Dicembre 2008

 

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Le Giravolte

AA.VV.

 

 
 

 

 

 

Il nome di battesimo, quand'eri del clan, veniva accantonato; l'aea ci parificava in tutto: ragazzo popolano, svelto, furbo, coraggioso, fantasioso, incline a innocenti devianze...

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Lettere scambiate fra i due artisti nel giugno del 1975. Quella di Suppressa era stata spedita per prima, indica il mese ma è priva dell'indicazione del giorno. Quella con cui Greco risponde specifica che è stata scritta il 22 dello stesso mese.

 

Aea: un grido, un modello

Riscoperta di Lecce

Dalle strade e dalle piazzette di una Lecce proletaria, ancora in gran parte influenzatadalla cultura contadina che emanava dalla provincia, temperata però da gruppi di intellettuali di prim’ordine, Totò Vergari sarebbe passato poi in via Scipione Ammirati, trasformandosi nell’anima generante di quella Tribuna del Salento, voluta da Ennio Bonea, che avrebbe auscultato il polso politico, economico, sociale, culturale della regione, del Sud, e anche dell’Italia e dell’Europa, grazie al lavoro appassionato di un folto gruppo di giovani e meno giovani, di varia e anche differente formazione, che vissero una stagione di grande impegno in quell’area allora quanto mai geograficamente eccentrica.
Totò fu, per anni, in quel baricentro cresciuto e affermatosi spontaneamente, il prezioso
elemento aggregante, il punto di riferimento costante, in una parola il sestante che tutti
seppe coinvolgere e orientare con l’entusiasmo e l’incoscienza creativa propri della gioventù. A lui, poi passato a importanti responsabilità gestionali di una grande industria nazionale, dedichiamo – memori di quei tempi “eroici” e del sodalizio professionale che
profondamente ci legò – queste pagine, tratte dal suo testo Il tempo degli aea, edito daPensa multimedia, pubblicato nel 2004, e proprio in questi giorni ristampato. (a.b.)
Negli anni Quaranta del ‘900, quando l’organizzazione del tempo libero non era ancora un problema sociale, noi ragazzi, raggruppati in clan rionali a seconda dell’età, ci dedicavamo al gioco nell’unico luogo possibile: il largo più vicino a casa o, in mancanza, la strada.

Lecce: Balcone con cariatidi nei pressi di
Porta San Biagio. - Nello Wrona
Lecce: Balcone con cariatidi nei pressi di Porta San Biagio. - Nello Wrona


Era in voga, allora, un grido convenzionale: “aea”, lanciato nell’aria da chi, disponibile, chiedeva compagnia, il più delle volte per praticare uno dei tanti divertimenti conosciuti.
Un grido che il poeta leccese Vittorio Bodini menziona nella sua graffiante opera La luna dei Borboni: «… E il grido dei fanciulli “Aea” si perde / nelle vie / come per corridoi / d’un castello assediato».
“Aea”: un grido, dunque, un richiamo, un fonema abituale. Il nome di battesimo, quand’eri del clan, veniva – come dire – accantonato; l’ “aea” ci parificava in tutto perché lo richiedeva la sua stessa connotazione: ragazzo popolano, svelto, furbo, coraggioso, fantasioso, incline a innocenti devianze. Il ragazzo borghese difficilmente poteva far parte di un clan, mancava di almeno un requisito: l’essere popolano! In una società classista c’era incompatibilità… “linguistica” fra il dialetto dell’uno e l’italiano dell’altro. Mi pare di risentire la voce di “donna Sisina” quando redarguiva il figlio simpatizzante “aea”: «Non devi frequentare i ragazzi di strada! ». E mi fermo senza considerare.
Il grido nacque dall’esigenza di abbandonare l’abusato fischio modulato secondo convenzione quale forma di comunicazione rapida e sicura e il tentativo di collettivizzare
l’imitazione dell’urlo di Tarzan, l’uomo della foresta, che dotato di forza e coraggio non comuni e capace di inimmaginabili imprese, lo emetteva per richiamare i suoi “amici” animali sparsi nella foresta.

