, senza quelle derive buoniste che si potevano prevedere.
All’inizio della mostra, alcuni “reperti” dell’Esposizione, dimenticati negli scantinati del museo del Quai Branly. Affreschi, sculture, foto (anche della riproduzione delgran tempio cambogiano). E poi le magnifiche statuette di un corteo vietnamita, o il vestito di una giovanissima ballerina del Laos. Il tutto, dominato da una carta del mondo, opera di Henri Milleret, colorata e scintillante come il resto, con su scritto: «È con 76.900 uomini che la Francia assicura la pace e i benefìci della civiltà a 60 milioni di indigeni».

Guida per gli emigranti italiani diretti in
Brasile. Rio de Janeiro, 1886. - Archivio BPP
Guida per gli emigranti italiani diretti in Brasile. Rio de Janeiro, 1886. - Archivio BPP


L’obiettivo dell’Esposizione era promuovere l’Impero e invogliare i francesi ad andare a stabilirsi in quelle terre in una fase in cui si cominciava a mettere in discussione il colonialismo e iniziavano a svilupparsi i movimenti di indipendenza. Va chiarito subito che neppure il Fronte Popolare, al potere dal 1936, sarà anticolonialista.
In quegli anni le forze apertamente contrarie al progetto erano ancora minoritarie (il Partito comunista, i surrealisti e gli studenti d’oltremare in trasferta a
Parigi, come Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire, che cominciavano ad esprimere intolleranza nei confronti della madrepatria. In quel 1931, però, si criticavano ormai le degenerazioni. Pochi anni prima André Gide, nel 1925, aveva viaggiato in Congo. Rientrando, non aveva rimesso in discussione il colonialismo in quanto tale, ma aveva puntato il dito contro gli eccessi. La stessa Esposizione intendeva mettere in luce il lato umanista dell’Impero, il sostegno al progresso; giocando anche sugli aspetti spettacolari, come recitavano le brochure pubblicitarie della manifestazione, alla quale presero parte anche altri Paesi, perfino l’Italia, con il consueto padiglione in perfetto stile neoclassico.
Dalla prima sezione della mostra, al “dietro le quinte” dell’Expo. Proprio così, i retroscena, non sempre edificanti. I ricercatori della Cité hanno ritrovato innanzitutto gli
archivi del Commissariato di Avenue du Bel-Air, a pochi passi dalla Porte Dorée, relativi
proprio 1931. Vengono fuori denunce di simpatizzanti comunisti presi in flagranza, mentre sostituivano le bandiere francesi dell’Esposizione con altre rigorosamente rosse; il fermo di nazionalisti indocinesi che avevano lanciato volantini contro «gli sporchi colonizzatori», sparsi a pioggia sul falso tempio di Angkor Vat. E poi i problemi durante i cantieri per edificare in fretta e furia i vari padiglioni. Gran parte dei muratori erano stranieri, e moltissimi erano gli italiani. Come un certo signor Battistoni, il quale, chiamato con disprezzo “macaronì” dai colleghi francesi, aveva reagito prendendo a pugni i suoi intemperanti interlocutori.
In quel 1931 la Francia raggiunse la quota massima, nella sua storia, di stranieri sul totale della popolazione: il 6,9 per cento. Erano esattamente due milioni e 890 mila; gli italiani, i più numerosi (800 mila), davanti a polacchi e spagnoli. E continuavano ad arrivare in massa sul suolo francese, nonostante la situazione economica fosse già evidentemente compromessa, come riflesso del crack del 1929. Al tempo stesso, però, lievitava la xenofobia. La crisi economica si aggraverà negli anni successivi, ma già nel ‘31 chiudevano fabbriche e si licenziavano operai. In questo contesto, gli stranieri vennero
presi di mira: rubavano il lavoro ai francesi. Nel 1932 verrà addirittura approvata una legge che imporrà una quota massima di assunzioni di stranieri nelle imprese. Ma già nell’anno precedente le tensioni erano visibilmente forti. Nella mostra parigina sono stati resi disponibili documenti molto interessanti, come quello interno di un’amministrazione pubblica del Midi che istiga a «un’epurazione rigorosa dei lavoratori stranieri»; mentre nella lettera di un dirigente dell’impresa Raty agli ispettori del lavoro si ricorda che «abbiamo licenziato in priorità gli stranieri, dovendo trascurare spesso il valore professionale degli interessati». Il padrone fa capire che si è dovuto separare da dipendenti in molti casi più validi e più preparati, oltre che più disponibili, dei suoi stessi compatrioti.
Infine, nello stesso 1931 ben 93 mila stranieri, (con priorità riservata agli italiani, cioè proprio a quelli che più degli altri cercavano l’integrazione), dovettero lasciare il Paese: in moltissimi casi si trattò di vere e proprie espulsioni, oppure di famiglie che ricevettero un contributo “al ritorno”, proprio al modo della Francia del 2007, vale a dire quella odierna di Sarkozy.
Tutto questo, raccontato mediante storie personali, cimeli, fotografie: la Francia ostica degli stranieri, che in molti casi vivevano nelle stradine adiacenti la Porte Dorée, lì dove i curiosi si ammassavano per poter vedere per la prima volta nella loro vita elefanti
e cammelli in carne e ossa. “Il giro del mondo in un giorno”. Un’esperienza indimenticabile. (Roma, tre quarti di secolo dopo. Parlano alcuni giovanissimi, immigrati in Italia con i loro genitori. Dai passaporti, risultano albanesi, marocchini, tunisini, macedoni,
ucraini, polacchi, romeni, algerini, latino-americani...

