Giugno 2009

Global view. Buchi neri e provvedimenti anti-crisi

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La bottega dei soccorsi

Claudio Alemanno

 
 
 

La bottega dei soccorsi ha appena aperto i battenti, mentre la grande crisi porta
nuovo disordine facendo saltare
la tradizionale
alleanza tra Stato e Mercato.

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche i ricchi piangono. Così ha titolato il Financial Times, stimando in un terzo la perdita delle grandi fortune. Ovviamente, i ricchi non versano nell’indigenza, ma questo dato esprime bene l’idea di una crisi che non colpisce solo il giardino dei semplici. Della sua entità non si conosce il fondo, per cui resta difficile formulare giudizi sereni, disporre di stati d’animo distaccati.
Si tratta di un ingente patrimonio obbligazionario che sonnecchia tra le pieghe dei bilanci. Una gigantesca mina vagante d’incerto valore alimentata da un superdollaro uscito dalle ceneri del Gold Standard, usato come collante psicologico di un superindebitamento che coinvolge Stati, famiglie, imprese. Viviamo tempi amari, ma dovendo uscire da una banalità quotidiana ritmata da messaggi ansiogeni o soporiferi è doveroso soffermarsi senza passioni istintive sulle prime trincee di difesa erette dai Governi di qua e di là dell’Atlantico. Chiarendo in premessa che la crisi non è uguale per tutti.
Il piano Obama (investimenti per due terzi, agevolazioni fiscali per un terzo) non sposta di molto il tasso di disoccupazione americano, che oscilla tra il 7 e il 10 per cento (il recupero stimato per il 2009 è di un risicato 2 per cento). Anche la sindrome consociativa dei G8 e dei G20 toglie molto all’ossessione delegittimante dei mercati.
Resta in salita l’avvio di un secondo New Deal rooseveltiano. Se alla crisi finanziaria si somma la gravità degli squilibri nei fondamentali dell’economia reale si capisce meglio lo scenario complesso in cui siamo tutti coinvolti. Due crisi dirompenti che viaggiano in parallelo e mettono a dura prova la credibilità delle istituzioni e la fiducia nei mercati. Atti di fede indispensabili che non possono più essere assicurati dai capitalismi nazionali del XIX e XX secolo. Con relazioni internazionali incentrate su Gatt, Bretton Woods e successive varianti che hanno gestito forme minimali d’integrazione. Emergono con chiara evidenza i limiti dell’azione statale rispetto ai processi globali di stabilizzazione.

Adesso si batte il chiodo per ripulire al più presto i bilanci delle banche dai titoli tossici. L’Amministrazione Obama predilige la via delle iniezioni di capitale fresco, pubblico e privato, con vincoli maggiori di sobrietà manageriale e trasparenza amministrativa e controlli più severi della Federal Reserve (parlare di nazionalizzazione resta un’eresia).
Colpisce la possibilità accordata alla Federal Reserve di sottoscrivere titoli del debito pubblico (si prevede un fabbisogno di 2.000-2.500 miliardi di dollari). La Fed può prestare direttamente denaro alle imprese, ma essere al servizio del Tesoro sottolinea la gravità della situazione e la propensione al rischio. Dovrà stampare nuova carta moneta, iniettando nel sistema quote significative d’inflazione, di cui si avvertiranno gli effetti nel lungo periodo. Anche il piano del Tesoro che impegna 1.000 miliardi di dollari nell’acquisto dei titoli tossici presenta molte incognite. È difficile immaginare sane convenienze lucrative attorno a titoli considerati carta straccia. E sul mercato dei “Treasury Bills” saranno presenti altri concorrenti forti, tra questi gli agguerriti Tesori di Eurolandia, creando un pluralismo dell’offerta fortemente competitivo, con evidenti ripercussioni su tutta la filiera delle discipline di bilancio.

