Bisogna tener
conto dei vivi
e dei morti,
delle bestemmie
e delle preghiere,
dei bordelli e dei
luoghi di pena,
delle sue miserie
e dei suoi riscatti,
degli angeli
che la proteggono
e dei demoni
che la insidiano.
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Nell’epilogo de L’artefice, Jorge Luis Borges
racconta di un uomo che si propone il
compito di disegnare il mondo. «Trascorrendo
gli anni, popola uno spazio con immagini
di province, di regni, di montagne,
di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore,
di strumenti, di astri, di cavalli e di persone.
Poco prima di morire, scopre che quel paziente
labirinto di linee traccia l’immagine
del suo volto».
I luoghi sono passioni a volte raccontate
con parole o con linee o con grumi di colore.
Si racconta il passo di avvicinamento ad
essi, la ricerca di una possibile prossimità,
gli enigmi che custodiscono, i disincanti che
rivelano, la materia da cui hanno origine e
che ne raccoglie la fine.
Un luogo è apparizione e scomparsa, in un
solo tempo. È l’epifania e l’occultamento
dello stesso senso di esistenza e di appartenenza. È coincidenza di forma e di sostanza,
voce, eco, bellezza e somiglianza, il corpo
e l’ombra, memoria e smemoranza. È risonanza
di un sentimento o di una percezione
di finitudine e d’infinito che non si sviluppano
in contrasto, ma coesistono in una
dimensione del visibile che si fa espressione
anche dell’invisibile o dell’irrappresentabile.
Raccontare un luogo significa andare al di
là della figura, fino al punto in cui si sprigiona
l’energia di un abbaglio, dove monta
un’onda, dove l’eterno e il transeunte si ritrovano
e si confondono. Il racconto di un
luogo è sospensione del tempo, riverbero
della memoria o fantasticheria, figurazione
che combina reale e immaginario, sguardo e
ricordo. Allora un luogo si fa ritmo, movimento,
pulsazione, parola, silenzio, respiro:
comunque linguaggio.
Il racconto di un luogo è sempre una mediazione
tra quello che si incontra e quello
che si vorrebbe incontrare, tra una condizione
di realtà e una di attesa, tra una risposta
che viene dalle immagini e quella che si
vorrebbe scoprire oltre le immagini, dentro
di esse.
Ecco, allora: andare oltre le immagini, dentro
di esse; scavare, disarticolare, scomporre
per cercare quelle risposte che sono oltre,
che sono dentro, e poi riarticolare, ricomporre,
ricoprire lo scavo, perché si è trovato
il senso di quel luogo, di quella terra: che è
il solito senso che si ripresenta sotto forme
diverse, con sembianze cangianti. Un senso
semplice. Semplicemente essenziale. L’essenzialità
dell’ambivalenza: armonia e disarmonia,
il contrario e l’uguale, il niente e
il tutto, il buio e la luce, il vero e il falso, la
vanità e la sapienza. La vita e la morte.
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Daniele Girasoli |
C’è sempre una differenza – lo scarto di un
ricordo, la nostalgia per una distanza, una
condizione di separazione, la sfumatura per
il tempo che passa, l’offuscamento dell’orizzonte – tra la realtà di un luogo e la nostra
idea di quel luogo, tra la sua sostanza concreta
e la nostra memoria fluttuante, tra il nostro desiderio di consegnarlo ad una figurazione immutabile e il suo trasformarsi
continuo, la sua mutazione incessante.
Un luogo si presenta a noi come una creatura:
sempre, anche se impercettibilmente.
Si presenta con quella fisionomia che per
noi costituisce la sua identità; pretende di
essere quello che in realtà è: configurazione
di uno spazio. Non paesaggio interiore, elaborazione
del sentimento, proiezione dell’emozione.
Ma pietra, bosco, caverna, grattacielo,
vicolo, autostrada. Nient’altro.