Manifesto pubblicitario di una società
di navigazione genovese sulla rotta Italia-America, attiva a fine Ottocento. - Archivio BPP
Manifesto pubblicitario di una società di navigazione genovese sulla rotta Italia-America, attiva a fine Ottocento. - Archivio BPP


Parla una giovanissima macedone, che però è un’eccezione, nel senso che, facendo parte
della generazione nata e cresciuta in Italia, coniuga le tradizioni della propria identità con gli stimoli della società in cui vive, con la scuola nella quale sperimenta la convivenza,
vero e proprio laboratorio della società che sarà. Dice: «Voglio bene ai miei compagni, così come agli amici che ho lasciato in Macedonia. Mi piace stare qui, ora mi sento un po’ macedone e un po’ italiana. In Macedonia ho ancora tanti amici, una casa e i parenti che mi aspettano per le vacanze. In Italia ho la scuola, tanti altri amici e tante speranze per quello che farò da grande. Ormai ho deciso che rimarrò a vivere in questo Paese».
Riflessioni scritte di una tredicenne: «All’inizio non mi trovavo bene, perché era tutto diverso da come vivevo prima, anche la lingua, non capivo niente, e poi non avevo né amici né amiche. A scuola tutti mi guardavano in un modo strano... Ora è cambiato, sono abituata a fare come gli altri, anche se con qualche difficoltà. Ho cominciato ad abituarmi agli italiani. Dell’Italia mi piace la scuola, mi piace dove abito, mi piace andare in giro con altre ragazze. Ma preferisco il mio Paese, che è il Marocco; non so perché, ma credo che ancora non so vivere altrove, senza la mia famiglia e senza Marocco».
Riecheggia un ragazzo: «Sono arrivato in Italia quando avevo solo otto anni. Dopo due, tre mesi mi ero già ambientato perfettamente, come fossi nel mio Paese. Anzi, non proprio come nel mio Paese: perché il tuo Paese non si può sostituire, perché è come casa tua e lì ti senti più sicuro che in qualsiasi altro posto del mondo».

