La poesia
se la tiene come
un diario intimo
e segreto, per dire
della solitudine
che cammina
come un mostro
per le strade della
città, per stringere
i suoi luoghi di
dentro, per
rispecchiarsi nella
sera che passa
fra i pensieri... |
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Nel settembre del 1956 uscì, a Roma, il primo
numero di Terra d’Otranto, una rivista
mensile di lettere, scienze, arti, economia e
turismo, diretta da Michele Trecca, che si
apriva con un editoriale di Fernando Manno,
intitolato “Il Genio Salentino”, nel quale
lo scrittore individuava quelli che sono i
caratteri essenziali della gente del Salento.
Oltre all’editoriale e ad una recensione di
un libro di Mario Moscardino, Manno
pubblicava due poesie, “Culla” e “Salento”.
(Sulla rivista compaiono anche cinque poesie
di Ennio Bonea). Non mi risulta che oltre
a questi Fernando Manno abbia pubblicato
altri testi di poesia.
Ora, dalla nuora, Carny Nilsson Manno,
alla quale va un ringraziamento affettuoso,
mi arrivano 25 poesie datate tra il 1940 e il
26 aprile 1959, trentacinque giorni prima
della morte, scritte prevalentemente a Roma
e a Venezia, ad eccezione di una, composta
in Guatemala. Fogli sciolti, dattiloscritti,
probabilmente battuti con un’Olivetti “Lettera 44”.
Alcuni di essi presentano due redazioni, con
significative varianti; altri interventi manoscritti
a matita.
Una scrittura al tempo stesso lirica ed essenziale.
Una predilezione per i paesaggi,
per i colori. Un lessico ricercato. Atmosfere
rarefatte. Una tessitura stilistica straordinariamente
somigliante a quella di Secoli fra gli ulivi, il suo libro: l’unico libro. Forse –
probabilmente – è stata questa somiglianza
a distrarre Fernando Manno dal pubblicarle,
a fargliele considerare come una scrittura
parallela, come note a margine, chiose alle
prose d’arte che pubblicava sui giornali e
che poi in gran parte confluirono nel libro.
(Su Fernando Manno vorrei segnalare il
mio saggio “Storia di un libro. Secoli fra gli
ulivi” apparso sul n. III/settembre 2007 di
questa Rassegna).
Fernando Manno era un poeta che voleva
scrivere in prosa. Le immagini, il lessico, lo
sguardo sugli esseri e le cose di Secoli fra gli ulivi appartengono alla natura della poesia.
Alla poesia appartengono quelle rapidissime
intuizioni di senso che tramano tutto il
libro. Così ha sentito le poesie come scaglie
che si staccavano da un corpo, da una dimensione
compatta e unitaria. Così le tenne
nel cassetto.
Dal numero dei testi e dal loro dispiegarsi
nel tempo di quasi vent’anni, si potrebbero
avanzare due ipotesi: che Manno abbia
scritto altre poesie che sono andati disperse
oppure che abbia scritto soltanto queste.
Da quel che ho potuto capire di questo
scrittore in venticinque anni di frequentazione
dell’opera e dal fatto di aver potuto
vedere i suoi inediti in anni passati, opterei
per la seconda ipotesi.
In primo luogo, perché Fernando Manno
non era uomo da smarrire quello che scriveva;
poi perché la sua famiglia ha sempre
conservato le sue carte gelosamente.
Ma soprattutto perché il suo temperamento
non gli avrebbe consentito di depositare
una scrittura che lo avesse convinto.
Manno scriveva e pubblicava senza molta
distanza di tempo. Spesso ritornava su testi
già pubblicati, riformulava, come dimostra
tutto il lavoro (e il lavorio) di riscrittura dei
capitoli di Secoli fra gli ulivi, apparsi prima
sui giornali. Se la sua scrittura di versi avesse
avuto una maggiore frequenza, con molta
probabilità avrebbe pubblicato.
