Giugno 2009

Cronache semiserie della grande crisi

Indietro

Le fallibili Sibille

S.B.  
 
 

Cieca presunzione.
L’economia
in quanto scienza, dunque, dev’essere ripensata del
tutto? Dobbiamo mandare al rogo
i manuali esistenti e riscriverli
da zero?

 

 

 

 

 

 

Esempio numero uno: giovedì 3 luglio dell’anno di disgrazia 2008 il Consiglio direttivo della Banca centrale europea non aveva dubbi: il nemico era l’inflazione. Quel giorno la Bce decise di aumentare dal 4 al 4,25 per cento i tassi d’interesse per «contrastare i crescenti rischi al rialzo per la stabilità dei prezzi». E la recessione? Il Governatore Jean-Claude Trichet e i suoi colleghi erano convinti che ci sarebbe stato un atterraggio morbido dell’economia. Perciò scrissero nel bollettino mensile dell’istituto: «Sebbene gli ultimi dati confermino le attese di un rallentamento del Pil, le variabili economiche fondamentali dell’area dell’euro risultano solide».
Esempio numero due: pochi giorni dopo, giovedì 17 luglio dello stesso anno bisestile, i giornali pubblicarono le previsioni del Fondo monetario internazionale, che parlavano di un rallentamento della crescita, tuttavia non drammatico. Il Fmi lanciava solo un “allarme prezzi”: «L’inflazione è sempre più preoccupante e limiterà i margini di manovra per contrastare il rallentamento della crescita». Risultato: stime moderatamente al rialzo per il Pil italiano (0,5 per cento nel 2008, rispetto alla precedente previsione dello 0,3). E nuovi aggiornamenti per la crescita degli altri Paesi, a cominciare dalla Germania, per la quale si indicava un aumento del Pil del 2 per cento.
Trascorsero appena poche settimane, e sembrò che fosse passata un’era geologica. I prezzi erano in discesa (quelli delle materie prime, in picchiata). Facevano paura la stagnazione, il calo dei consumi, i fallimenti, la disoccupazione. La Banca centrale europea tagliò i tassi due volte, e preparò una terza sforbiciata. Il suo Direttore generale, Dominique Strauss-Kahn, decise di non escludere «una nuova catastrofe», mentre i governi dei maggiori Paesi salvavano una banca dopo l’altra e cercavano di tessere una rete di freno alla caduta libera.

Ma allora, che cosa ci avevano raccontato i super-esperti? A luglio non potevano ignorare quel che stava accadendo. La crisi dei subprime negli Stati Uniti era esplosa da un anno. A febbraio il premier britannico Gordon Brown aveva nazionalizzato la traballante Northern Rock. A marzo, sulla sponda opposta dell’Atlantico, la crisi aveva imposto il salvataggio della Jp Morgan, sostenuta dalla Banca centrale di New York con la benedizione di Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve. Allora: quale fiducia possiamo accordare ancora ai numeri e ai consigli che le grandi istituzioni internazionali, dal Fmi all’Ocse, dalla BCE alla Fed, sfornano a ripetizione come infallibili sibille?
Antonio Marzano, da presidente di un organo costituzionale come il Cnel, sostiene: «Si ha la sensazione che gli organismi internazionali di vigilanza arrivino quando i buoi sono scappati». Secondo lui, ciascuno ha la sua parte di responsabilità: la Banca centrale europea guardava ancora il prezzo del petrolio, mentre la Federal Reserve tagliava già i tassi per evitare la recessione. «E troppo spesso le stime del Fmi devono essere riviste in misura non trascurabile». Come dire: nessuno è perfetto.
Fra l’altro, come si è arrivati a sviste di queste proporzioni? C’è chi dice che, quando si verifica un incidente d’auto, un po’ è per via di un errore umano, un altro poco perché la macchina magari andava revisionata. Altri, invece, riportano ragioni diverse: tutto il personale tecnico e di studio si è formato sulla concezione dell’economia che si autoregola. E lì, per pigrizia intellettuale o per insipienza, si è fermato. Certo, ci sono anche persone che pensano con la propria testa, e che si aggiornano costantemente. Tuttavia l’inclinazione di fondo, culturale e scientifica, è quella.
Salvatore Biasco, docente alla Sapienza, parla dell’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, considerato un mago quando tutto andava bene, e oggi dileggiato come un untore: «Greenspan pensava che i mercati funzionassero da soli, che bastasse l’interesse a fare in modo che non si corressero rischi per gli azionisti. Ma l’autoregolamentazione non basta, non è vero che il mercato sia sempre razionale, non è vero che ci siano meccanismi endogeni autoregolativi. Insomma, ci sono molti fattori che non vengono presi in considerazione solo per motivi culturali».
Tesi non nuova. Il premio Nobel Joseph Stiglitz, forte dell’esperienza maturata proprio negli organismi internazionali, ha messo sotto accusa da tempo le politiche del Fondo monetario internazionale, in particolare quelle imposte ai Paesi in via di sviluppo: «Il Fmi ha chiesto loro di seguire politiche pro-cicliche (alzare le tasse e i tassi d’interesse, e abbassare le spese quando l’economia va in recessione), mentre l’Europa e l’America stanno facendo esattamente l’opposto». Oggi Stiglitz si scaglia contro l’eccesso di liberismo: «I regolatori del mercato finanziario hanno fallito. Sul piano delle norme c’è stata una corsa al ribasso eccessiva, secondo il mito che vuole la deregulation creatrice di innovazione».

