Giugno 2009

medaglioni / 1. IL BRACCIANTE SINDACALISTA, DA CERIGNOLA

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Giuseppe Di Vittorio

Egidio Sterpa

 

 
 

Nel 1956,
quando scoppiò
la rivoluzione
in Ungheria, votò con i socialisti
un documento di condanna per
l’intervento dei carri armati russi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non meravigli che io voglia qui ricordare Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista comunista più noto che una recente fiction televisiva (“Pane e libertà”) fa quasi una leggenda.
Mi accadde di conoscerlo negli anni Cinquanta, quand’ero redattore de Il Tempo di Renato Angiolillo, a Roma. Ogni tanto andavo a Palazzo Montecitorio, dove qualche volta mi faceva da “chaperon” Carlo Belli, redattore parlamentare del giornale, ch’era un intellettuale e letterato di grana molto fine, autore di un libro degli anni Trenta, dal titolo Kn, che il grande Kandinsky definì «il vangelo dell’arte astratta». Straordinario personaggio, Belli, futurista marinettiano: quel suo libro, pubblicato per le edizioni Il Milione di Milano, piacque molto a Bontempelli, che lo presentò all’Accademia d’Italia. «E ora eccomi qua – mi disse una volta – a fare il cronista delle chiacchiere parlamentari».

© Palomar Spa

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Non era il solo: lo fece, per vivere, Adriano Grande, che per Il Tempo seguì i lavori del Senato negli anni Cinquanta-Sessanta. Grande era un poeta della caratura di Montale, ligure come lui, che i dizionari letterari ricordano come direttore di due importanti riviste, Circoli e Maestrale. Fu così affettuoso con me da leggere il manoscritto del mio primo libro, Gli ultimi italiani, incoraggiandomi. Avevo appena vent’anni, lui era del 1897.
Ma veniamo al mio incontro con Di Vittorio nel Transatlantico di Palazzo Montecitorio. Era una mattina della primavera del 1952 ed era in corso una seduta. Dopo un caffè alla “buvette”, con Belli passeggiammo nel Transatlantico. Fu così che c’imbattemmo in Di Vittorio. Era riconoscibilissimo naturalmente: robusto, folta capigliatura, qualche filo grigio (aveva allora 60 anni, morì cinque anni dopo, a 65 anni), viso forte da ex contadino, mani nervose (la sua stretta di mano fu vigorosa), sguardo diritto, fermo, cordiale però.
Tra Belli e Di Vittorio, nonostante la differenza di opinioni e di posizioni politiche – Il Tempo era un grande giornale liberale di centrodestra –, c’era schietta cordialità. Mi raccontò poi che a Di Vittorio una volta pose questa domanda: «Che ne farete del mio giornale se andrete al potere?». Ebbe questa risposta: «E perché dovremmo farvi del male? Continuerete ad essere un giornale, di opposizione finalmente».

In queste pagine, alcune scene della fiction televisiva “Pane e libertà” del regista Alberto Negrin, con Pierfrancesco Favino e Raffaella Rea (Fonte: Archivio
Associazione Casa Di Vittorio. Si ringrazia il suo direttore, Giovanni Rinaldi, per la gentile collaborazione). - © Palomar Spa

In questo articolo, alcune scene della fiction televisiva “Pane e libertà” del regista Alberto Negrin, con Pierfrancesco Favino e Raffaella Rea (Fonte: Archivio Associazione Casa Di Vittorio. Si ringrazia il suo direttore, Giovanni Rinaldi, per la gentile collaborazione). - © Palomar Spa


A me quel giorno il grande sindacalista (era dal 1945 segretario generale della CGIL e dal 1949 presidente della Federazione sindacale mondiale) si rivolse così: «Tu sei ragazzo ancora, può insegnarti molto questo tuo bravo vecchio collega, soprattutto può insegnarti a rispettare gli avversari». Mi diede del “tu” e io ovviamente replicai col rispettoso “lei”. «Sì – dissi – ho tanto da imparare, ma intanto voglio dirle che, anche se milito sull’altra sponda del fiume, mi fa piacere conoscerla».
Una risata a tre e una bonaria pacca sulle mie spalle da parte dell’ex contadino di Cerignola conclusero l’incontro.
Mi par di sentirla ancora quella risata di Di Vittorio, larga, aperta, gioviale. Raccontai di quell’incontro ai contadini del mio paese, amici d’infanzia alcuni, per i quali Di Vittorio era un’autentica bandiera. Quasi non ci credevano che mi avesse stretto la mano. Sapevano come la pensavo, e il grande sindacalista per loro era un mito. Non li capacitava che avesse dato confidenza ad un giovanotto ancora alle prime armi nel mondo della carta stampata. Un successo lo ottenni, però: ogni volta che li rivedevo mi chiedevano se avessi ancora incontrato il loro idolo.
Capitò ancora che lo incontrassi. Ero io a salutarlo per primo, un po’ timidamente, perché pensavo che lui non poteva certo ricordarsi di me. Eppure accadde che una volta fosse lui a rivolgermi un saluto con la mano.

Un giorno mi ritrovai in un gruppo di giornalisti intorno a lui, sempre a Montecitorio. Si discuteva di manifestazioni che erano in corso. M’azzardai a parlare di lotta di classe. «Che ne sai tu – disse – del lavoro degli operai e dei contadini? Zappare, battere il maglio, portare in spalla la cofana colma di malta non è come sfogliare un libro o guidare una penna su un bloc-notes». «Guardi, onorevole – gli replicai con un po’ di supponenza giovanile – che mentre frequentavo l’Università, verso la fine degli anni Quaranta, ho fatto il bracciante, con vanga e pala, a Montebello, sopra Prima Porta, qui a Roma. Avevo bisogno di guadagnare per comprarmi libri e pagare le tasse scolastiche». Mi sorrise, lessi nel suo viso e nei suoi occhi interesse e comprensione: «Davvero? – disse –. Ora possiamo contare sulla tua benevolenza». C’era ironia nella sua replica, ma anche indulgenza. Finì lì, con un sorriso reciproco.
Lo confesso, quel ruvido e schietto ex contadino, quel sindacalista franco, tutt’altro che artefatto, mi suscitò interesse e simpatia. Tuttora ne conservo un bel ricordo, pur non avendo mai condiviso le sue idee e quelle dei suoi compagni e soci.
Molti anni dopo, incontrando al Senato Luciano Lama, dov’era vicepresidente, gli narrai l’episodio. «Sì, era così, c’era tanta umanità in lui», mi disse. Anche a me apparve così, gli riconobbi sempre schiettezza e amore per libertà e giustizia. Certo, era un uomo molto libero. Nel 1956, quando scoppiò la rivoluzione in Ungheria, votò con i socialisti un documento di condanna per l’intervento dei carri armati russi. Il che gli valse una brutta sgridata, si fa per dire, di Togliatti, che lo costrinse a ritrattare. Fu visto piangere quando uscì da quella amarissima riunione alle Botteghe Oscure.

© Palomar Spa

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Ho visto a marzo il film “Pane e libertà” su Rai Uno, con maggiore comprensione forse di chi ha scritto sull’Unità che se ne poteva fare uno migliore. Chissà, ho pensato, forse la fiction non è piaciuta a certa sinistra perché pare sia stata suggerita da un cerignolese di destra, Pino Tatarella. Sono d’accordo col Presidente della Camera Fini, che ha giustamente detto che l’opera di Di Vittorio «fa parte del patrimonio ideale della Nazione». Di sentimenti liberali come sono, è così che concepisco la politica, senza odi, con rispetto per gli avversari, magari anche con ammirazione, quando la meritano.
   
   
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