Dicembre 2008

FERNANDO MANNO

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LA SCRITTURA SEGRETA

Antonio Errico

 

 
 

 

 

La poesia se la tiene come un diario intimo e segreto, per dire della solitudine che cammina come un mostro per le strade della città, per stringere i suoi luoghi di dentro, per rispecchiarsi nella sera che passa fra i pensieri...

 

Nel settembre del 1956 uscì, a Roma, il primo numero di Terra d’Otranto, una rivista
mensile di lettere, scienze, arti, economia e turismo, diretta da Michele Trecca, che si apriva con un editoriale di Fernando Manno, intitolato “Il Genio Salentino”, nel quale lo scrittore individuava quelli che sono i caratteri essenziali della gente del Salento.
Oltre all’editoriale e ad una recensione di un libro di Mario Moscardino, Manno pubblicava due poesie, “Culla” e “Salento”. (Sulla rivista compaiono anche cinque poesie di Ennio Bonea). Non mi risulta che oltre a questi Fernando Manno abbia pubblicato altri testi di poesia.
Ora, dalla nuora, Carny Nilsson Manno, alla quale va un ringraziamento affettuoso, mi arrivano 25 poesie datate tra il 1940 e il 26 aprile 1959, trentacinque giorni prima della morte, scritte prevalentemente a Roma e a Venezia, ad eccezione di una, composta in Guatemala. Fogli sciolti, dattiloscritti, probabilmente battuti con un’Olivetti “Lettera 44”.
Alcuni di essi presentano due redazioni, con significative varianti; altri interventi manoscritti a matita.
Una scrittura al tempo stesso lirica ed essenziale. Una predilezione per i paesaggi, per i colori. Un lessico ricercato. Atmosfere rarefatte. Una tessitura stilistica straordinariamente
somigliante a quella di Secoli fra gli ulivi, il suo libro: l’unico libro. Forse – probabilmente – è stata questa somiglianza a distrarre Fernando Manno dal pubblicarle, a fargliele considerare come una scrittura parallela, come note a margine, chiose alle prose d’arte che pubblicava sui giornali e che poi in gran parte confluirono nel libro. (Su Fernando Manno vorrei segnalare il mio saggio “Storia di un libro. Secoli fra gli ulivi” apparso sul n. III/settembre 2007 di questa Rassegna).
Fernando Manno era un poeta che voleva scrivere in prosa. Le immagini, il lessico, lo sguardo sugli esseri e le cose di Secoli fra gli ulivi appartengono alla natura della poesia.
Alla poesia appartengono quelle rapidissime intuizioni di senso che tramano tutto il libro. Così ha sentito le poesie come scaglie che si staccavano da un corpo, da una dimensione
compatta e unitaria. Così le tenne nel cassetto.
Dal numero dei testi e dal loro dispiegarsi nel tempo di quasi vent’anni, si potrebbero avanzare due ipotesi: che Manno abbia scritto altre poesie che sono andati disperse oppure che abbia scritto soltanto queste. Da quel che ho potuto capire di questo scrittore in venticinque anni di frequentazione dell’opera e dal fatto di aver potuto vedere i suoi inediti in anni passati, opterei per la seconda ipotesi.
In primo luogo, perché Fernando Manno non era uomo da smarrire quello che scriveva; poi perché la sua famiglia ha sempre conservato le sue carte gelosamente.
Ma soprattutto perché il suo temperamento non gli avrebbe consentito di depositare una scrittura che lo avesse convinto.
Manno scriveva e pubblicava senza molta distanza di tempo. Spesso ritornava su testi già pubblicati, riformulava, come dimostra tutto il lavoro (e il lavorio) di riscrittura dei capitoli di Secoli fra gli ulivi, apparsi prima sui giornali. Se la sua scrittura di versi avesse avuto una maggiore frequenza, con molta probabilità avrebbe pubblicato.
Ma si diceva che la scrittura in prosa di Manno è istintivamente protesa alla poesia, di conseguenza diventa pressocchè inevitabile chiedersi per quale motivo non scrive e non pubblica versi, perché si impedisce questa forma di espressione perfettamente aderente al suo stile e alla sua formazione.
A volte ci sono psicologie profonde che l’io ha difficoltà a razionalizzare e che l’altro non può capire, intorno alle quali si può soltanto congetturare.