Gruppi scultorei in pietra leccese nel prospetto secondario del Duomo di Lecce. - Nello Wrona
Gruppi scultorei in pietra leccese nel prospetto secondario del Duomo di Lecce. - Nello Wrona


Tarzan era il nostro idolo, l’eroe da emulare, che ci ha fatto capire come il coraggio, la temerarietà sono nell’uomo, basta solo la consapevolezza di averli e noi, convinti di esserne dotati, ne davamo prova “scalando” cancelli in barre di ferro con punte lanceolate o arrampicandoci su muri di recinzione cosparsi sulla sommità di vetri taglienti, magari, per raccogliere frutti pendenti; oppure manifestavamo il nostro ardire afferrando furtivamente – quasi una sfida! – la bicicletta dell’erbivendolo ambulante, lasciata momentaneamente poggiata al muro, incustodita, e sfogavamo così la nostra sfrenata passione per la bici, pedalando, aggrappati precariamente al manubrio; o andando a “caccia” di lampadine centrandole con la “freccia” incuranti delle possibili conseguenze!
Tarzan era in noi, lo interpretavamo al meglio delle nostre possibilità. Il suo urlo doveva essere il nostro. Ci fu un periodo sperimentale nel quale serpeggiavano, per le vie di Lecce, strane urla rifacentesi a quello del nostro eroe, ma con risultati deludenti. A determinare l’iniziale insuccesso ritengo siano state le difficoltà incontrate dagli imitatori nel modulare gutturalmente e uniformemente l’urlo, ma anche, per altro verso,la non facile individuazione di chi lo emetteva, tramite la “lettura” del timbro di voce e del fraseggio eseguito.
I tentativi non furono abbandonati; qualcuno, eseguendo una modulazione dell’urlo meno articolata dell’originale, più piana, su una tonalità intermedia tra urlo e grido, emise un suono gutturale pronunciando in successione le vocali A, E, A, in quattro gradi della scala diatonica naturale, dando vita a quel verso musicale che pian piano fu adottato da tutti noi ragazzi e lanciato all’occorrenza, per poi perdersi «... nelle vie / come per corridoi / d’un castello assediato».

Un caratteristico scorcio di Lecce,
luogo bodiniano. - Bowman77
Un caratteristico scorcio di Lecce, luogo bodiniano. - Bowman77


Una volta emesso quel verso, si verificava la puntuale convergenza degli “aea” nel luogo convenzionale pronti a consumare nel gioco le ore di libertà il più delle volte rubate al guardianato della mamma o di qualche familiare. In breve tempo il luogo diventava palestra, teatro, spesso bolgia per la litigiosità degli “aea” che infastidiva se non irritava gli abitanti quando l’esuberanza superava i limiti della benevola e comprensiva tolleranza.
Attingo ai miei ricordi abbozzati in versi dialettali molti decenni or sono:

Ci Tarzana chiamàa ntra la furesta
l’amici soi squartanduse la uce
e quiddi rriàanu cu le signe ntesta
currendu comu ci mpauratu fusce,

lu schiddu nesciu “Aea” menatu a ientu
facia te calamita e de le case
teràa l’amici ca ‘ntru nnu mumentu
rriàanu comu l’aceddi a lle cerase!

Lu largu paria chinu ‘ssia te piche
cu l’ecchi luccicanti comu stidde;
ci scia musciandu cuezzi, ci lessiche,
segni te tante llotte, de frascidde...

Sulu ci quarche “aea” tenia nnu rancu
ni rreggettàamu subbr’a nnu scalune
e ci sapia culacchi... tenia bancu,

ma ci ncignàa lo scecu nc’era fera
e se bbinchiàa la gente cu nni rita:
– “Stati cuieti, sciati cchiù dda mmera! –.