In Europa il risanamento bancario segue strade diverse da quelle americane solo nella forma. Si fanno le nazionalizzazioni alla luce del sole, senza complessi mercatisti. Con un escamotage la Commissione Ue ha avallato le acquisizioni statali decidendo che non hanno carattere di aiuti di Stato, quasi a voler mettere in mora e ridisegnare la legislazione sulla concorrenza sotto la pressione della crisi.
Sono una trentina i salvataggi importanti già effettuati. La prudenza ha messo al riparo d’insolvenza le banche italiane, ma in presenza di nuove condizioni di competitività post-crisi potrebbero risultare svantaggiate rispetto alle banche americane e inglesi ricapitalizzate.
Prescindendo comunque dai rischi di tenuta del dollaro, il paesaggio dell’economia è destinato a cambiare profondamente. Dovendo coinvolgere in chiave sistemica alcuni Paesi emergenti, nuovi assetti di potere si profilano sull’orizzonte geopolitico. All’era del “direttorio” succederà quella di un multilateralismo dialettico, responsabilizzando maggiormente le istituzioni internazionali nella gestione dei problemi di cooperazione e interdipendenza (sono da rivisitare e adeguare i compiti della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale, delle Agenzie Onu – e in Europa della Banca europea degli investimenti e della Banca per la ricostruzione e lo sviluppo – va data più attenzione ai lavori della Commissione di esperti delle Nazioni Unite per la riforma del sistema monetario internazionale).
Restituire fiducia al ciclo del credito resta elemento primario e trainante per dare dinamismo alle fluttuazioni dell’economia (già nel 1873 Walter Bagehot aveva descritto con lucidità i meccanismi amplificatori del credito – si legga il suo Lombard Street). Soprattutto in presenza di un’economia reale in stato di emergenza, impegnata a sfoltire, a snellire le strutture pesanti, a rinnovare e innovare processi e prodotti.

Volendo indicare un approccio di tendenza si può sussurrare che si va verso un’economia della densità promossa da grandi consolidatori (pubblici più che privati) che daranno vita a nuovi scenari d’integrazione. Con il rischio che accanto alle tradizionali categorie di diritti si costituiscano nuove categorie di pseudo-diritti collegate ai sussidi e alle altre forme d’intervento pubblico (le banche privilegiano già l’utilizzo del denaro fresco sul versante della patrimonializzazione, più che su quello del credito).
Dovrebbero essere tutti consapevoli che dal forte indebitamento si rientra alzando e controllando l’inflazione con metodi virtuosi, intraprendendo un’opera moralizzatrice dei consumi, creando una nuova gerarchia di valori competitivi e identitari.
Si profilano nuove, imponenti aggregazioni di capitali e tecnologie che condurranno ad una profonda riorganizzazione della divisione internazionale del lavoro. Si uscirà dalla cristallizzazione del potere, ma già circolano e restano sospese alcune domande rilevanti.

Lapaola

Lapaola


I talenti governativi che elaborano i progetti d’intervento per banche e imprese lavorano per l’affermazione dello Stato-Mercato o per l’ampliamento dello Stato-Apparato? Prevarranno i restauratori (neo-corporativi o neo-collettivisti) o i riformatori liberal di un’economia drogata? Gli uffici di vigilanza delle Banche centrali avranno poteri di controllo sul denaro “di emergenza” impegnato nelle operazioni di salvataggio?

Alcuni paletti per la partecipazione, la durata, la trasparenza degli interventi si rendono necessari. Quando si nazionalizza per sanare, per restituire redditività alle imprese e poi vendere, si fa una normale operazione di mercato. In ossequio ad una pragmatica e virtuosa alternanza Stato/Mercato, estranea a ideologiche esaltazioni di statalismo o mercatismo. Due espressioni fondamentaliste che continuano ad avere forti capacità seduttive.
L’occasione resta unica e originale anche per delineare un nuovo modello di sviluppo, tenendo nella dovuta considerazione una duplice esigenza: riqualificare e rinnovare il parco delle offerte e dare valore etico alla selezione dei consumi. Possiamo considerare maturo il bene automobile? Con quali alternative di mercato? Possiamo utilizzare su vasta scala fonti energetiche sostitutive del petrolio e dei suoi derivati? Possiamo ridimensionare l’uso smodato delle plastiche e utilizzare prodotti chimici “neutri”, a tasso zero d’impatto ambientale?