Una famiglia di emigranti italiani schierata davanti al proprio “Salon de coiffeur”, a Saint Etienne, Francia, nella prima decade del Novecento. - Archivio BPP
Una famiglia di emigranti italiani schierata davanti al proprio “Salon de coiffeur”, a Saint Etienne, Francia, nella prima decade del Novecento. - Archivio BPP


Testimonianze di discriminazione e di disagio:«Un’esperienza negativa è stata conoscere gente che ti giudica prima di conoscerti, perché sa che sei straniero. Questo è uno dei problemi più gravi».
E: «Sono venuta qui quando avevo cinque anni. Ora è come il mio secondo Paese.
Ma con alcuni difetti. La cosa che mi infastidisce degli italiani è il loro egoismo, in qualche modo ti fanno sentire inferiore. Ma io non vedo differenza tra italiani e stranieri. Mi dispiace che la pensino così».
Le voci di quelli che non si integrano:«Quando avevo appena due anni mio padre è dovuto venire in Italia per cercare lavoro. Decise di partire senza pensare; come i pescatori, senza sapere che cosa c’è al di là del mare. Non lo vedevo tanto, ma stavo molto bene a Casablanca, finché un bel giorno ci disse: “Sono stanco di star da solo, quindi ho deciso di portarvi con me in Italia”. Da quel giorno non ero più come prima, sempre con la voglia di ridere e scherzare. Nonè facile lasciare il proprio Paese per trasferirsi in un altro, dove non conosci nessuno. Non eravamo preparati a quella partenza. Ora siamo in Italia e non abbiamo nessuna scelta. Qui ho trovato un altro mondo, assolutamente diverso da quello in cui vivevo. Sicuramente nei primi giorni ho trovato difficoltà con la lingua ma, una volta imparata, ho trovato e trovo ancora problemi nell’amicizia. Tutti sono traditori e vigliacchi: alcune persone hanno atteggiamenti insopportabili. Per me tornare nel mio Paese sarebbe meglio perché lì non ho mai avuto problemi nell’amicizia».
E una ragazza, figlia di immigrati da Cracovia: «Ho deciso di raccontare come mi trovo
in Italia. Non ho nessuna difficoltà ad abitare qui, però sicuramente mi piacerebbe stare nel mio Paese. Degli italiani non mi piace il loro sentirsi superiori a noi: essendo nel loro Paese, in ogni cosa che sbagliamo ci considerano diversi e fanno vedere il loro egoismo. Io non sono contenta, perché volevo nascere in Polonia e non in Italia. Quando mi dicono che ormai sono italiana, mi infastidisco. Vivere in Italia è l’unica possibilità e non ho altra scelta. Non mi piace stare in compagnia di italiani, mi piace stare con altri stranieri, con i quali abbiamo le stesse idee. Oltre tutto, la mia vita sta passando qua e continuerà qua, ma certamente non con una compagnia italiana. Mi sono trovata bene a dirvi queste cose. Grazie, giornale Apulia».
Se è vero che primi fra tutti, o insieme con tutti i primi, siamo stati popolo di emigranti; e se è vero che – diventati Paese di immigrazione – nella nostra società si verificherà una rivoluzione demografica – che ci sembra già in atto – e il futuro sarà sempre più multietnico, allora converrà riflettere su quanto ci raccontano questi ragazzi, eradicati come i nostri vecchi, quelli che in parte cercavano l’integrazione, in parte maggiore non riuscivano a rinunciare alla propria forte identità. Oltre alle frontiere, forse vale la pena di tutelare questi giovanissimi esuli volontari della fame. Perché, ricordava Le Corbusier, non si rivoluziona facendo rivoluzioni, ma presentando soluzioni).
La vicenda che ha segnato, forse più di ogni altra, la nostra storia, è quella degli emigranti: in centotrent’anni sono stati circa ventisette milioni, e altrettanti sono stati i loro discendenti nei vari Paesi del mondo. A conti fatti, messi insieme formano una popolazione quasi pari a quella residente attualmente in Italia.
Si navigava a lungo sulle carrette della “Navigazione Generale Italiana”, prima di giungere sui luoghi del dolore. Dagli oblò, in terza classe, ammucchiati come bestie, si vedeva scorrere il mare tutte le ore del giorno e della notte, prima di attraccare – ad esempio – a Ellis Island, alla famigerata Inspection line dove cominciava la via crucis delle visite mediche e degli interrogatori: – Qual è il tuo nome? Sei mai stato ricoverato in ospedale per infermità mentali? Sei mai stato in carcere? Appartieni a qualche gruppo anarchico? Possiedi almeno cinquanta dollari? Hai un lavoro che ti aspetta? –. Seguivano ventinove test, e guai a sbagliarne troppi, perché significava essere rispediti nel luogo d’origine.