Se Tarzan chiamava nella foresta / gli amici
suoi sgolandosi / e quelli arrivavano con le
scimmia in testa / correndo come chi fugge spaventato, / il nostro grido “aea” gettato al
vento / era come calamita e dalle case / attirava gli amici che in un momento / giungevano come gli uccelli alle ciliege! / Il largo sembrava pieno di gazze / con gli occhi luccicanti come stelle; / chi mostrava bernoccoli, chi vescicole, / segni di molte lotte... di focosità. / Solo se qualche amico aveva un crampo (impedimento) / ci acquietavamo su un gradino / e chi conosceva fatti fantasiosi li raccontava, / ma se cominciava il gioco c’era chiasso, / nonostante i ripetuti rimproveri degli abitanti: / “State quieti, spostatevi più in là!”.

Un caratteristico scorcio di Lecce,
luogo bodiniano. - Bowman77
Uno dei mostri fantastici che impreziosiscono il prospetto
della Basilica di Santa Croce di Lecce

Da adulto ho rivolto spesso lo sguardo al passato, senza nostalgia, ma con tenerezza
per come noi ragazzi abbiamo affrontato la vita degli anni Quaranta, quelli della nostra
crescita e formazione, vissuti tra i tanti disagi della lunga guerra. Una vita, comunque
ricca, di privazioni ma anche di solidarietà, vincolo ben radicato nelle comunità popolane nonché praticato e predicato affinché noi ragazzi ne comprendessimo il valore. Se no, come spiegare l’affissione, sul vetro della porta di casa, di un mezzo foglio di carta bianca, listato di nero, con al centro la scritta tipografica “Lutto di amicizia” o “Lutto di rispetto”, ogni qualvolta decedeva un componente della comunità rionale?
Noi “aea” conoscevamo la solidarietà e la praticavamo anche nel gioco; quel vincolo è
cresciuto con noi ed oggi è dentro di noi, libero da condizionamenti e limiti rionali...
La prima volta che fui chiamato “aea” da parte del capurione che conoscevo solo di
vista, fu in un pomeriggio d’estate: ero appena uscito da casa con l’incarico di comprare del ghiaccio, quando sentii alle mie spalle una voce:
– Aea, addu sta bbai?
– Sta bba ccattu lu jacciu, risposi. Uei ‘bbieni ? Sciamu!, soggiunse e avvinghiatomi
col braccio al collo, ci recammo a llu Falconieri, venditore di latte, bibite, ghiaccio,
banane, con esercizio dirimpetto alla chiesa di San Giuseppe.
Al ritorno scheggiammo il pezzo di ghiaccio con una pietra te fricciu e con un tocchetto in bocca di quel liquido solido, tenemmo a battesimo, avvinghiati – questa volta – entrambi col braccio al collo, l’amicizia appena nata.

totò vergari

 