Ma si diceva che la scrittura in prosa di
Manno è istintivamente protesa alla poesia,
di conseguenza diventa pressocchè inevitabile
chiedersi per quale motivo non scrive e
non pubblica versi, perché si impedisce questa
forma di espressione perfettamente aderente
al suo stile e alla sua formazione.
A volte ci sono psicologie profonde che l’io
ha difficoltà a razionalizzare e che l’altro
non può capire, intorno alle quali si può
soltanto congetturare.
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Le bugne a punta di diamante
di Palazzo Sangiovanni di Alessano (Lecce). - Nello Wrona |
Ma prima che nel marzo del 2008 mi arrivassero
questi testi, tutte le volte che ho
guardato e riguardato i suoi inediti, quando
ho scoperto le due poesie su Terra d’Otranto,
mi sono chiesto perché Manno non
avesse avuto una produzione poetica più
consistente. Me lo sono domandato molte
volte, senza riuscire a darmi mai una risposta,
ma ogni volta mi attraversava il pensiero
il nome di Vittorio Bodini. Era un pensiero
che arrivava e spariva. Un istante.
Questa volta, nel confronto con il gruppetto
di poesie, il pensiero è durato più a lungo,
ha formulato una sorta di motivazione,
probabilmente fantasiosa, che comunque
provo a proporre.
Nel 1952 Vittorio Bodini pubblica La luna dei Borboni e mette un punto fermo nel panorama
poetico salentino.
Manno è un intellettuale che comprende
immediatamente che con quella poesia
chiunque avrebbe dovuto fare i conti e che
avrebbe costituito per chiunque un elemento
di confronto.
La sua scrittura in versi proviene dagli stessi
territori tematici e semantici della poesia
di Bodini. Ma in quei territori Bodini ha
scavato più a fondo con più accanimento,
più disperazione.
Manno sa che dopo La luna dei Borboni si
deve dire qualcosa di diverso oppure si rischia
la marginalità della condizione di epigono.
Allora rinuncia alla poesia come metodo
privilegiato di indagine della terra e
dell’esistere e scrive quella prosa che trova
un equilibrio tra la tensione poetica e la forma
narrativa.
Alcuni temi – il barocco salentino, spagnolo,
romano, le icone, il Salento – saranno
sciolti nelle prose.
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La cima di un ulivo
secolare, in agro di Sternatia (Lecce). - Nello Wrona |
La poesia se la tiene come un diario intimo
e segreto.
Per dire della solitudine che «cammina / come
un mostro» per le strade della città. Per
stringere in poche parole i suoi luoghi di
dentro: il Salento, Roma, Venezia. Per rispecchiarsi
nella sera che passa fra i pensieri«come la sabbia / fra le mani d’un bimbo».
Poi, ancora: per dire del cuore che «è una
concava rada / di flutti / di cose remote»,
oppure del tempo che «è fatto / di fili sottili
/ appena tessuti / da dita lontane».
Nessuno potrà sapere mai se coloro che non
ci sono sanno quello che fanno coloro che
ci sono delle cose che li riguardano.
Ho riflettuto molto se fosse giusto o sbagliato
pubblicare questi versi di Fernando
Manno.
Con molta sincerità credo che se potesse sapere
non sarebbe d’accordo. Se uno scrittore
decide di non consegnare agli altri le sue
parole, lo fa sulla base di considerazioni
complessive e particolari di natura testuale
ed extratestuale.
Manno scelse , come si è detto, di pubblicare
soltanto due delle 25 poesie. Però non
escluderei con assoluta certezza che possa
averne pubblicata anche un’altra. Una parola
appuntata su uno dei fogli mi genera
un sospetto che fino a questo momento non
ha trovato riscontro.
