Giugno 2009

il ruolo della borghesia

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La classe
delle grandi sfide

Aldo Bello  
 
 

Invece di collaborare alla realizzazione di nuove imprese, hanno collezionato stock option e hanno sparso per il pianeta carta straccia, lasciando dietro di sé una crisi di cui non si riesce ancora a calcolare le dimensioni.

 

 

Bisognerebbe rivisitare l’arte fiamminga del Seicento, con le opere che non furono soltanto frutto di fantasia degli autori, (da Rembrandt a Rubens e a Vermeer, per esempio), ma anche committenze rivelatrici della condizione economica, sociale e culturale di un’epoca. Furono commissionate e pagate, quelle opere pittoriche, da una classe che aveva preso coscienza di sé e del proprio ruolo, e che dunque intendeva celebrare se stessa.
Era una classe formata da mercanti, armatori, assicuratori, banchieri, sensali d’affari che abitavano un piccolo Paese che era sul punto di diventare una potenza economica planetaria. I mestieri e le corporazioni che rappresentavano risalivano in grandissima parte al Medioevo; ma il varo di navi più solide e veloci, l’apertura di nuove rotte, la politica tollerante dei governi locali avevano dato uno straordinario impulso ai loro traffici e allargato la loro influenza sociale. Erano diventati, insomma, un formidabile ceto medio: una borghesia moderna.
In breve tempo il mondo si sarebbe accorto che questa classe sociale non si accontentava dei propri guadagni, ma era pronta a investirli in imprese anche ad alto rischio, a patto che fosse attivo un “milieu” politico e sociale propenso, non condizionato da dominazioni straniere o da leggi restrittive della libertà. Da quel momento, la storia europea registrò una sequenza di eventi che scandivano la conquista borghese del potere: la disfatta degli spagnoli nelle Fiandre fiamminghe, la rivoluzione inglese del 1688, quella francese del 1789, la Costituzione spagnola del 1812, i moti rivoluzionari del 1830 e del 1848 nei principali Paesi dell’Europa centro-occidentale. Gli intellettuali borghesi prepararono l’opinione pubblica con i loro libri e i loro interventi sui giornali. I giovani borghesi salirono sulle barricate. I banchieri borghesi finanziarono con cospicui prestiti la creazione degli Stati borghesi (Cavour non avrebbe “fatto l’Italia” senza il denaro della Banca Hambro).
Alcune vittorie furono durature, altre effimere. Ma sulla rilevanza della borghesia non hanno più alcun dubbio neanche i suoi critici. Persino nel “Capitale”, con il quale Marx annunciava tempi nuovi, emergeva la grande ammirazione dell’autore per questa classe sociale che ormai stava governando il Vecchio Continente. Marx aveva capito che la borghesia non era più soltanto una classe sociale: aveva una filosofia, un’etica, la percezione crescente della propria importanza e delle proprie responsabilità; era stata concretamente operosa; aveva ricostruito le città continentali secondo le proprie esigenze pratiche ed estetiche; aveva organizzato la vita sociale, fissato i tempi del lavoro e del riposo, disegnato gli abiti che voleva indossare, collezionato le opere d’arte di cui desiderava circondarsi; creato un numero incredibile di musei, di università, di ospedali, di biblioteche, di istituzioni scientifiche.

Potere delle armi.Pagg.  5 e 8: Xilografie originali di Gustave Doré per la prima edizione assoluta della “Histoire des Croisades”, Parigi, 1877.Qui sotto, Riccardo Cuor di Leone alla battaglia di Arsur.

Potere delle armi.
Xilografie originali di Gustave Doré per la prima edizione assoluta della “Histoire des Croisades”, Parigi, 1877.
Riccardo Cuor di Leone alla battaglia di Arsur.

Esiste ancora la borghesia europea? In realtà, molte cose sono cambiate.
La Grande Guerra aveva ucciso, proporzionalmente, più ufficiali che soldati e decimato i ceti medi più di quanto non avesse dissanguato il proletariato.
I conflitti politici e sociali avevano avuto per effetto l’abolizione del voto per censo e progressivamente ampliato il suffragio, rendendolo alla fine universale. Gli Stati erano diventati democrazie di massa nelle quali i partiti, per vincere, dovevano assicurarsi il consenso di larghi ceti popolari. Il dirigismo economico, nato nelle diverse forme proprio subito dopo il Primo conflitto mondiale, e i regimi socialdemocratici del Secondo dopoguerra avevano inventato lo Stato industriale e la classe degli imprenditori.

Nella Germania della seconda metà dell’Ottocento e nell’Italia dell’età giolittiana, i Siemens, i Rathenau, i Krupp, i Pirelli costruivano le proprie residenze nel mezzo delle loro fabbriche e vivevano accanto ai loro operai. Oggi vivono altrove, nel loft dei quartieri alti. Ma, più che altro, la differenza di fondo è senza dubbio un mutato concetto del denaro e del suo uso. All’epoca dei trionfi borghesi il denaro serviva a finanziare scambi commerciali e attività imprenditoriali. Le banche raccoglievano il risparmio dei cittadini e lo prestavano agli imprenditori, o addirittura investivano i loro fondi in nuove iniziative industriali.

Carlomagno, in un capolettera miniato del Quattrocento, di ambito tedesco.

Carlomagno, in un capolettera miniato del Quattrocento, di ambito tedesco.