Tutto sbagliato? Sulla necessità di una nuova fase di regolazione e di governo della finanza mondiale nessuno sembra nutrire più dubbi, anche se si consiglia di mantenere la testa fredda. Perché – si dice – quando il mondo cambia, tutte le previsioni precedenti risultano errate; il problema vero è la velocità con la quale si colgono e ci si adatta ai cambiamenti. È per questa ragione, oltre che per la crisi planetaria, che gli organi dei vari Governi si riuniscono con maggior frequenza, che la Banca centrale europea si riunisce ogni quattro settimane, che la Federal Reserve si riunisce ogni quarantadue giorni, per rivedere le previsioni e la politica per il periodo successivo. Insomma, gli errori ci sono stati, pur se va sottolineato che c’è stato anche un lungo periodo di crescita, prima della “tempesta perfetta”. Ma errori da parte di chi? La parola a Salvatore Rossi, Direttore centrale di Bankitalia: «Chi ha fallito in questa vicenda, lo Stato o il mercato? Lo Stato, vorrei sostenere, pur se in virtù di un paradosso. Un risultato secolare, solido e netto, del pensiero economico è che il mercato o è “regolato” o non è». Che è come dire: anche la politica ha fatto la sua parte.
Ormai siamo universalmente consapevoli che stiamo vivendo la peggiore crisi dagli anni Trenta ad oggi, con reazioni protezionistiche tristemente familiari: proteste contro i lavoratori stranieri, richieste di barriere commerciali, un nazionalismo finanziario contrario al libero flusso del denaro da una nazione all’altra. Negli anni Trenta, però, il nazionalismo economico non fu l’unico spettacolo in scena: molti cominciarono a pensare all’integrazione regionale come risposta alla recessione.
Ma il tipo d’integrazione che avviene in una fase di crisi economica spesso ha effetti distruttivi. Le versioni meno gradevoli di regionalismo anni Trenta le offrirono la Germania e il Giappone, e furono nient’altro che una concreta estensione del potere di queste due potenze ai danni di vicini vulnerabili, costretti alla dipendenza commerciale e finanziaria sulla base del tedesco Grosswirtschaftsraum, o del suo corrispettivo nipponico “Grande area di prosperità dell’Asia Orientale”. Gli orrori degli anni Trenta ancora oggi spingono a diffidare fortemente di concetti come la “Grande Asia Orientale”.

Christian Quaquero

Christian Quaquero

Nella seconda metà del XX secolo, l’Europa ha avuto modo di costruire una forma di regionalismo molto più benevola, ma oggi l’Unione europea paga lo scotto di avere sprecato l’occasione di avviare istituzioni più forti quando i tempi erano più propizi e gli animi meno esacerbati. L’Unione europea soffre di una serie di problemi sui quali si discute da molti anni, ma che non sono mai apparsi tanto pressanti come ora: d’improvviso, con la crisi economica, essi sono diventati sorgenti primarie di instabilità politica.
Negli Stati della zona euro ci sono una politica monetaria comune e un mercato dei capitali integrato con istituzioni finanziarie che agiscono al di là dei confini nazionali. Ma la regolamentazione e la supervisione delle banche avvengono su scala nazionale: e così dev’essere, perché in caso di fallimento di una grande banca ogni salvataggio va a pesare sui bilanci pubblici e i costi ricadono sui contribuenti dei singoli Stati, piuttosto che dell’Unione nel suo complesso. Va però detto che questo assetto ha poco senso dinanzi alla logica economica dell’integrazione europea.

La seconda questione lampante è l’esiguità del budget dell’Unione europea rispetto a quelli degli Stati membri. La gran parte dell’attività governativa si svolge a livello nazionale, ma i vari Governi non hanno gli stessi margini di manovra a livello di bilancio. In Italia, in Grecia o in Portogallo il debito pubblico è talmente alto che ogni tentativo di usare la spesa pubblica come strategia per combattere la crisi economica è destinato a fallire. Ma anche l’Irlanda, che in passato aveva livelli modesti tanto di deficit che di debito, d’improvviso e inaspettatamente si trova ad affrontare lo stesso tipo di problema, perché lo Stato si è dovuto far carico del debito privato nel settore bancario. Per non parlare della Spagna, che vantava sorpassi garantiti rispetto all’Italia, e che nel breve spazio di un mattino si è trovata nelle posizioni di coda nella graduatoria europea. Mentre Francia e Germania hanno conti pubblici intrinsecamente più solidi, e anche per questo sono i soli Paesi europei in grado di far qualcosa di concreto contro la crisi.
A dirla tutta: il concetto keynesiano dello stimolo alla domanda si sviluppò anch’esso negli anni Trenta, in un contesto di economie nazionali autosufficienti; i keynesiani colmarono la “vasca” nazionale con l’acqua calda degli incentivi fiscali. Quando la vasca perde e altra gente comincia a trarre beneficio da quell’acqua, l’impresa non ha più attrattiva. In ogni caso, è un metodo che ha funzionato sempre e soltanto per gli Stati grandi, perché quelli piccoli non avevano modo di applicare il keynesianesimo in un lavandino.
Di fatto, allora, la crisi una volta di più ha trasformato Francia e Germania nei perni del processo europeo. Ma più la crisi li colpisce, più i due giganti continuano a pensare prima di tutto in termini nazionali. Dal punto di vista di Parigi e di Berlino non serve alcuna europeizzazione sistematica.