Ho avuto molti dubbi, dunque, sull’opportunità
di pubblicare gli inediti. Se poi mi
sono convinto a proporne qualcuno – scegliendo,
per ora, soltanto quelli che a me
sono parsi più aderenti ai temi e allo stile
di Secoli fra gli ulivi – è per il fatto che la
riedizione per i tipi di Manni ha consentito
a molti di scoprire e a qualcuno di riscoprire
un libro che indubbiamente si pone
come un riferimento essenziale per la letteratura
del Salento e per l’immaginario collettivo
che da cinquant’anni lo attraversa e
lo connota.
Per vecchi e nuovi lettori di quel capolavoro
forse questi testi potrebbero avere un certo
interesse. Ecco. È stato questo interesse a
farmi da conforto nel dubbio e a motivare
la pubblicazione.
Lampo
Il gondoliere
ha baciato
con una bestemmia
l’altalena
d’una gondola.
Passeggiata in campagna
Non so dove corrano
gli uliveti
lungo la grande strada
nera.
Vado per viottolo
di terra rossa
sanguigna,
maciullato dai sassi
e dalle buche.
Vecchi son gli anni
fra i riccioli dei rametti
e le muricce
grigie di licheni.
Un fasciame di tempi immobili
è l’aria.
E la trepida lucertola
che ansima
fra gli sterpi
e la pazienza
del pastore
dietro il rotolio del gregge
sono colmi
del tramonto
che sprofonda
nelle orbite cave
della notte campestre.
Roma 22 luglio 1954
Barocco di Spagna
Sulla palpebra trèmula
degli azulejos
dorme l’azzurro peccato.
Lenta, torrida, fastosa
è la memoria.
Furibondo è Dio
ora
nella cattedrale,
la fortezza dei salmi e della morte.
Le vetrate
segnano con stimmate viola
tenebre d’alabastro.
Arcobaleni di silenzio
vanno per le navate.
E i santi
tristi
del Greco
implorano alla Vergine
il perdono
per quell’eco di nacchere
nel crepuscolo Andaluso.
Roma, 24 marzo-4 aprile 1956
Barocco salentino
E fa di tutto il tempo
un’ora sola.
D’oro.
Santa Croce porta all’infinito,
ma come i sogni.
Zampillano dalla facciata
faville di gesti
e
un popolo di desideri
del lapicida
nell’estate incandescente
smarrito
tra la gioia e la pena
di vivere.
Inesorabile è anche
la stanchezza
dei mostri sonnacchiosi
sull’enigma del mondo.
Un’arnia di lucciole,
gli altari.
Un vagito di luce
azzurra
trema per petali opachi
dal rosone.
E il silenzio
fra le ronzanti pieghe
della preghiera
non urla ira di Dio
fra le navate.
Ma il fondo dei sensi
si segna
di dubbio
come la terra invernale
del solco del carro,
mentre per l’aria
va la porpora
del tramonto.
E fra la terra e il cielo
l’ombra s’incurva
come un ipogeo
di memorie.
Roma, 30 agosto 1956
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Icone
Abitacoli di Angeli
sul tedio livido
delle muricce.
(E sopra il vento mastica i rametti
nell’ora trepida della pianura.)
Oh. Madonne tristissime
e Golgota strazianti.
Guardano il solco dei carri
e i secoli verdi
e la fatica
antica
dei tempi.
Strazia un’altra volta
l’intonaco scorticato
le carni di Cristo
e dentro l’abitacolo
guizza come un demonio
la lucertola bigia.
Un frutto dell’aria
e delle zolle e del sangue
è la fede,
come le rughe e i calli
e quegli occhi tristi
eterni
dei contadini
e l’ubbidienza dei buoi
sotto l’aratro.
E quando il giorno
si piega spento
sugli asfodeli,
la preghiera
spreme da cuori semplici
povere speranze
e desideri azzardosi,
mansueta e fidente
come il pane
e le parole campestri.
La preghiera povera
che mormora appena,
che congiunge le mani
come una lieve brezza
le spighe.
E va a Dio
Come nel solco d’un ruscello
la vita e la morte
d’un filo d’acqua.
Roma, 18-19 settembre 1956 |
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