Giugno 2009

distribuzione delle risorse, non vero decentramento

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Federalismo
pre-secessionista?

Monica Marano
Eugenio Venditti

 

Coll.: Rosalba Del Giudice
Marcello D’Orazio
Gianna Marotta
 
 

Quel che accade da noi, in modo così confuso e per tanti versi poco chiaro sui veri fini dell’operazione politica voluta, non è federalismo:
è soltanto
una mediocre
soluzione di basso livello scientifico
e politico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al grande Carlo Cattaneo farebbe orrore quello che è stato definito «questo nostro miserabile dibattito sul federalismo» condotto in chiave economica, anzi «in chiave contabile-fiscale». In realtà, anche se Cattaneo non tratta mai espressamente il federalismo da un punto di vista specificamente ed esclusivamente economico e del federalismo fiscale, la sua concezione di federalismo sottintende anche un versante – appunto – economico e fiscale.
Si tratta di una concezione molto semplice e lineare, che è quella propria del federalismo definibile “allo stato puro”. Salvo le grandi funzioni che vengono conferite allo Stato federale (difesa, moneta, commercio internazionale, politica estera), tutte le altre attività vengono svolte e finanziate direttamente dai governi locali. Ogni governo locale realizza un certo livello di servizi e il suo costo viene a gravare, con le imposte locali, sui cittadini, che hanno così la possibilità di partecipare all’amministrazione e alla politica locale e di giudicarla.
Questa impostazione presuppone l’accettazione di possibili disuguaglianze nei diversi territori. Nella pratica, i principali Stati federali non applicano il federalismo e il federalismo fiscale nella loro forma pura, che Cattaneo sosteneva. In tutti i casi rilevanti (a partire dagli Stati Uniti fino alla Germania, all’Australia, al Canada) il governo federale distribuisce fondi rilevanti ai territori più deboli, per assicurare almeno un minimo livello di uguaglianza dei cittadini, a prescindere dalla loro residenza, attuando le cosiddette politiche di perequazione.
Due punti, però, sono certi:
-  il federalismo è una concezione politico-democratico-istituzionale che non va confusa con il roboante e ingannevole concetto di federalismo fiscale;
-  non si può neppure parlare di federalismo fiscale quando gli enti locali non hanno significative entrate proprie (come è in Italia anche con la nuova legge), oppure quando significative voci di spesa sono sostanzialmente governate dal centro (come è in Italia per la voce di spesa delle regioni di gran lunga più importante, e cioè la spesa sanitaria).

Quel che è accaduto e accade da noi, in modo così tormentato, confuso e per tanti versi poco chiaro sui veri fini dell’operazione politica voluta, e meglio ancora imposta dalla Lega, non può oggettivamente essere chiamato né federalismo né federalismo fiscale. È soltanto una mediocre soluzione di basso livello scientifico e politico sulla distribuzione tra entrate centrali e locali, come ce ne sono state tante nei circa centocinquant’anni di Unità nazionale.
In una splendida lezione tenuta ai primi di marzo all’Università Cattolica, il professor Piero Giarda ha ricordato che probabilmente il massimo grado di federalismo fiscale è stato raggiunto da noi sotto il regime fascista, con il Testo Unico della Finanza locale del 1931, che pose le entrate fiscali locali e segnatamente comunali su una solida base di autonomia, con l’imposta di famiglia, le imposte di consumo, le sovraimposte sui redditi fondiari e sul reddito generale. Il centralismo fiscale assoluto, invece, è stato raggiunto nel corso degli anni Settanta con la Riforma Visentini e con i decreti Stammati del 1977, che abolirono totalmente ogni autonomia fiscale e locale.

Archivio BPP

Archivio BPP


Giarda ha deliziosamente intitolato la sua rigorosa lezione La favola del federalismo fiscale. Ma c’è chi è tentato di esprimersi in termini molto duri, ricordando che gli attuali “federalisti” hanno contraddittoriamente eliminato l’unica imposta locale, l’Ici.