Ancora: un luogo dice che c’era prima che
noi ci fossimo e che ci sarà anche quando
noi non ci saremo più. Cambierà. Diventerà
un altro luogo rispetto a quello che è.
Allora tra un uomo e un luogo comincia la
sfida: tra le parole e un tramonto, tra il colore
e un intrico di rovi, tra la screpolatura di
un muro e lo sguardo di una fotografia. Noi
non ci rassegniamo che possa essere soltanto
quello che è; vogliamo – pretendiamo – che
sia fatto a nostra immagine e somiglianza.
Un luogo si consegna a noi con tutto il suo
tempo, con le sue stratificazioni e gli intrecci
di relazioni, con la sua appartenenza plurale,
il suo essere di tutti. Un luogo ci guarda
passare. Impassibile. Siamo comunque
forestieri e sconosciuti. Siamo come chiunque
altro che sia passato da lì, per caso, o
che vi abbia abitato una vita, in un passato
prossimo o remoto. Siamo come chiunque
altro che vi passerà, che lo abiterà, in un futuro
immediato o lontano.
Noi invece vorremmo che fosse nostro soltanto.
Lo vorremmo per appartenenza
esclusiva, essenziale. Vorremmo che solo a
noi fossero concessi i suoi colori, il suo orizzonte,
la sua polvere, la luce, il buiore. Che
solo per noi fosse possibile afferrare l’irripetibilità
di quell’istante.
Vorremmo poter essere soltanto noi a ricordare,
a dialogare con le ombre, ad ascoltare
i silenzi, a interrogare le pietre, ad insinuarci
nelle sue storie per prenderne il senso, il
lievito, la sostanza. Vorremmo essere solo
noi ad avere nostalgia.
Di un luogo siamo gelosi come lo siamo di
chi amiamo. Così tentiamo di farci dare in dono l’anima. Oppure di rubargliela. Ma
chiediamo in dono, o rubiamo, quella condizione
che non sappiamo bene cosa sia,
che, come dice James Hillman ne L’animadei luoghi, sfugge a ogni definizione: «Le
sue definizioni, come i tentativi di trovarla,
non hanno mai avuto successo».
A volte l’anima di un luogo è costretta a
darsi alla fuga, o a morire. L’anima scappa «dal chiasso, dalla sfacciataggine, dalla violenza,
dalla mancanza di misura, dall’enormità,
dalla purezza, dal minimalismo». L’anima
muore quando non ci sono più parole
per raccontare il desiderio ansioso di cercarla
o la sapiente pazienza di aspettarla.«Qui s’era fatto il mio volto», scrive Vittorio
Bodini. Qui: «dove ogni casa, ogni attimo
del passato / somiglia a quei terribili
polsi di morti / che ogni volta rispuntano
dalle zolle».
Un volto che si fa è una condizione della
crescita, della maturazione, del confronto
con l’altro che abita un luogo, con i suoi innumerevoli
volti, con la loro freschezza di
gioventù, poi con le rughe che segnano le
stagioni che vengono e che vanno. Il volto
si fa con i segni del sole sulla pelle, con le
venature della tristezza, con le occhiaie scavate
dall’insonnia, con i pensieri che lasciano
un alone incancellabile di malinconia,
con quelle parole – in qualche caso poche –
che costituiscono il lessico interiore, con la
bellezza generata dall’amore.
Così il volto è la combinazione, spesso indecifrabile,
di affettività e di storia, l’esito di
una reciprocità a volte inconscia; è un radicamento
nella materia antropologica, una
mappa dell’esistenza.
Allora chi scrive di un luogo che gli appartiene
si confronta con questo sentimento
dell’appartenenza, anche se il gesto della
scrittura si compie in una situazione di lontananza.
Forse anche di più, quando è nella
lontananza. Perché la lontananza attiva un
processo di distacco dallo spazio fisico per
una espansione dello spazio memoriale.