Copertina di un opuscolo del Lloyd Sabaudo per i piroscafi della propria compagnia, 1931. - Archivio BPP
Copertina di un opuscolo del Lloyd Sabaudo per i piroscafi della propria compagnia, 1931. - Archivio BPP


Mentre non c’erano problemi del genere, ma soltanto la richiesta di una sana e robusta costituzione fisica, nell’isola di Gorée, di fronte a Dakar, nell’Africa occidentale: trecento metri per neanche un chilometro, dove un numero imprecisato, ma valutato in milioni e milioni di negri vennero ammucchiati per tre secoli, e destinati a un viaggio transatlantico nel Nuovo Mondo che li trasformava in schiavi. L’isola di Gorée chiuse la Maison des Esclaves nel 1848, e oggi è patrimonio dell’Unesco: vi giungono Capi di Stato e Grandi della Terra, tutti a giurare che mai più si ripeterà quella storia tragica e quasi rimossa, e torme di turisti che stentano a valicare il confine dell’indifferenza.
Ellis Island chiuse nel 1954, dopo che anche a ondate montanti, nel 1860, nel 1890, nel 1925, nel 1950, era stata raggiunta da piemontesi, veneti, friulani, che andavano a procurarsi il pane; ma anche dalle suore di Santa Maria Ausiliatrice, e dai “napoletani”, contadini e manovali generici indistintamente provenienti da tutte le regioni del Sud d’Italia, i tanos (come chiamavano, per abbreviazione, quelli che sbarcavano in Argentina). E poi quelli che il pane delle sette croste andavano a guadagnarselo fra la silicosi e i crolli stragisti delle miniere del Limburgo. Ed è storia di appena ieri, tant’è che l’ultimo struggente canto del repertorio migrante – “Non piangere oi bella, se devo partire... Partono gli emigranti, partono per l’Europa, guardati a vista dalla polizia... i deportati dalla borghesia” – di Alfredo Bandelli, è del 1974! È stato scritto: «Pensate com’è stato impercettibile il trapasso geografico del disprezzo “padano” dall’Italia meridionale all’Africa propriamente detta. Si gridava “Forza Etna!”. Oggi sentiamo riecheggiare gli stereotipi più demenziali contro gli immigrati dall’Est europeo e dal Sud del mondo». E intanto un giudice di Hannover, rimasto seduto nella storia, concede al condannato per violenza carnale le «attenuanti etniche e culturali», in quanto sardo!

Una cartolina edita dalla Navigazione Generale Italiana, con scena di vita a bordo degli emigranti. Fine Ottocento. - Archivio BPP
Una cartolina edita dalla Navigazione Generale Italiana, con scena di vita a bordo degli emigranti. Fine Ottocento. - Archivio BPP