Con la morte di Carlo Cattaneo, a Castagnola, nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 1869 (esattamente centoquarant’anni fa) la sua voce non si spense. La consapevolezza che la soluzione centralistica era una forzatura per un Paese così diversificato come l’Italia era presente a molti, e appena passata la fase acuta dell’avvio del nuovo Stato si ricominciò a parlare di autonomia e di decentramento.
Già nel 1866 era stata presentata in Parlamento una proposta di legge in chiave autonomista e di decentramento; nel 1868 Stefano Jacini aveva pubblicato il più importante progetto regionalista della storia dello Stato liberale (dal titolo La riforma dello Stato e il problema regionale); nel settembre 1870 lo stesso Jacini e Panza di San Martino avevano indetto a Firenze un grande incontro di uomini della Destra e della Sinistra favorevoli al decentramento. «L’Italia – affermava il programma finale – ha bisogno di una modificazione del suo organismo governativo nel senso di attuare il massimo possibile del decentramento dei pubblici affari che sia compatibile coll’Unità politica dello Stato […]. Al Governo Centrale i grandi interessi comuni, a tutta la nazione e ai partiti politici rappresentati nel Parlamento nazionale la lotta intorno a questi, e agli interessi locali invece maggiori possibilità di essere liberamente e con grande cognizione di causa amministrati da coloro cui direttamente li riguardano».
L’elemento di maggiore novità in questa concezione era quello dello Stato come associazione di associazioni, una concezione tipicamente cattaneana. A partire dal 1878 furono i seguaci di Cattaneo riuniti nella rivista Repubblica (diretta da Alberto Mario e voluta da Arcangelo Ghisleri, rivista dichiaratamente federalista, tanto che doveva poi prendere il nome Il Cattaneo) a tenere desta l’idea federalista che il grosso della Sinistra al governo aveva totalmente abbandonato, per schierarsi a favore del nuovo ordine “regio e unitario”. La rivista si pose come raccordo tra la generazione federalista di Cattaneo, Ferrari, Macchi, Mario e Gabriele Rosa, e le nuove generazioni repubblicane e socialiste che si collocarono in una posizione di contrasto allo Stato monarchico, unitario e accentratore.


Cattaneo, dunque, continua a parlare, sul tema delle autonomie, in Arcangelo Ghisleri (con il suo Circolo Cattaneo di Cremona, 1879); in Napoleone Colajanni (Questione sociale e libertà, 1879, e Istituzioni municipali, 1882); in Aurelio Saffi (Lezioni d’oltre Atlantico, 1902); nello stesso Minghetti (I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nella amministrazione, 1881); nell’Associazione Costituzionale e nel Circolo popolare di Milano (1888); nell’azione del tecnologo e parlamentare milanese Giuseppe Colombo (eletto nel 1886 e protagonista di una lunga stagione, il giovane deputato meneghino si rifaceva ad entrambi i filoni della tradizione regionalistica italiana: quello liberal-moderato dei Minghetti e dei Farini, e quello repubblicano federalista di Cattaneo e di Ferrari, e combatté il giacobinismo di Crispi che faceva dell’Italia «una delle nazioni più burocratiche del mondo»); in Treves di Critica sociale e nei movimenti socialisti soprattutto milanesi di fine secolo che, come Cattaneo, legavano il tema dell’autonomia locale alla “lotta per la libertà”; nella ricca schiera degli studiosi della questione meridionale (da Renta a Niceforo, al socialista Ettore Ciccotti che indicava per il Sud la soluzione federalista secondo il modello svizzero in Attraverso la Svizzera, del 1899; in Maffeo Pantaleoni, in Francesco Saverio Nitti, e soprattutto in Gaetano Salvemini, che si rifaceva espressamente a Cattaneo, la cui conoscenza approfondita aveva fatto quando era stato insegnante di Storia in un liceo di Lodi (1898-‘99), e che riusciva a fondere, in forma originale, il meridionalismo radicale di Nitti, il liberalismo di Antonio De Viti De Marco e il federalismo di Cattaneo; nel grande municipalismo di Sturzo, che si definiva «unitario ma federalista impenitente», e che come Cattaneo legava strettamente le autonomie locali e soprattutto comunali al principio di libertà; nell’opera immensa di Luigi Einaudi svolta, con costante coerenza, nell’arco di oltre mezzo secolo; nei movimenti social-liberali come “Giustizia e Libertà”, nell’ambito della quale Rosselli, nel 1934, disse parole che avrebbero potuto tranquillamente essere firmate da Cattaneo: «Vi è un mostro nel mondo moderno – lo Stato – che sta divorando la Società […]. Questo Stato bisogna abbatterlo […]. La rivoluzione italiana, se non vorrà degenerare in una nuova statolatria, in più feroce barbarie, dovrà sulle macerie dello Stato fascista e capitalista far risorgere la Società, federazione di associazioni quanto più libere e varie possibili. Avremo bisogno anche domani di una amministrazione centrale di un governo, ma così l’una come l’altra saranno agli ordini della società e non viceversa. L’uomo è il fine. Non lo Stato».

I teorici e i politici

Carlo Cattaneo (1801-1869).
Il precursore: tutte le funzioni in periferia.
Patriota e filosofo, padre del federalismo su modello confederale. Per lui, salvo le grandi funzioni – difesa, moneta, commercio internazionale e politica estera – attribuite allo Stato, tutte le altre attività devono essere svolte e finanziate direttamente dai governi locali: il costo viene sostenuto dai cittadini con le imposte locali.