La memoria essenzializza: individua quelle
immagini che hanno una più consistente
stratificazione di senso, circoscrive i tempi –
a volte istanti – che rappresentano i nodi
dell’esistere, definisce nel pensiero quelle figure
del reale e dell’immaginario che hanno
fatto l’essere com’è alla sua età e che ne condizioneranno
il passaggio verso età ulteriori.
Colui che scrive una terra spesso deve scavare,
anche se può accadere che si ritrovi a
dover scavare in un’ellisse d’aria, come diceva
Vittorio Pagano.
Talvolta deve anche disseppellire. Perché
spesso il suo volto rassomiglia a quello dei
morti: a quello degli antenati che gli hanno
lasciato in eredità nient’altro che una fiaba
da raccontare, da ripetere all’infinito a
qualcuno che può essere anche solo il proprio
sé davanti allo specchio del presente, a
qualcosa che può essere la propria nostalgia
o la propria coscienza. Quando è così, il
tempo della terra ha tutta la pesantezza della
Storia oppure la leggerezza di una parola
di poesia.
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Maria Ada Pisa |
Quando è così, colui che scrive una terra
avverte l’attrazione provocata dalla seduzione
dell’origine e il turbamento per la scoperta
di quel lievito antropologico che il
passaggio e il mutamento dell’età a volte
hanno rimosso oppure hanno occultato.
Ancora Vittorio Pagano: «Ai grassi fichidindia,
ai magri fichi / la campagna dà un
cuore per concime / – ed è il mio cuore».
Ricercare quel cuore, ritrovarlo, in qualche
caso forse ricomporlo, restituirgli forma e
pulsazione: forse chi scrive una terra ha
questa cosciente o incosciente ambizione:
riappropriarsi di quello che ha dato ad essa
per poi consegnarglielo di nuovo, dopo aver
riconosciuto che non c’è stata cancellazione,
dopo essersi accertato di vivere ancora
in quella terra, come un altro elemento
qualsiasi, una pianta qualsiasi, forse anche
una pietra.
Chi scrive una terra deve riconoscersi: riconoscere
il sé che si è conformato nel passaggio
delle stagioni, identificarsi in un paese
originario che ha, ad un tempo, la fascinazione
di un dove e di un altrove, che genera,
quasi simultaneamente, un movimento di fuga
e uno di ritorno che molto spesso costituiscono
il motivo o il movente del racconto.
Per scrivere una terra occorre muovere costantemente
lo sguardo dal proprio esistere
fisico, storico, emozionale, a quello del luogo
reale o immaginato, alla sua storia, alle
sue leggende, alle sue espressioni visibili e a
quelle che appartengono alla lontananza,
all’anteriorità, alla sua physis e alla sua poesia,
alle sue figure e alle ombre che da queste
si staccano, si slargano, si spandono.
Bisogna tener conto dei vivi e dei morti,
delle bestemmie e delle preghiere che l’hanno
attraversata e l’attraversano, dei bordelli
e dei luoghi di pena, delle sue miserie e dei
suoi riscatti, degli angeli che la proteggono
e dei demoni che la insidiano.
Bisogna tener conto dei suoi miti, sontuosi
o poveri che siano, perché in modo esplicito
o implicito elaborano le forme del pensiero.
La scrittura di una terra si fonda – frequentemente – sul senso determinato dai contrasti:
un sentimento o una condizione di contiguità
e di frattura; il rifiuto del presente e
l’attrazione del passato; il confronto con la
concretezza e il desiderio di indeterminato,
di irrazionale, di magico.
C’è sempre una malinconia nella scoperta
della rassomiglianza tra il proprio volto e
quello della terra, che a volte è impercettibile,
che a volte invece affiora prepotentemente
dalle profondità dell’antropologia,
oppure viene portata alla riva della coscienza
dalla marea di un immaginario senza
tempo, da una mescolanza secolare di ragioni
e di passioni.
