Pansindacalismo.
Contratti uguali
per tutti, nel
pubblico impiego
soprattutto,
ma stipendi
da fame al Nord e
richieste in massa
di trasferimenti
al Sud. |
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Sparare sulla Croce Rossa non è mai una
cosa buona, ma certamente l’immobilità e
la polverosità dei nostri sistemi statistici sono
sotto gli occhi di tutti. Lo si deduce, fra
l’altro, da un progetto di ricerca, finanziato
con denaro pubblico, sulla costruzione e
sull’analisi del Prodotto interno lordo a livello
comunale. Sommerso, inflazione e
adesso anche il federalismo fiscale: tutti si
lamentano della mancanza di dati precisi su
questi problemi che angustiano il cittadino
e ne inquinano il rapporto con lo Stato. E
tutti sparano ad alzo zero contro l’Istat.
L’Istituto di statistica in Italia (in compagnia,
a dir la verità, di molti altri sistemi
statistici europei) è ancorato al vecchio modo
di rilevare dati per lo Stato centrale.
Nella trabeazione dell’aula magna del palazzo
Istat di Roma troneggia un’enorme
scritta: “In numerum fondamentum rei publicae”.
Principio sacrosanto, ma il fatto è
che con il nuovo assetto costituzionale italiano
che va verso il federalismo occorre
mettere sullo stesso piano di analisi anche il
territorio regionale e quello comunale.
È vero che l’Istat produce anche dati territoriali,
ma ricordiamo subito che nel momento
in cui crolla la finanza mondiale, noi
disponiamo dei dati di valore aggiunto per
provincia e per sistemi locali del lavoro
(una sorta di distretto di Comuni limitrofi)
solo fino al 2005! Per non dire che questi
dati sono costruiti come derivati dalle informazioni
nazionali. E questo è un punto cruciale:
i dati territoriali sono elaborati dopo
la costruzione del dato nazionale, come un
sottoprodotto. Questo significa che l’apparato
di rilevazione – potremmo dire la significatività
del sondaggio – funziona soltanto
a livello nazionale, e quindi la conoscenza
del dato non è garantita a livello locale.
Chiariamo. Nel preparare un campione per
la rilevazione di un fenomeno, diciamo i
consumi alimentari delle famiglie, viene stabilito
che devono essere estratti a sorte (cioè
in maniera casuale), per esempio, dieci Comuni
fra i 10 e i 20 mila abitanti, e in ciascun
Comune si fanno 500 interviste. Si totalizzano
in questo modo i 5.000 questionari
che sono rappresentativi del fenomeno a
livello nazionale. Ma è chiaro anche ai non
addetti ai lavori che quei dieci Comuni scelti
a caso non potranno mai essere rappresentativi
dei consumi a livello regionale, per
la semplice ragione che in Italia ci sono 20
Regioni, dunque ci sono più Regioni che
Comuni estratti. Servono allora metodi di
elaborazione successivi, con i quali si tenta
di colmare la mancanza originale di dati,
anche utilizzando indicatori indiretti per ricostruire ex post le informazioni a livello
territoriale. Ecco le ragioni dell’eccessivo ritardo:
e si ha il diritto di chiedersi a cosa
serva, attualmente, per metter su una legge
finanziaria per l’immediato futuro, sapere
come unica base di riferimento gli andamenti
dell’anno di grazia 2005! Neanche
sulla rappresentazione dell’inflazione riusciamo
ad essere accurati e tempestivi. A parte il problema del paniere, che può essere
scientificamente valido, ma sempre a livello
nazionale, c’è un problema diverso che
abbiamo nascosto sotto il tappeto da troppo
tempo. È il problema delle differenze
territoriali dei prezzi, e specialmente dei servizi.
Partiamo dal dato che tutti conoscono:
un hamburger da McDonald’s ha un costo
uguale in tutto il mondo (aggiustato per il
tasso di cambio locale) e i grandi economisti
del Fondo monetario internazionale e
della Banca centrale europea amano citare
questo fatto a riprova della globalizzazione.
Tuttavia, un taglio di capelli da uomo al
centro di Milano costa 40 euro, al centro di
Roma 25 euro, in provincia di Lecce al
massimo 10 o 12 euro. Ebbene, l’Istat sarebbe
attrezzato per rilevare le variazioni
nel tempo di tutti e tre i prezzi, ma non per misurare le differenze del costo della vita
nel territorio, che poi è il dato cruciale.
Come mai?
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Facchino della Serenissima. Un “mozo de cuerda”, a Venezia, in una stampa del Seicento. |
Le ragioni nascono da lontano: quando
le spinte sindacali premettero per abolire le
cosiddette “gabbie salariali” (siamo nel
1968), fu ritenuto politically correct anche
smettere di misurare il fenomeno. C’è poi
chi dice che sia difficile misurare le differenze
di costo della vita tra territori diversi.
Ma si tratta di una certa scuola statisticoeconomica che altri considerano ipocrita,
perché da una parte afferma una cosa, ma
subito dopo accetta invece la misurazione
della povertà. Secondo questi ultimi, dobbiamo
capire che la misurazione del costo
della vita per un “povero”, diverso da quello
per un “ricco”, è la stessa cosa che costruire
il costo della vita per un “milanese”
diverso da quello per un “romano” o un“leccese”. Quindi, è la cultura del pansindacalismo degli anni Settanta che ha distrutto
la conoscenza delle differenze territoriali. E
i risultati li conosciamo: contratti uguali per
tutti, soprattutto nel pubblico impiego, ma
stipendi da fame (per via del costo della vita
e dei servizi) al Nord, e richieste in massa di
trasferimenti al Sud.
Ci si chiede: che cosa c’entrano le statistiche
territoriali con il problema dell’economia
sommersa che non emerge? Spiegato in maniera
schematica ma chiara: non c’è niente
di “sommerso” nel sistema di fatturazione
di una grande o grandissima impresa, mentre
ci sono molte probabilità di trovarlo nelle
attività stagionali, per esempio in quelle
del turismo sulle belle spiagge di tutta l’Italia,
peninsulare e insulare. In effetti, i dati
Istat (fermi al 2006!) propongono una stima
del lavoro irregolare (connesso al sommerso)
nell’industria pari al 3,7 per cento, e nel
commercio e nei pubblici esercizi pari al
18,9 per cento. Ebbene, la tesi prevalente è
che il sommerso è concentrato nelle attività
che sono locali e connesse al territorio, assai
meno che in quelle riferibili alle attività nazionali
e internazionali. Sicché ancora una
volta emerge la necessità di un ripensamento
generale della produzione statistica, per
arrivare vicino al territorio.
Ma per snidare il sommerso, che fare? Certo,
non si può chiedere quanto lavoro irregolare
abbia un cittadino, perché la verità
non la si otterrebbe in nessun caso. In alternativa,
occorre impostare un sistema di rilevazione
a livello micro-territoriale, ad esempio,
sugli utilizzi degli ospedali e delle cliniche,
delle scuole pubbliche e private, sulle
proprietà, sulle vacanze, anche a costo di limitare,
ai fini del bene pubblico, la privacy.
Solo in questo modo ci potremo riappropriare
della conoscenza del nostro Paese.
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