Le bugne a punta di diamante
di Palazzo Sangiovanni di Alessano (Lecce). - Nello Wrona
Le bugne a punta di diamante di Palazzo Sangiovanni di Alessano (Lecce). - Nello Wrona


Ma prima che nel marzo del 2008 mi arrivassero questi testi, tutte le volte che ho guardato e riguardato i suoi inediti, quando ho scoperto le due poesie su Terra d’Otranto, mi sono chiesto perché Manno non avesse avuto una produzione poetica più consistente. Me lo sono domandato molte volte, senza riuscire a darmi mai una risposta, ma ogni volta mi attraversava il pensiero il nome di Vittorio Bodini. Era un pensiero che arrivava e spariva. Un istante.
Questa volta, nel confronto con il gruppetto di poesie, il pensiero è durato più a lungo, ha formulato una sorta di motivazione, probabilmente fantasiosa, che comunque provo a proporre.
Nel 1952 Vittorio Bodini pubblica La luna dei Borboni e mette un punto fermo nel panorama poetico salentino.
Manno è un intellettuale che comprende immediatamente che con quella poesia chiunque avrebbe dovuto fare i conti e che avrebbe costituito per chiunque un elemento di confronto.
La sua scrittura in versi proviene dagli stessi territori tematici e semantici della poesia di Bodini. Ma in quei territori Bodini ha scavato più a fondo con più accanimento, più disperazione.
Manno sa che dopo La luna dei Borboni si deve dire qualcosa di diverso oppure si rischia
la marginalità della condizione di epigono. Allora rinuncia alla poesia come metodo privilegiato di indagine della terra e dell’esistere e scrive quella prosa che trova un equilibrio tra la tensione poetica e la forma narrativa.
Alcuni temi – il barocco salentino, spagnolo, romano, le icone, il Salento – saranno sciolti nelle prose.

La cima di un ulivo
secolare, in agro di Sternatia (Lecce). - Nello Wrona
La cima di un ulivo secolare, in agro di Sternatia (Lecce). - Nello Wrona


La poesia se la tiene come un diario intimo e segreto.
Per dire della solitudine che «cammina / come un mostro» per le strade della città. Per stringere in poche parole i suoi luoghi di dentro: il Salento, Roma, Venezia. Per rispecchiarsi nella sera che passa fra i pensieri«come la sabbia / fra le mani d’un bimbo».
Poi, ancora: per dire del cuore che «è una concava rada / di flutti / di cose remote», oppure del tempo che «è fatto / di fili sottili / appena tessuti / da dita lontane».
Nessuno potrà sapere mai se coloro che non ci sono sanno quello che fanno coloro che ci sono delle cose che li riguardano.
Ho riflettuto molto se fosse giusto o sbagliato pubblicare questi versi di Fernando Manno.
Con molta sincerità credo che se potesse sapere non sarebbe d’accordo. Se uno scrittore
decide di non consegnare agli altri le sue parole, lo fa sulla base di considerazioni complessive e particolari di natura testuale ed extratestuale.
Manno scelse , come si è detto, di pubblicare soltanto due delle 25 poesie. Però non escluderei con assoluta certezza che possa averne pubblicata anche un’altra. Una parola appuntata su uno dei fogli mi genera un sospetto che fino a questo momento non ha trovato riscontro.
Ho avuto molti dubbi, dunque, sull’opportunità di pubblicare gli inediti. Se poi mi sono convinto a proporne qualcuno – scegliendo, per ora, soltanto quelli che a me sono parsi più aderenti ai temi e allo stile di Secoli fra gli ulivi – è per il fatto che la riedizione per i tipi di Manni ha consentito a molti di scoprire e a qualcuno di riscoprire un libro che indubbiamente si pone come un riferimento essenziale per la letteratura del Salento e per l’immaginario collettivo che da cinquant’anni lo attraversa e lo connota.
Per vecchi e nuovi lettori di quel capolavoro forse questi testi potrebbero avere un certo
interesse. Ecco. È stato questo interesse a farmi da conforto nel dubbio e a motivare la pubblicazione.