Anche a quei tempi esistevano gli speculatori, i giocatori d’azzardo e i “rentier”. Di tanto in tanto esplodevano crisi assurde, quasi sempre causate dalla credulità o dall’ingordigia, come quella dei tulipani in Olanda o quella delle gigantesche piramidi dell’Europa balcanica dopo la fine della Guerra Fredda. Ma la maggior parte delle bolle avevano un’origine industriale. Nel 1929, ad esempio, il crollo fu provocato dalle imponenti quantità di denaro che gli imprenditori avevano preso a prestito per far crescere le loro produzioni al di là della capacità di assorbimento del mercato.
Da alcuni decenni la situazione è mutata. La finanza si è staccata dalla produzione industriale, ha creato le proprie regole e ha iniziato a perseguire obiettivi e fini che non hanno alcun rapporto con quelli di coloro i quali fabbricano i beni necessari alla nostra vita. Ha preso piede la convinzione che l’economia possa essere soltanto finanziaria e che la produzione di denaro con denaro sia destinata a diventare la principale attività delle società moderne.

Invece di preparare gli imprenditori del futuro, le business school di tutto il mondo hanno cominciato a lanciare sul mercato giovani brillanti, capaci di impiegare modelli matematici per creare nuovi “prodotti” e intossicare la finanza mondiale. Sono ancora borghesi i giovani che abbiamo visto emergere dalle banche fallite di New York con le scatole di cartone in cui avevano ammucchiato alla rinfusa il contenuto dei loro cassetti? Credo di no. Invece di collaborare alla realizzazione di nuove imprese, costoro hanno collezionato “stock option” e hanno sparso per il pianeta carta straccia, lasciando dietro di sé una crisi di cui nessuno è ancora riuscito a calcolare le dimensioni.
I più sagaci capiranno di avere sbagliato e troveranno un altro lavoro. Altri, magari, faranno i croupier nei casinò: un mestiere simile per molti aspetti a quello che hanno esercitato fino al giorno della caduta.
Sono mutati i valori. Forse – meglio – è cambiato un modo di concepire e di usare i valori. È stato scritto che c’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o di una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene, e in particolare il bene comune, si assottigli; che le virtù si facciano rare: soprattutto quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da Istituzioni e Costituzioni durevoli ma discusse. Sono tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere di certi valori, come scrisse Carl Schmitt nel breve saggio del ‘60 su “La tirannia dei valori”. Salvare i valori autentici da questi sbandieramenti è vitale, perché è pur sempre in nome di princìpi e di valori che la stortura andrà corretta.
Tempi del genere sono dichiarati cinici e bari. In genere sono colorati di nero. Sono tempi in cui il chiacchiericcio intorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo al solo fine del potere, e finendo col distruggere i valori stessi; tempi in cui il sale perde il suo sapore, accresce la salinità, diventa corrosivo. Negli “Ultimi giorni dell’umanità” Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della guerra ‘14-‘18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. Tramutati in vati, i giornalisti – vil razza dannata – erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta, cieca.

Carica di cavalleria leggera con fanteria, da un codice manoscritto della Biblioteca di Leiden (Olanda), XI secolo.

Carica di cavalleria leggera con fanteria, da un codice manoscritto della Biblioteca di Leiden (Olanda), XI secolo.


Non è diversa la crisi che stiamo vivendo, e che si aggraverà a mano a mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Allora sono d’obbligo alcune domande: in queste condizioni, come custodire il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano con estrema difficoltà, o che non riescono proprio a controllare, affidati come sono agli Stati-nazione, se non addirittura agli interessi di inesistenti e antistoriche “patrie etnico-territoriali”? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». Ma i valori, reali o presunti, diverranno strumento per eludere le sfide autentiche che abbiamo di fronte? Prenderanno il posto del mistero che ci oltrepassa, imponendosi in rigide gerarchie: valori supremi, poi superiori, poi ancora inferiori, e via digradando, fino alle terre dei disvalori in cui si relegano gli avversari?
La giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, l’inventiva imprenditoriale, la creatività del cittadino, la moderazione del dialogo restano beni essenziali. Ma se sono soltanto ai fini esclusivi del potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Innalzato a fine, il potere non li serve, ma se ne serve per affermarsi, negando l’altro da sé.
I valori come assillo che finisce per distruggere quel che si vuole restaurare non sono una novità. Apparvero nell’Ottocento, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per il concetto stesso di Dio. Oggi tornano di moda, nell’arena politica, col fine di screditare l’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Kant diceva che sono le cose ad avere un “valore” (le si fanno valere sulla base di un prezzo, sono scambiabili), mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una “dignità” che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine “valore-rifugio”: in economia funziona, nel campo etico no. Secondo alcuni, l’arroganza dei valori è prerogativa dei conservatori. Ma è proprio così? Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

Gustave Doré, “L’uccisione di Almoadam”.

Potere delle armi.
Xilografie originali di Gustave Doré per la prima edizione assoluta della “Histoire des Croisades”, Parigi, 1877. “L’uccisione di Almoadam”.


Stabilito questo, possiamo dedurre che la crisi economica che stiamo attraversando è tragica, proprio perché il mondo politico-economico, per padroneggiarla, converte i fini in mezzi e viceversa, svalutando i valori o rendendoli assoluti, servendosene a capriccio; mentre sarebbe necessario il ricorso al buon uso della ragione borghese, dell’alacrità della bottega, delle relazioni diffuse che distinsero il mondo fiammingo del XVII secolo, con regole aggiornate, anticonformiste, coraggiose. Anche per negare, come del resto ha già fatto la Storia politica, quel che scrisse proprio Marx nel “Manifesto”: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il puro rendiconto […]. Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili». Profezia-boomerang, che ha finito per configurare l’universo marxiano post-1989, dopo la caduta dei muri e il crollo del pensiero unico, in nome del quale era stato costruito l’impero più vecchio dell’epoca moderna.



   
   
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