Sono tematiche di primo piano da decenni, sempre accantonate per ragioni di benevolenza verso i poteri lobbistici. Adesso coinvolgono direttamente gli Stati, le loro espressioni governative, il loro modo di fare Impresa. Si può non condividere il manifesto della decrescita del francese Serge Latouche (Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008), ma meritano considerazione alcune sue riflessioni sui paradossi della modernità insostenibile.
La sola manovra anticiclica risulta debole, fa pensare a provvedimenti tampone che possono produrre un ulteriore sperpero di denaro quando viene assegnato ad attività sulla via del tramonto.
La generale espansione della spesa pubblica suggerisce la ricerca di un livello minimo di coordinamento macroeconomico sovranazionale per dare input uniformi agli impieghi e alle discipline di bilancio. Fermo restando che ogni Paese dovrà attuare al suo interno una vasta gamma di relazioni di scambio con tutte le forze economiche, un do ut des giocato sul filo di qualche punto di Pil per dare ai mercati finanziari segnali precisi di riordino strutturale rigoroso, credibile, talvolta impopolare. Se non assume il significato di una parolaccia, potremmo parlare di una nuova etica del compromesso per politici e forze sociali.

Temi spinosi, perché mettono a rischio fette cospicue di consenso in una stagione della democrazia sovraccarica di momenti elettorali. Abbiamo così toccato il punto più critico per noi, quello dell’Europa politica. In America Obama parla agli americani, in Europa chi parla agli europei? Le forze centrifughe della crisi stanno mandando in tilt consuetudini e comportamenti. Nell’habitat culturale europeo si vanno opacizzando l’orgoglio teutonico, la grandeur francese, l’inglesitudine vittoriana. Tre motivazioni forti dell’atavico antagonismo, del tenace radicamento degli opposti ideologici con la conseguente sterilità delle politiche ghettizzate. Questo fattore di maggiore coesione sociale non viene colto da nessuno, restano i poteri solitari e le tentazioni nazionaliste delle élites che continuano a far muovere gli Stati in ordine sparso, mentre il mercato accresce ogni giorno l’intreccio delle interconnessioni drammaticamente amplificato dalla Grande Crisi.
Abbiamo l’euro e la Banca europea, ma non abbiamo una Vigilanza europea, non abbiamo l’eurobond né una dimensione europea del credito. Non abbiamo un contratto di lavoro europeo con garanzie minime (salario, previdenza, ecc.) per tutti i lavoratori del Nord, del Sud, dell’Est.
Questioni delicate presenta anche la valutazione dei titoli statali del debito pubblico in un contesto di progressiva armonizzazione delle politiche di bilancio (il PIL è ancora un utile parametro di riferimento?). Accanto all’euro sono attesi altri stabilizzatori manovrabili centralmente per cercare standard di convergenza capaci di ridurre le forti asimmetrie tra le economie nazionali (la Borsa di Wall Street rappresenta tutta la realtà economica americana, in Europa invece le Borse sono affette da strabismo: Londra, Parigi, Francoforte, Milano rappresentano più la realtà finanziaria, meno quella produttiva).
La Grande Crisi aggiunge squilibri a squilibri, porta nuovo disordine facendo saltare la tradizionale alleanza Mercato-Stato sociale, rendendo più spietato e ufficiale l’eterno conflitto tra capitalisti remunerati dal mercato e manager retribuiti dai bilanci aziendali. Sono attesi nuovi equilibri geopolitici e nuovi traguardi di Civiltà del Lavoro (si guarda molto all’economia globale, molto poco alla società globale). La bottega dei soccorsi ha appena aperto i battenti. Riuscirà a traghettarci dall’era del Declino a quella della Responsabilità? Saltando steccati, frontiere e nicchie istituzionali?
Al momento registriamo un imbarazzante senso di attesa. Con il diavolo, irresistibilmente attratto dalle prime fiammelle di speranza, che si nasconde tra le pieghe dei provvedimenti, nei silenzi, nella sconcia solidarietà di classe, di casta, di partito, di municipio.

   
   
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