Il volto di Antonio Galateo disegnato da
Antonio Verri nel suo Fabbricante di armonia ha tutti i tratti di una malinconia leggera,
triste, pacata, così tenera e saggia da trasformarsi
in distacco da sé, in trasognata alterità:
«In questo posto, io posso guardarmi
quasi come fossi un altro».
Nell’altro che gli appare come una figura
proveniente dalla lontananza, Antonio Galateo
trova la propria autentica identità,una precisa fisionomia esistenziale, un’appartenenza
che sente sulla pelle, un «improvviso
fremito» che gli riempie il sangue.
Poi tutto il tempo della terra gli cola addosso
come la luce di un tramonto: l’abitudine
della vita che si srotola lenta, il respiro della
gente, le malattie immaginarie, i racconti, i
sogni, le dicerie sui fantasmi, i folletti, i furori,
la tiritera delle giornate. L’idea dell’infinito
sembra prendere forma concreta, farsi
cosa visibile nell’aria, come una nuvola,
un lampo, il volo dei gabbiani, si manifesta
nell’andatura del mare che diventa misura
perfetta del ciclo della vita.
La scoperta di questa compenetrazione con
la terra è una sensazione che “sventra”,
“svuota”, fa girare il sangue nella testa. Il
processo di riconoscimento e di rispecchiamento
trova la sua condizione in uno sbalordimento,
in un abbandono totale; la
comprensione del proprio essere nel mondo
e per il mondo che coincide esattamente con
il luogo dell’origine, della provenienza, può
avvenire solo per amore.
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Non con l’arte, la
ragione, la medicina.
Solo per amore.
Scrivere un luogo. Scrivere un sé. Un luogo
rispetto all’umano di cui il sé è pulviscolo
inconsistente. Un sé rispetto all’universo di
cui il luogo è sintesi e sineddoche. Scrivere
un luogo come può farlo chi lo ha abitato
ininterrottamente, oppure come un forestiero
disorientato, sperduto.
Scrivere la relazione tra il luogo e l’esistenza,
allora. Nel loro generarsi, dispiegarsi,
evolversi,
intrecciarsi, risolversi.
Scriverlo
nelle sue forme
vive e in quelle
morte; scrivere il radicamento e lo spaesamento – se accade, quando accade –, l’esperienza
del tempo, del linguaggio, della
presenza e dell’assenza, della superfluità e
dell’essenza. Scrivere quel volto che è maturato
con il divenire degli anni, quel senso
del destino custodito forse tra le pietre di
un muretto a secco, scrivere l’allontanamento
e il ritorno che hanno avuto la stessa
sobria malinconia.
Scrivere il luogo cercando il senso e la passione
che annodano un’esistenza. Perché,
come diceva Fernando Manno nelle ultime
commosse righe di Secoli fra gli ulivi, forse
non siamo altro che amanuensi «di quanto
nei secoli è nostro per transito umano, da
prima che nascessimo e nelle generazioni
dei figli, nostro da sempre e per un attimo
nel tempo fra gli ulivi dal quale venimmo.
Al quale, ammaliati di vita, morendo ci riconsegneremo».
Allora il senso estremo, assoluto, probabilmente
sta chiuso – custodito – nel rispecchiamento
del sentimento che si prova nei
confronti della propria vita con quello che
si prova nei confronti della propria terra.
Il senso sta nel sentire dentro una condizione
di continuità con il passato e di
proiezione nel futuro. Sta nella scrittura
che cerca, parola per parola, di rassomigliare
ad un tronco macerato da un fulmine,
oppure ad una nuvola che nasconde la
luna, o ad un rivolo di pioggia che scorre
lungo il marciapiede, ad una fiaba, una
rabbia per la storia, un riscatto dalla marginalità
della geografia, alla malinconia
per tutto quello che sarebbe potuto essere
e non è stato, all’attesa che quello che non è stato possa ancora essere, un giorno o
l’altro, vicino o lontano.
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