Giugno 2009

Contro il centralismo

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Il ritorno
delle economie locali

Giuseppe De Rita
Tommaso Morabito
 
 
 

Il nostro Paese
vive una stagione di crescita
contenuta, che stenta ad adattarsi alla modernità
a causa di un
sistema di governo della cosa
pubblica
corporativa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Viene da domandarsi oggi quale ruolo giuochino o possono giocare le diverse realtà locali, e le loro assunzioni di responsabilità, nello sconquasso provocato dalla grande crisi finanziaria e poi trasposto in una sottile ma endemica difficoltà dell’economia reale.
Come sempre, nelle crisi violente e inattese, la reazione istintiva si orienta in direzione della verticalizzazione decisionale, anche perché le drammatizzazioni mediatiche spingono verso l’alto la domanda e la ricerca di adeguati interventi. Siamo quindi tutti in attesa di quel che farà il governo (magari d’intesa con altri governi e con le autorità sovranazionali); di quel che faranno le grandi centrali finanziarie e bancarie; di come potranno essere risolti i problemi delle grandi imprese in difficoltà. Alla periferia, se dobbiamo dar retta alle intenzioni, si guarda prevalentemente per deputare le amministrazioni regionali all’articolazione e all’applicazione operativa degli ammortizzatori sociali.
È probabile però che sia un errore non far riferimento al modo in cui la realtà locale vive la crisi, in un’articolazione di atteggiamenti e di comportamenti che è più chiaroscurata delle fosche tinte usate a livello centrale. Ci sono sindaci e presidenti provinciali che stanno valutando e programmando interventi anticiclici, facendo leva sulla riorganizzazione localistica del welfare e più ancora su incentivi alla manutenzione (di abitazioni, di boschi, di edifici scolastici, ecc.) che potrebbero coinvolgere molecolari interventi finanziari delle famiglie magari incrociati con segmenti di fondi europei.

Ci sono aziende di servizio pubblico locale che si dichiarano pronte a fare significativi investimenti in cambio di sostenibili aumenti tariffari. Ci sono banche a forte caratterizzazione locale che già ridanno fiato al mondo delle imprese (le banche popolari hanno decisamente aumentato gli impieghi, contro la rigidità un po’ egoista delle grandi banche nazionali). Ci sono fondazioni bancarie che stanno dimostrando di essere più che vigili sull’evoluzione delle loro filiere settoriali e di poter quindi presidiare il potenziale rilancio dell’export. Ci sono innumerevoli piccole e medie imprese che usano la crisi (e la cassa integrazione) per ristrutturarsi, mantenendosi rigorosamente liquide e guardandosi intorno “per comprare”, ove se ne configurino oggetti e tempi opportuni.
Come sempre nelle difficoltà, la voglia di sopravvivere e rilanciare si afferma come una nostra costante silenziosa scelta.
Nessuno può pensare, anche fra i più accesi localisti, che tutto ciò possa bastare per superare la grande turbolenza che stiamo attraversando. Ma sapienza italiana vorrebbe che in questo anno difficilissimo mettessimo tutto a contributo: non abbiamo da anni uno sviluppo e un sistema di vertice, ma uno sviluppo molecolare, a tanti soggetti, e siamo, quindi, un sistema articolato e diffuso.
Cedere alla paura di vertice sarebbe un errore, fare sistema e politica solo al vertice sarebbe non solo uno sbaglio, ma un’autocastrazione controproducente; non sarebbe male, allora, tentare una politica di promozione e sostegno delle spinte localistiche che, come visto, sono già in essere. Non ripetiamo quindi in economia quelle ambizioni centralistiche che nel recente passato politico hanno prodotto cattivo frutto.

Nello Wrona

Nello Wrona

Le notizie hanno descritto ogni giorno di più la situazione di un’economia entrata precipitosamente in un vortice di difficoltà: previsioni di crescita progressivamente rivisitate verso il basso, aumento delle richieste di cassa integrazione, andamento dell’occupazione negativo. E nel vortice gira la testa, si fatica a comprendere che cosa stia accadendo. Soprattutto come (e quando) se ne esce. Nessuno è in grado, allo stato delle cose, di fare previsioni con un minimo di certezza.
Ma ciò di cui c’è maggiormente bisogno è recuperare fiducia, stabilità nei comportamenti e un’azione pubblica dotata di obiettivi chiari. Le rappresentazioni della crisi, i modi in cui essa viene descritta, sono importanti da considerare, perché da queste dipende l’azione degli investitori stranieri, degli operatori economici e delle famiglie.
A maggior ragione, in una fase così tumultuosa sono indispensabili monitoraggi continuativi sui diversi territori, perché la crisi letta soltanto dal centro entra in una logica tutta di confronto e scambio politico. Perdendo il contatto con la realtà e le diverse intensità dei problemi dello sviluppo locale. Tutto sfuma in una mediazione politica legata al consenso immediato, mentre si abbassa il tasso di pragmatismo necessario a risolvere le questioni e a realizzare una progettualità di lungo periodo. Così assistiamo ad annunci di interventi che durano un paio di giorni, per poi cadere nel silenzio. O a proposte e contrapposizioni utili alla polemica, ma poco calibrate sulla realtà.

