Giugno 2009

mare nostrum, tra schiavi e corsari

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Gli uomini che
venivano dal mare

Dimab
Mabel

 

 
 

Ancestrali paure.
Il disagio per
gli sbarchi odierni esprime anche
l’angoscia vissuta per secoli, quando l’apparizione in mare di una vela
sconosciuta era causa di terrore.

 

 

 

 

 

 

 

 
“Il Gran Visir
e il suo consigliere”, in una modernissima interpretazione del neretino Nino Della Notte.(1979).

“Il Gran Visir e il suo consigliere”, in una modernissima interpretazione del neretino Nino Della Notte.(1979).

Qualcosa come quindici secoli fa, imbarcazioni di fortuna cariche di disperati salpavano dalle coste dell’Africa del Nord, dal Mediterraneo orientale, dai porti balcanici, alla ricerca di una nuova vita in terra italiana. Sbarcavano in Puglia, in Sicilia e in Calabria, accolti dalle autorità locali che li sfamavano e cercavano di organizzare la loro sistemazione sul posto, oppure li facevano affluire più a nord, verso Roma.
Non erano, come ai nostri giorni, i dannati della terra in fuga dalla miseria: erano i profughi dell’immenso sfacelo dell’Impero Romano, in fuga davanti ai berberi che devastavano l’entroterra libico, agli eserciti persiani che cercavano di conquistare lo sbocco al mare in Siria, ai biondi vandali che dalle steppe ucraine si erano spinti fino al continente africano, alle primitive tribù slave che tracimavano nella penisola balcanica, e infine alla più travolgente e duratura di tutte le invasioni, quella delle popolazioni arabe, infiammate dalla predicazione del Profeta.

Nunzio Pacella

Nunzio Pacella


Dunque, all’epoca non erano i poveri a cercare scampo: costoro restavano sul posto, imparavano a convivere con i nuovi dominatori, e col passare del tempo ne assumevano l’identità. Prendevano le vie dell’esilio vescovi e generali, latifondisti e senatori, chierici e monaci, certi che l’Impero avrebbe saputo in qualche modo ricollocarli e far uso del loro capitale umano. Per sopravvivere dopo avere attraversato il mare non dovevano imparare regole di una cultura ignota: tutti si esprimevano in latino o in greco; tutti si sarebbero trovati a casa loro in un’Italia ancora cosmopolita, in una Roma ricca di comunità greche, copte, siriane e armene, e dove più d’uno di quei profughi orientali sarebbe diventato anche Papa.

Un orizzonte ben diverso rispetto a quei profughi contemporanei che si usa etichettare come i nuovi schiavi: per loro, forse, l’analogia più immediata è quella con gli schiavi veri, che nel corso di molti secoli il Mare Nostrum ha riversato sulle coste italiane. Schiavi dell’Impero Romano, provenienti dalla Grecia, dall’Asia Minore, dalla Siria, importati via mare per lavorare nelle miniere e nei latifondi padronali, riconoscibili dai loro nomi greci in mezzo alla popolazione latina della Penisola. Noi conosciamo i più fortunati, quelli che i padroni, apprezzando la loro intraprendenza, trasformavano in liberti, in uomini semiliberi, e avviavano subito agli affari.
Innumerevoli epigrafi ci parlano del cammino che poteva compiere uno schiavo orientale diventato imprenditore sotto la protezione dell’ex padrone. Nella società delle città italiane i liberti diventavano quasi senza eccezione uomini rispettabili, membri di quei collegi sacerdotali che erano un po’ l’equivalente del Rotary: ma si portavano dietro per sempre il vecchio nome greco, aggiunto come cognomen al nuovo nome da cittadino romano. È sufficiente scorrere le iscrizioni ritrovate, ad esempio, in Piemonte, per riconoscerli dappertutto: Tito Cordio Menelao, Quinto Ottavio Eraclide, Marco Attilio Eros…