Gaetano Salvemini (1873-1957).
L’integrazione con il meridionalismo.
Politico e filosofo, teorico della questione meridionale. Fece la conoscenza del pensiero di Cattaneo mentre insegnava al liceo di Lodi nel 1898-1899. Riuscì a fondere in forma originale il meridionalismo di Francesco Saverio Nitti, il liberalismo di Antonio De Viti De Marco e il federalismo di Cattaneo.

Luigi Sturzo (1871-1959).
Il municipalismo delle libertà.
Politico e teorico del municipalismo, fondatore della Democrazia Cristiana. Il sacerdote e politico siciliano si definiva «unitario ma federalista impenitente». Al modo di Cattaneo, legava strettamente le autonomie locali, e soprattutto comunali, al principio di libertà.

Konrad Adenauer (1876-1967).
Il coinvolgimento dell’Europa.
Cancelliere tedesco dal 1949 al 1963, tra i Padri dell’Unione europea. A Colonia, nel 1946, pronunciò uno storico discorso che diventò subito il suo manifesto politico: «Mai più lo Stato-nazione, mai più lo Stato etico, ma una Germania federale per un’Europa federale».

Bruno Visentini (1914-1995).
La cesura degli anni Settanta.
Politico e giurista, autore della riforma tributaria del 1974. Le basi dell’autonomia fiscale sono state poste dal Testo Unico del 1931. Il più alto grado del centralismo fiscale è stato raggiunto negli anni Settanta, con la riforma Visentini e i decreti Stammati del 1977.

Sono parole non dissimili nella sostanza da quelle che il grande settantenne Konrad Adenauer pronunciò nel marzo 1946 all’Università di Colonia, ergendosi (in quello che fu giustamente definito da James Rice Johnson «uno dei più importanti discorsi nel mondo del dopoguerra, quello che segnò il vero inizio della nuova politica della Germania e dell’Europa occidentale») contro il mito dello Stato-nazione e contro il giacobinismo-centralista della sinistra marxista. Disse Adenauer: «Siamo prima persone, cittadini, europei e poi tedeschi, mai più lo Stato-nazione; mai più lo Stato etico. Vogliamo una Germania federale per un’Europa federale».
Dunque, non è vero che Cattaneo fu una voce isolata. Cattaneo rappresenta un anello importante di una grande tradizione nella quale si ritrovano il grande liberalismo, il miglior socialismo non marxista, la grande tradizione cattolico-liberale. Una lunga catena che, volendo, nella nostra epoca possiamo far nascere dai federalisti, e che non è mai finita, essendo sempre a rischio, come lo è oggi, minacciata in forma sempre più intensa dai portatori di una visione che vede la rinascita di neostatalismi e neototalitarismi, sia pure mascherati.

Questo excursus storico agevola le conclusioni sui cinque temi che sembrano più importanti e più attuali del federalismo di Cattaneo:

- il federalismo è uno strumento per unire e non per dividere, per la pace e non per la guerra, per facilitare la tenuta e la ricostruzione del tessuto sociale e non per inserire nello stesso nuove lacerazioni;

- il federalismo non è soltanto un meccanismo istituzionale, ma è soprattutto uno strumento per la garanzia delle libertà civili e politiche. È la fede nella libertà, nella responsabilità individuale, nell’autonomia che anima il federalismo. La meta per Cattaneo non è il federalismo in sé, ma la maggior libertà possibile, civile, economica, politica: è la formula che meglio aiuta a perseguire questo obiettivo;

Nello Wrona

Nello Wrona

- il nucleo fondante del federalismo sono i comuni, la particella prima del tessuto sociale e democratico. «I comuni sono la nazione: sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà»: il Comune è «uno Stato elementare, permanente e indissolubile». «Chi in Italia prescinde da questo amore delle patrie singolari, seminerà sempre nell’arena». È proprio grazie alla ricchezza e alla molteplicità delle sue città che «l’Italia è storicamente e fisicamente federale»;

- il diritto federale è diritto dei popoli. «L’unità senza libertà» è un falso indirizzo. E «dietro questi falsi indirizzi si svia la libertà, dietro le visioni della grandezza, della gloria, del primato si oblia il diritto». È necessario che ogni popolo «tenga le mani sulla sua libertà». «No, qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propagata tra le famiglie e le comuni, un parlamento radunato in Londra non farà mai contenta Ginevra: le leggi discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, né una maggioranza piemontese si crederà mai in debito di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà rendere tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o in Milano.
Ogni popolo può avere molti interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo li intende. E v’è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la gelosia dell’avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il diritto dei popoli; il quale debba avere il suo luogo, accanto al diritto della nazione, accanto al diritto dell’umanità»;

- federalismo non vuol dire gretto localismo. Vuol dire farsi animatori dell’«alacre sviluppo della vita locale», basato su una «soda libertà», ma tutto ciò per essere soggetti attivi, solidamente piantati nel proprio territorio, ma proiettati in uno spazio culturale, civile e politico generale, perché il federalismo unisce e non separa.

   
   
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