Tutto ciò disorienta e rimanda l’immagine di un Paese il cui incedere è incerto, incapace di pensare in grande e di guardare al suo futuro. Mentre fra le poche cose sicure c’è che alla fine di questo tunnel il paesaggio economico sarà assai diverso. Dovremo essere pronti a ripartire con il piede giusto, avendo posto le basi per risanare il debito pubblico, avviato un ammodernamento della pubblica amministrazione, ristrutturato adeguatamente il sistema produttivo, realizzato gli investimenti necessari nella crescita del capitale umano. I fondamenti di questi interventi devono però essere gettati adesso, perché il tempo e la velocità di realizzazione sono i fattori cruciali per vincere la sfida della competizione globale.


Soprattutto perché oggi il nostro sistema produttivo costituito da un capitalismo diffuso, dalle Pmi e dai suoi lavoratori, oltre agli effetti della crisi, sta pagando ritardi delle riforme mai realizzate. Pur ricordando il vincolo posto dall’enorme debito pubblico, tuttavia è necessario giocare su due tasti. Da un lato, nel brevissimo termine, c’è la questione dell’estensione degli ammortizzatori sociali ai lavoratori delle piccole imprese. È forte e diffusa la preoccupazione di molti imprenditori di disperdere il capitale umano e professionale costruito negli anni, di mettere in difficoltà intere famiglie. Di vedere inasprito rapidamente il rapporto con il territorio nel quale sono cresciuti. Perché la maggioranza delle Pmi ha un rapporto di reciprocità con l’area di insediamento produttivo, con i lavoratori. Poiché la crisi sarà selettiva, più che salvaguardare il “posto fisico” del lavoro, va tutelata la sua “occupabilità”, la spendibilità delle professionalità. Sarebbe riduttivo fermarsi alla dimensione economica. Va costruito un sistema di tutele che accompagnino i lavoratori colpiti da disoccupazione in percorsi di riqualificazione, di formazione continua, di acquisizione di nuove competenze utili alla ricerca di nuovi impieghi.
Dall’altro lato, occorre operare nel lungo termine realizzando quelle riforme strutturali, stabili nel tempo, che costituiscono la direzione che l’Italia vuole intraprendere. Rischiando, in modo condiviso con le parti sociali, l’elaborazione di un pensiero non conformista (per mutuare la definizione di Cipolletta). Liberalizzazioni, semplificazione burocratica, riforma del welfare e delle pensioni sono i capisaldi su cui costruire l’Italia del futuro prossimo.
Rinviare ancora per timori legati al consenso sarebbe deleterio e ci consegnerebbe a una crescita declinante. Così come all’epoca dell’ultimo grande sogno nazionale, l’ingresso nella moneta unica, la popolazione comprese il senso della sfida, altrettanto oggi c’è la consapevolezza diffusa della difficoltà del momento. Sarebbe il modo più efficace per intravedere nella crisi una grande opportunità di sviluppo da non lasciarsi sfuggire.

Capitale umano, capitale sociale sono i due pilastri dello sviluppo economico da sempre, ossia da quando l’umanità ha iniziato a inventare attrezzi e organizzazioni per migliorare la propria vita, e ha così dato via alla storia dell’uomo. È tanto più vero oggi che l’economia si fonda sempre più sulla conoscenza, così come appare evidente ai più che lo sviluppo necessita in primo luogo di un ambiente di relazioni civili e di comportamenti rispettosi delle regole. Non si spiegherebbe altrimenti perché, ancora oggi, Paesi ricchi di risorse naturali siano ancora sulla via dello sviluppo, mentre Paesi carenti di ogni risorsa conoscano livelli di reddito e di crescita elevati. La differenza sta nel capitale umano e nel capitale sociale.

Il tema è di attualità anche per il nostro Paese, che vive una stagione di crescita contenuta, che stenta ad adattarsi alla modernità a causa di un sistema di governo della cosa pubblica che non riesce a superare le resistenze delle numerose corporazioni ancorate nelle posizioni acquisite nel passato, che è caratterizzato da una bassa educazione e da un esiguo numero di laureati, in particolare nelle materie scientifiche. Più investimenti in capitale umano e più attenzione al capitale sociale sono la ricetta per l’Italia, come per molti Paesi, sia industrializzati che in via di sviluppo, per riattivare una dinamica di crescita socio-economica.
L’Europa sembrava aver capito l’esigenza di migliorare la dotazione di capitale umano. Ma poi, sotto le spinte della congiuntura e sotto la pressione degli interessi costituiti, si è finito per ripiegare su politiche macro-economiche di redistribuzione del reddito.
Quella del capitale sociale è una risorsa particolarmente trascurata nel nostro Paese. Basti pensare che negli ultimi vent’anni si è continuato a discutere di sistema elettorale, brandendo ogni proposta di riforma come strumento per vincere le prossime elezioni o per ostacolare qualche avversario. Eppure il sistema elettorale è lo strumento principale per dare al Paese un governo che sappia gestire il presente con una visione anche del futuro: una visione che è necessaria per effettuare investimenti di lungo periodo, come sono quelli per l’educazione e per le infrastrutture (strade, ferrovie, quartieri, risanamento del territorio, smaltimento dei rifiuti, approvvigionamento idrico, produzione e distribuzione di energia, e così via).
Sono tutti investimenti che necessitano di tempo per essere realizzati e che presuppongono un’identità di vedute generali del Paese, per evitare che si proceda a singhiozzo, accelerando o frenando a seconda del prevalere di questa o quella impostazione ideologica.

   
   
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