Nella periferia di una grande città sudamericana si “affitta” la manodopera per la strada. - Laura Carreto Tirado

Nella periferia di una grande città sudamericana si “affitta” la manodopera per la strada. - Laura Carreto Tirado


Al contrario, i grandi Stati adesso incoraggiano raggruppamenti informali per cercare soluzioni su scala mondiale. Così le implicazioni degli anni Trenta sono amplificate e mettono in evidenza la difficile situazione dell’Unione europea, e questo sta erodendo la stessa stabilità politica di un’area che un tempo rappresentava il miglior modello e la maggiore speranza per il regionalismo buono.

Se sui piani di rilancio in stile keynesiano le opinioni variano da “assolutamente fondamentali” a “inefficaci e dannosi”, sui modi per “ri-regolamentare” la finanza le buone idee non mancano. Quel che manca è la convergenza. Dal consenso quasi unanime sulle virtù di un modello planetario incentrato sulla finanza, gli economisti sono passati a un quasi totale dissenso su ciò che si deve fare.
L’economia in quanto scienza, dunque, dev’essere ripensata del tutto? Dobbiamo mandare al rogo i manuali esistenti e riscriverli da zero? In realtà, no. Senza gli strumenti della scienza economica non siamo in grado neanche di cominciare a dare un senso alla crisi attuale.
Perché, ad esempio, se in Cina il governo sceglie di accumulare riserve in valuta estera, il risultato finale è che nell’Ohio si concedono mutui con eccessiva facilità? Senza ricorrere, fra l’altro, ad elementi dell’economia comportamentale, della teoria dell’agenzia, dell’economia dell’informazione, dell’economia internazionale, si rischia di dare una risposta fortemente deficitaria.
La colpa non è della scienza economica, ma degli economisti. Il problema è che costoro (e chi li sta a sentire) si sono affidati troppo ai modelli più in voga al momento: i mercati sono efficienti, l’innovazione finanziaria trasferisce il rischio su chi è più in grado di sostenerlo, l’auto-regolamentazione è il metodo migliore e l’intervento pubblico è inefficace, oltre che dannoso.
Dimenticavano l’esistenza di molti altri modelli che conducevano in direzioni del tutto opposte. La presunzione può rendere ciechi. Se c’è qualcosa da correggere, è la sociologia della professione. I manuali – quantomeno quelli dei corsi aggiornati – vanno bene.
La macroeconomia è l’unico campo applicato nell’ambito della scienza economica dove una formazione più avanzata accresce la distanza tra l’esperto e il mondo reale, perché si affida a modelli altamente irrealistici, che sacrificano la rilevanza in favore del rigore tecnico. Purtroppo, considerando le esigenze odierne, gli esperti di macroeconomia hanno fatto pochi passi avanti dai tempi in cui Keynes spiegava come un’economia potesse rimanere incastrata nella disoccupazione a causa di una carenza di domanda aggregata. Alcuni, come Paul Krugman e Brad De Long, direbbero anzi che il settore è regredito.
L’economia è una cassetta con gli attrezzi con molteplici modelli e ognuno di essi è una rappresentazione differente e stilizzata di un aspetto della realtà. L’abilità di un economista dipende dalla capacità di selezionare il modello giusto. La ricchezza e la varietà della scienza economica non trovano riscontro nel dibattito pubblico perché gli economisti si sono presi troppe libertà. Invece di presentare una lista di opzioni e di elencare i relativi pro e contro – questo sarebbe il compito dell’economia – troppo spesso gli economisti hanno trasmesso le proprie preferenze socio-politiche. Invece di fare gli analisti hanno fatto gli ideologi.
I professionisti della scienza si sono dimostrati anche riluttanti a condividere i loro dubbi intellettuali con l’opinione pubblica, per timore di “dare forza ai barbari”. Nessun economista può essere interamente sicuro che il proprio modello preferito sia corretto. Ma quando lui e altri sostengono quel modello, escludendo le alternative, finiscono per comunicare una sicurezza sulla linea da seguire che è fuori luogo. Paradossalmente, quindi, lo scompiglio che regna oggi nel mondo degli studiosi d’economia forse riflette, meglio del precedente e ingannevole consenso, il vero valore aggiunto della professione. Gli economisti al massimo possono rendere più chiare le scelte per i decisori politici; ma non possono fare queste scelte al posto loro.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009