Uno spicchio d'asfalto, un pezzo di cielo

L'inedito. Due lettere Suppressa-Greco

Caro Greco, finalmente ho potuto finire di leggermi la tua monografia e scriverti per dirti grazie ed esprimerti qualche considerazione, anche se non richiesta; ma certo desideroso di conoscerla, non fosse che per mera curiosità.
Premesso che io non sono un critico d’arte e men che mai filosofo di essa arte (oggi è tempo di filosofi) posso però dirti molto semplicemente che la vostra azione, di voi operatori agisce su di me in modo convincente e commovente.
Mi pare esatto parlare di commozione, che non sia errato perché nel vostro fare io trovo soprattutto autentica umiltà; voi cercate un rapporto tra quello che fa l’Uomo e la cultura in senso totale. Non siete esornativi nel significato di vanità ma con la volontà di demistificare la maniera aulica del rapporto artistico di un tempo. Le scelte che fate, l’intervento sulla Natura e per la Natura hanno secondo me un duplice motivo di importanza: una è di ordine di pratica utilità, di denunzia, di richiamo; l’altra (quasi sempre) umilmente poetica.
Porre fiori finti sull’asfalto; ornare di colore le cave; indicare il cielo sfregiato dai segni che lasciano i jet; imbottigliare aria pura o inquinata... sono posizioni utilissime oggi più di quanto non lo sia la Gioconda, esse servono sul piano pratico e servono come nuovi strumenti di una poesia non sempre assente nelle situazioni di denuncia.
Ma... per me, per i miei limiti (altra educazione, altra esperienza, altra generazione), rimane
del vostro operare una insoddisfazione forse dovuta a un involontario egoismo... perché, certo,“L’Arte è ciò che facciamo noi”. Ma noi chi? il politico, il pubblicitario, il sociologo, l’attore, il chimico, lo scienziato, lo scopritore?... no!
Torno a dire: gesti, comportamenti, progetti, indagini... tutte belle cose e utilissime; degne di attenzione acuta e a volte ricche di poesia forse crepuscolare, forse esaltante, forse disperata e disperante, ma come dire?... almeno per la mia insufficienza, come mancanti di quel possesso, di quella verifica, per lo più affidata al documento fotografico che le rende effimere, di vita stenta, che ne sbiadisce quella forza d’urto che come ho detto (è questo che mi preme affermare) è anche originale nuova poesia; io la sento sbiadire in cronaca la vostra fatica quando invece è... ecc. ecc. Questo è il mio rimpianto.
Tranciatemi un pezzo di cielo con i segni dello sfregio e datemelo; uno spicchio di asfalto, di sabbia, ornato di fiori e datemelo; e così un pezzo di roccia divenuta metafisica per averla l’Uomo guardata con gli occhi della creazione, e l’acqua pura e inquinata sulle quali vi siete ripiegati con gratitudine e smarrimento... datemi tutto con la stessa poesia; giusto: come un quadro o una scultura da tenere in camera, con la stessa sensazione di possesso, di geloso possesso ma proprio per questo con un valore d’assoluto che li farà sconfinare perennemente nel regno della fantasia. Ti ho scocciato? Ben per questo ti ci ho messo una premessa che chiariva i miei limiti. Auguri di cuore a te e a Corrado per il vostro lavoro e con vera stima ti saluto con affetto,

tuo Lino P. Suppressa


 

Lino P. Suppressa,“Domenica pomeriggio alle Scalze”, 1957. - Courtesy Biblioteca Provinciale di Lecce
Lino P. Suppressa,“Domenica pomeriggio alle Scalze”, 1957. - Courtesy Biblioteca Provinciale di Lecce



 

 

 

 

 

 

 

Caro Lino,
le necessità fondamentali e primarie sono mangiare, cacare e fare all’amore e poiché l’uomo non si accontenta di queste cose ecco la politica, la filosofia, l’arte, la scienza.
La vita è elasticità e l’uomo vivendo si porta con sé tutte le variabili inerenti alla politica, alla scienza, all’arte e alla filosofia e da queste, naturalmente, è influenzato.
Dico naturalmente perché è un processo naturale, cioè un processo irreversibile e come tale non può fare il percorso già fatto.
Quindi per ogni movimento artistico c’è alla base una variabile filosofica.
Il Dewey, il Wittgenstein e la filosofia dell’Ayer hanno influenzato le ultime tendenze dell’arte d’oggi.
Il nostro fare artistico non è un fare complesso ma è impegnato con la contingenza, cioè tende all’essenzialità informazionale proprio con umiltà, come tu dici.
È un ritorno al Medio-Evo tecnicamente e poeticamente denunciando alcune situazioni senza urlare.
Per quanto riguarda i mezzi e non avendo la forza di tranciare un pezzetto di cielo o di roccia ci si affida alla foto.
Meno male che c’è la foto, se no sarebbe veramente un “fare” solipsistico.
Verrò a trovarti, se ti farà piacere, non appena mi sarà possibile, così converseremo un po’.
Grazie di tutto.
Per avermi scritto. Per la foto che serberò come un caro ricordo.
Con affetto e una fraterna stretta di mano.

Sandro

   
   
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