(Dalla lettera di un valtellinese di 24 anni quasi alfabeta, datata 25 marzo 1912: «Carissimo padrino, qui a Newyorc questo gennaio a fatto un freddo terribile, che sembrava fosse la fine del mondo, era molto difficile potersi scaldare, in specie la notte. Io e la cugina Maria, in origine a questo freddo, abbiamo pensato di passare al Matrimonio, che così esendo in due nel letto si potrà riscaldarci più bene».
Dallo scritto di un pugliese ventitreenne, datato 25 maggio 1907: «Cara mia mamma, ho fatto un magro viaggio, mi anno trattenuto 27 giorni di mare, sempre patire la fame, quando siamo disbarcati dopo tre giorni di ferovia siamo rivati in losangelo...».
Tra il 1892 e il 1956 tre milioni di italiani – quasi tutti partiti da Genova e da Napoli – sbarcarono nell’isola a due miglia da New York. Tra tutte le malattie che gli italiani si portavano dietro, insieme con i loro stracci e con il sacco delle provviste, la Merica era terrorizzata dal tracoma, l’infezione agli occhi che degenerava in cecità: per questa ragione
gli emigranti dapprima venivano sottoposti alla prova della scala (chi indugiava a salire era già sospetto), poi, grazie a speciali ganci che sollevavano le palpebre, iniziava la visita oculistica. Se gli ispettori non erano del tutto convinti, era sufficiente una “X” sul braccio
per passare alla visita psico-attitudinale: poteva durare tre ore o tre giorni (in questo caso,
in cella). E dalla cella temporanea poteva rispondere alle ventinove domande con le quali si saggiava se un emigrante avrebbe potuto essere accolto negli Stati Uniti: Ellis Island era il collo di bottiglia dell’emigrazione italiana, da lì si partiva per tutte le destinazioni, da lì aveva inizio la fortuna o la disgrazia: a lungo andare, uno poteva farcela; un altro poteva diventare banchiere milionario, sulla pelle dei suoi stessi connazionali; un altro ancora invece poteva essere rispedito in Italia, con un vestito nuovo e con un mucchio di banconote verdi fruscianti nelle tasche, a girovagare per i paesi del Meridione raccontando «quanto è facile far fortuna nella Merica». Non era proprio vero, ma così sbarcavano il lunario (una percentuale per ogni persona convinta ad emigrare) i piazzisti degli “scafisti” della fine dell’Ottocento. Come in un’interminabile catena di Sant’Antonio, l’importante era che qualcuno ci credesse: per convinzione, per avventura, o per disperazione).
Ushuaia è ancora oggi la fin del mundo. In questa città glaciale c’era il famigerato penitenziario che accoglieva (si fa per dire!) i condannati per reati anche veniali, ma commessi praticamente da immigrati, soprattutto da immigrati italiani. C’era una ferrovia a scartamento ridotto, il piccolo treno portava i detenuti nelle foreste dell’estrema punta meridionale, dovevano buttar giù gli alberi e procurar legname per le città del nord.
Di fronte, il mare più grigio e malmostoso del mondo: a doppiare il Capo Horn ci provarono in molti, e prima che ci si riuscisse, fu cimitero di navi. Oltre ancora, il sesto
continente. Inutile fuggire dal penitenziario, dunque.

Una cartolina dal Paquebot “La Champagne”,
ottobre 1907, sulla linea Le Havre-New York.
Una cartolina dal Paquebot “La Champagne”, ottobre 1907, sulla linea Le Havre-New York.


Non c’era via di scampo. Mai i termini “fine del mondo” furono più realistici. Al di là di Ushuaia c’era soltanto un destino certo di morte. E, per colmo d’ironia, un’insolita tappa intermedia, segnata da un’osteria italiana, messa su all’inizio del secolo scorso da una famiglia di immigrati veneti e ancora oggi in attività. Non un’illusione ottica, dunque. Ma una concreta oasi fumante nel frastagliato deserto bianco delle ultime propaggini del continente latino-americano.
Emigranti italiani anche qui, in luoghi remoti dal clima temperato del Belpaese, dai mari multicolori, dalle piogge sciroccose, dalle primavere scandite dai voli dei trampolieri... E sono stati loro, in gran maggioranza, una volta chiusa questa orribile prigione, a dipingere
di colori freschi i muri e le casematte, le celle e gli uffici, e a sistemare i marciapiedi e la stessa linea ferroviaria, che ha ripreso a funzionare con un trenino – ora dal tran-tran quasi allegro – che porta verso le antiche foreste gruppi di chiassosi turisti. Sono cambiati
il colore del cielo e quello della terra.È mutata anche la direzione dei viaggi della speranza: ai nostri giorni si viene verso l’Italia, non più su bare galleggianti, come quelle che solcavano l’oceano all’epoca, con affondamenti mai resi noti, ma in aereo, e in poche ore, alla ricerca delle radici, e non solo di queste. Ma anche per ricordarci che non può esserci, neanche in tempi di globalizzazione, una replica di quell’infamia, cioè di quella storia che – orda dopo orda – portò oltre i confini dell’Italia muscoli e materia grigia in quantità incommensurabili. Anche se conoscenza e ricordo e odissee e ritorni possono metterci al riparo dall’indifferenza, ma non dalla ripetizione del male, a parti scambiate.

   
   
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