Lampo
Il gondoliere
ha baciato
con una bestemmia
l’altalena
d’una gondola.

Passeggiata in campagna

Non so dove corrano
gli uliveti
lungo la grande strada
nera.
Vado per viottolo
di terra rossa
sanguigna,
maciullato dai sassi
e dalle buche.
Vecchi son gli anni
fra i riccioli dei rametti
e le muricce
grigie di licheni.
Un fasciame di tempi immobili
è l’aria.
E la trepida lucertola
che ansima
fra gli sterpi
e la pazienza
del pastore
dietro il rotolio del gregge
sono colmi
del tramonto
che sprofonda
nelle orbite cave
della notte campestre.

Roma 22 luglio 1954



Barocco di Spagna

Sulla palpebra trèmula
degli azulejos
dorme l’azzurro peccato.
Lenta, torrida, fastosa
è la memoria.
Furibondo è Dio
ora
nella cattedrale,
la fortezza dei salmi e della morte.
Le vetrate
segnano con stimmate viola
tenebre d’alabastro.
Arcobaleni di silenzio
vanno per le navate.
E i santi
tristi
del Greco
implorano alla Vergine
il perdono
per quell’eco di nacchere
nel crepuscolo Andaluso.

Roma, 24 marzo-4 aprile 1956


Barocco salentino

E fa di tutto il tempo
un’ora sola.
D’oro.
Santa Croce porta all’infinito,
ma come i sogni.
Zampillano dalla facciata
faville di gesti
e
un popolo di desideri
del lapicida
nell’estate incandescente
smarrito
tra la gioia e la pena
di vivere.
Inesorabile è anche
la stanchezza
dei mostri sonnacchiosi
sull’enigma del mondo.
Un’arnia di lucciole,
gli altari.
Un vagito di luce
azzurra
trema per petali opachi
dal rosone.
E il silenzio
fra le ronzanti pieghe
della preghiera
non urla ira di Dio
fra le navate.
Ma il fondo dei sensi
si segna
di dubbio
come la terra invernale
del solco del carro,
mentre per l’aria
va la porpora
del tramonto.
E fra la terra e il cielo
l’ombra s’incurva
come un ipogeo
di memorie.

Roma, 30 agosto 1956

Icone
Abitacoli di Angeli
sul tedio livido
delle muricce.
(E sopra il vento mastica i rametti
nell’ora trepida della pianura.)
Oh. Madonne tristissime
e Golgota strazianti.
Guardano il solco dei carri
e i secoli verdi
e la fatica
antica
dei tempi.
Strazia un’altra volta
l’intonaco scorticato
le carni di Cristo
e dentro l’abitacolo
guizza come un demonio
la lucertola bigia.
Un frutto dell’aria
e delle zolle e del sangue
è la fede,
come le rughe e i calli
e quegli occhi tristi
eterni
dei contadini
e l’ubbidienza dei buoi
sotto l’aratro.
E quando il giorno
si piega spento
sugli asfodeli,
la preghiera
spreme da cuori semplici
povere speranze
e desideri azzardosi,
mansueta e fidente
come il pane
e le parole campestri.
La preghiera povera
che mormora appena,
che congiunge le mani
come una lieve brezza
le spighe.
E va a Dio
Come nel solco d’un ruscello
la vita e la morte
d’un filo d’acqua.

Roma, 18-19 settembre 1956


   
   
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