Giugno 2009

tra stato e mercato

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Terzo capitalismo

Dani Rodrik Docente alla Harvard University
 
 

La lezione non è che il capitalismo è morto,
ma deve essere
reinventato, per
un nuovo secolo in cui le forze della
globalizzazione economica sono molto più forti
che in passato
.

 

 

 

 

 

 

Chi preannuncia la fine del capitalismo deve fare i conti con un dato storico rilevante: il capitalismo possiede una capacità quasi illimitata di reinventare se stesso, e non ha uguali quanto a capacità di scatenare le energie economiche collettive delle società umane. Per questa ragione tutte le società opulente sono capitaliste nel senso lato del termine: sono organizzate intorno alla proprietà privata e lasciano al mercato un ruolo importante nella ripartizione delle risorse e nella determinazione delle ricompense economiche. Il problema è che né i diritti di proprietà né i mercati possono funzionare da soli, ma hanno bisogno dell’ausilio di altre organizzazioni sociali.
I diritti di proprietà, quindi, sono fondati sui tribunali e sull’applicazione delle leggi, e i mercati dipendono dai regolatori per tenere a freno gli abusi e per correggere i propri difetti. A livello politico, il capitalismo necessita di meccanismi di trasferimento e compensazione per rendere accettabili i propri esiti.
La società di mercato idealizzata da Adam Smith richiedeva poco più di «uno Stato guardia notturna». Tutto quello che i governi dovevano fare per assicurare la divisione del lavoro era far rispettare i diritti di proprietà, mantenere la pace e riscuotere qualche tassa per finanziare una limitata gamma di beni pubblici. Per tutta la prima parte del XX secolo, il capitalismo è stato governato da una visione molto limitata degli organismi pubblici necessari a sostenerlo. Questo scenario è cominciato a cambiare quando la società è diventata più democratica e i sindacati e altri gruppi si sono mobilitati contro quelli che percepivano come abusi del capitalismo. Gli Stati Uniti furono i primi a introdurre misure antitrust. Politiche monetarie e politiche di spesa attive diventarono la norma dopo la Grande Depressione.
La quota della spesa pubblica in rapporto al reddito nazionale è cresciuta rapidamente negli odierni Paesi industrializzati: da una media che non raggiungeva il 10 per cento alla fine del XIX secolo, a più del 20 per cento alla soglia della Seconda guerra mondiale. E nel dopoguerra la maggior parte dei Paesi ha creato complessi sistemi di welfare, che hanno portato il settore pubblico a superare mediamente il 40 per cento del reddito nazionale.

Il più grande successo del XX secolo è stato il modello di “economia mista”. Il nuovo equilibrio che si è creato tra Stato e mercato ha aperto la strada, nelle economie avanzate, a un periodo di coesione sociale, di stabilità e di prosperità senza precedenti, durato fino alla metà degli anni Settanta.
A partire dagli anni Ottanta, questo modello ha cominciato a sfilacciarsi, e ormai sembra andato a pezzi. La ragione di fondo può essere riassunta in una parola: globalizzazione. L’economia mista del dopoguerra venne costruita e gestita nell’ambito degli Stati nazionali, e un requisito indispensabile era che l’economia internazionale doveva essere tenuta a bada. Il sistema economico incentrato su Bretton Woods e sul Gatt comportava una forma d’integrazione economica internazionale “superficiale”, basata sul controllo dei flussi di capitale internazionali, che Keynes e i suoi contemporanei consideravano un elemento cruciale per la gestione dell’economia nazionale. Agli Stati veniva richiesto di liberalizzare gli scambi commerciali soltanto in misura limitata, con un gran numero di eccezioni per settori socialmente sensibili (agricoltura, tessile, servizi). In questo modo, gli Stati erano liberi di realizzare le proprie versioni personali di capitalismo nazionale, a patto di aderire a poche, semplici regole internazionali.


La crisi attuale mostra fino a che punto ci siamo allontanati da quel modello. In particolare, la globalizzazione finanziaria ha mandato a monte le vecchie regole. L’incontro tra il modello di capitalismo cinese e quello americano, in assenza quasi di valvole di sicurezza, ha dato origine a una miscela esplosiva. Non c’erano meccanismi di protezione che impedissero alla liquidità di crescere, a livello mondiale, fino alla saturazione, e dunque in abbinamento alle falle del sistema di regolamentazione americano, di evitare l’impressionante esplosione e susseguente tracollo del mercato immobiliare. E non c’erano posti di blocco sulle strade dell’economia internazionale che potessero impedire alla crisi di espandersi dal suo epicentro.
La lezione non è che il capitalismo è morto, ma semplicemente deve essere reinventato, per un nuovo secolo in cui le forze della globalizzazione economica sono molto più forti che in passato. Proprio come il capitalismo minimale smithiano si trasformò nell’economia mista keynesiana, dobbiamo adesso prendere in considerazione una transizione dalla versione nazionale dell’economia mista al suo corrispettivo globale.
Questo significa immaginare un equilibrio tra i mercati e le istituzioni che li supportano a livello globale. In certi casi servirà estendere queste istituzioni oltre gli Stati-nazione e rafforzare la gestione internazionale dell’economia. In altri casi, vorrà dire impedire ai mercati di estendersi oltre il raggio d’azione di istituzioni che devono rimanere nazionali. L’approccio corretto varierà a seconda dei raggruppamenti di Paesi e delle aree tematiche.
Progettare il capitalismo del futuro non sarà facile. Ma abbiamo la Storia dalla nostra parte: il grande pregio del capitalismo è la sua infinita duttilità.

   
   
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