Nello Wrona


Ma non è soltanto nell’antichità che il Mare Nostrum ha riversato schiavi nel nostro Paese. Pochi sanno che nel Basso Medioevo e nel Rinascimento i mercanti di Pisa, di Genova e di Venezia, padroni dell’economia europea, forti di una rete di società commerciali con filiali in tutto il Vicino Oriente e fino al Mar Nero, importavano sistematicamente schiavi nella Penisola. Non era più un prodotto di massa, ma una merce di lusso. Nel senso che la tratta non serviva per fornire forza-lavoro a campagne che erano ormai sovrappopolate, ma per il lavoro domestico nelle dimore dei ricchi: il che chiarisce come mai si trattasse quasi esclusivamente di donne. Erano more, turche, tartare: comunque, “pagane”, e per questa ragione riducibili legalmente in schiavitù, anche se poi sotto queste etnicità generiche riuscivano a superare le dogane anche le russe, le greche o le caucasiche.
Figure silenziose, le ritroviamo nei palazzi dei principi o nelle case dei mercanti, indicate tranquillamente con la loro condizione di schiave negli atti d’acquisto, nei testamenti e nella corrispondenza: significativa una lettera di Onorato Caetani, comandante della fanteria imbarcata sulle galere pontificie nelle acque di Lepanto, che nel comunicare alla madre la vittoria promette di portarle in regalo «le più belle schiave turche che si possano vedere».
Ma non tutti i forestieri che sbarcavano sulle spiagge italiane provenienti dal Mezzogiorno o dal Levante erano profughi o schiavi. Per molto tempo gli uomini del mare sono giunti anche con le armi in pugno, spargendo il terrore. Era così, in fondo, già al tempo degli antichi greci. Nei libri di storia, le antiche colonizzazioni che hanno creato la Magna Grecia sono sempre considerate dal punto di vista di quegli avventurosi navigatori, portatori di una grande civiltà.
Sarebbe necessario provare a guardarle con gli occhi delle popolazioni locali, più arretrate e male armate, che vedevano comparire le triremi all’orizzonte, e poi sbarcare quegli uomini ingegnosi e spietati, con il loro nuovo modo di combattere in schiere serrate di opliti in cui Victor Hanson vede nascere «l’arte occidentale della guerra», e con i segreti tecnologici della scrittura e della moneta, che tutte le popolazioni del Mediterraneo furono costrette a imitare da loro per non essere del tutto cancellate.

La diruta
torre saracena dei Pali,nel Capo di Leuca - Archivio BPP

La diruta torre saracena dei Pali,nel Capo di Leuca - Archivio BPP


In tempi più vicini a noi, a partire dall’età del Rinascimento, sono le galeotte dei corsari barbareschi a portare il terrore dal mare, intercettando i battelli da carico e le barche da pesca anche in vista di Gaeta o di Ancona, sbarcando a saccheggiare i villaggi e le cittadine e a portare via schiavi persino al lido di Ostia o dentro le mura otrantine. Un incubo durato fino al primo Ottocento: quando Rossini si permette di mettere in burla quei nemici terribili nell’Italiana in Algeri, lo spavento che essi provocavano è ancora un ricordo vicino. Il disagio e le proteste suscitati dagli sbarchi odierni fra le popolazioni più esposte esprimono forse anche la memoria delle angosce che i loro antenati hanno vissuto per secoli, quando l’apparizione di una vela sconosciuta provocava il terrore, e gli abitanti dei villaggi si ritiravano sulle alture, perché vivere nelle marine era diventato eccessivamente pericoloso.

E tuttavia, persino in quell’epoca in cui davvero il Mediterraneo era una frontiera incandescente, basta scendere sotto la superficie delle cose per scoprire l’impossibilità di suddividere nettamente gli uomini in due campi contrapposti. Nel 1581 Diego de Haedo, nella sua descrizione di Algeri, elenca i rais dei trentacinque vascelli corsari con base nella metropoli maghrebina: ben venticinque sono cristiani rinnegati, e fra costoro sei genovesi, due veneziani, un calabrese, un siciliano, un napoletano, un corso. Rinnegati: schiavi catturati in mare, che si sono fatti musulmani e hanno preso nome turco per sfuggire alle catene, e che poi hanno fatto carriera, come la facevano i liberti nell’Italia romana, diventando padroni di battello, e talvolta anche molto di più. Come quel Dionigi, calabrese, e quel Cigala, genovese, che fra Cinque e Seicento comandarono uno dopo l’altro la flotta imperiale dell’Impero Ottomano; e il secondo lo conosciamo tutti, perché è il protagonista di una canzone di Fabrizio De André, Sinan Capudàn Pascià.
Vicende terribili, le loro; vicende di violenza e di sopraffazione. Ma oggi gli storici turchi ci chiedono come mai uomini di così grande talento, se fossero rimasti nelle loro case, nei loro paesi, erano condannati a restare per sempre marinai o pescatori. Altre società mediterranee, allora, erano più aperte di quella europea, irrigidita dal mito della nobiltà e del diritto di sangue.

Aura Muia - www.associazioneobiettivi.it

Aura Muia - www.associazioneobiettivi.it


Oggi le parti si sono invertite, e i disperati che sbarcano sulle nostre spiagge sono i nuovi rinnegati, nel senso che sono pronti a buttare in mare il passato per vivere una nuova vita in un’Europa nella quale, nel loro immaginario, tutte le possibilità sono aperte, o sono a portata di mano.
Proprio per questo chiamarli disperati è una contraddizione, perché a spingerli a sfidare il mare è proprio la speranza. Ma se le parti si siano ribaltate fino in fondo lo sapranno soltanto gli storici del futuro: davanti a loro dovremo rendere conto di quanti fra gli sbarcati di Lampedusa o delle coste pugliesi, siciliane, calabresi, saranno diventati ammiragli della flotta imperiale.

   
   
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