Giugno 2009

medaglioni / 2. IL GIORNALISTA, DA FUCECCHIO

Indietro

Indro Montanelli

Egidio Sterpa

 

 
 

Modestia
artefatta, la sua,
e un po’ di
snobismo: è stato un direttore vero,
a cui piacque
tanto guidare quel
gruppo di volontari nell’avventura
più rischiosa
del giornalismo italiano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se vivesse, quest’anno, esattamente il 22 aprile, Indro Montanelli avrebbe compiuto cent’anni. Se ne andò il 22 luglio del 2001, sottraendo al giornalismo la più bella penna del Novecento.
Indro è diventato, si può dire, una leggenda, e aver lavorato con lui, com’è accaduto al sottoscritto, che pure ha una sua storia personale, è stato un privilegio. Un po’ mi inorgoglisce essergli stato vicino alla fondazione del Giornale nuovo (che fu il primo titolo), che tutti davano per impresa disastrosa per i rischi che comportava. Ci sono solo altri due casi nel Novecento che hanno rivelato giornalisti dotati di un simile ascendente: Eugenio Scalfari, creatore di    la Repubblica, e Vittorio Feltri, creatore di Libero.

 


Montanelli lo incontrai la prima volta nel 1954, in via della Mercede, a Roma, dov’era allora la sede del Corriere della sera. A presentarmi a lui, in quell’incontro casuale, fu Raffaele Mauri, vecchio collega che dirigeva la redazione romana del giornale milanese. E fu Mauri che più tardi, nel 1957, segnalò il mio nome a Mario Missiroli e a Michele Mottola, rispettivamente direttore e redattore capo in via Solferino. Quel primo incontro con Indro fu solo un saluto, una stretta di mano e un sorriso. Fu nell’ottobre 1956 che ebbi con lui un insolito e indimenticabile colloquio telefonico, che mi piace qui raccontare.
Il 1956 fu un anno di grandi avvenimenti. In giugno si ebbe notizia dal New York Times del Rapporto con cui Kruscev denunciò i crimini di Stalin (morto nel 1953). Il 26 luglio affondò in Atlantico, al largo di New York, il transatlantico italiano “Andrea Doria”. L’8 agosto a Marcinelle, in Belgio, 237 minatori, dei quali 139 italiani, rimasero imprigionati in una miniera e non se ne salvò nessuno (l’opera di recupero dei cadaveri durò venti giorni e si può immaginare la commozione, soprattutto in Italia). Il 26 luglio il leader egiziano Nasser nazionalizzò il Canale di Suez, il che provocò la dura reazione di Inghilterra e Francia, aprendo una crisi internazionale che solo il fermo intervento degli Stati Uniti, che convinsero inglesi e francesi a ritirarsi, evitò che portasse ad una guerra nel Mediterraneo. Il 23 ottobre scoppiò la rivoluzione antisovietica in Ungheria, che allarmò e appassionò l’opinione pubblica mondiale per la drammaticità dei fatti che vi accaddero.

Ero allora giovanissimo redattore capo de Il Tempo di Roma, e vissi tutti quegli avvenimenti con grande partecipazione, non solo professionale. Ci mancò poco che non mi portassi una branda nel grande Salone delle Cariatidi di Palazzo Wedekind in piazza Colonna, la sede del quotidiano fondato e diretto da Renato Angiolillo, editore e giornalista estroso e brillante, che mi aveva assunto mentre ancora frequentavo l’Università.
La redazione de Il Tempo era allora una fucina di firme autorevoli del giornalismo e della cultura: il grande Silvio D’Amico, per cominciare, e non meno importanti erano Enrico Falqui, famoso critico letterario, Italo Zingarelli, Ugo D’Andrea, Vittorio Zincone, Gianni Granzotto, Alberto Giovannini, Giovanni Artieri, Salvatore Aponte, G. A. Longo, Ettore Della Giovanna, Mino Caudana, Nantas Salvalaggio, Carlo Belli, Adriano Grande (il poeta ligure delle riviste Circoli e Maestrale), Piero Accolti Gil, Igor Man, Ilario Fiore, Renzo Nissim, Vero Roberti, e nello sport i tre fratelli Giubilo, giornalisti sportivi di grande talento, dei quali Alberto è stato, si può dire, il principe dell’ippica. Senza dimenticare, tra i grandi collaboratori che Falqui, che dirigeva la Terza Pagina, seppe reclutare, Curzio Malaparte, che Angiolillo si vantava di avere nel suo “team” e compensava con cifre che allora neppure il Corriere si permetteva. Diceva Angiolillo: «Competiamo col Corriere, abbiamo una scuderia che ci invidiano».

Budapest: nell'ordine, la cupola interna  del Parlamento - Dafne Cimino

Budapest: la cupola interna del Parlamento - Dafne Cimino

Tornato da un viaggio di un mese in America (da New York feci servizi sull’affondamento del “Doria”), quel 1956 fu per me una stagione giornalistica particolarmente emozionante. Toccò a me, giovane redattore capo, di spedire inviati speciali per seguire tutti quei fatti straordinari. E fu con la rivolta d’Ungheria che ebbi la seconda occasione di incontro con Indro.
A Budapest avevo inviato Ilario Fiore, ch’era a Vienna ad attendere il visto per recarsi in Polonia, dove era scoppiato il caso Gomulka, il premier che contestava i diktat sovietici e venne poi incarcerato e successivamente riabilitato. Notizie dall’Ungheria premevano perché si andasse a vedere che vi stava succedendo. Convinsi Fiore a non indugiare e a recarsi a Budapest, dove fece in tempo a vedere l’abbattimento di una grande statua di Stalin, il che poi gli permise di narrare le vicende della rivoluzione in un libro intitolato L’ultimo treno per Budapest.
Personalmente vissi quel dramma, anzi quella tragedia, nelle lunghe notti romane al primo piano di Palazzo Wedekind, con l’attesa di notizie davanti alle telescriventi, continue telefonate agli inviati e corrispondenti dall’estero, tentativi di mettermi in contatto con Fiore, che a Budapest alloggiava all’Hotel Duna, dov’erano quasi tutti gli inviati italiani. Non era facile allora avere la linea telefonica, anche se si provvedeva a rifornire di scatole di cioccolatini le centraliniste pubbliche (era stato Ugo Zatterin a suggerirmelo).

Budapest: una storica 'corriera' - Dafne Cimino

Budapest: una storica “corriera” - Dafne Cimino


Una mattina molto presto mi capitò di avere il Duna al telefono, ma Fiore non c’era. Chiesi allora di passarmi qualcuno dei giornalisti italiani presenti in albergo (ce n’era uno che conoscevo e feci il suo nome: Alberto Jacoviello dell’Unità). Ebbi la sorpresa e la fortuna di avere invece Montanelli al telefono. Ricostruisco a memoria quel che mi disse: «Il tuo Fiore è in giro, qui la rivoluzione c’è anche di notte, si spara e c’è gente che muore. Ora non so proprio come rintracciarlo, ma appena lo vedo gli dico che l’hai cercato. Farà di tutto, credo, come facciamo tutti noi con i nostri giornali, per farti avere il servizio, naturalmente appena gli sarà possibile. Qui, come certo immagini, c’è un gran casino». Disse proprio così: «Gran casino»; l’espressione la ricordo benissimo.
Ebbi poi, ovviamente, molte altre occasioni di incontro con Indro. Gli fui accanto a Milano quando nel teatro di Maner Lualdi, in piazzetta Sant’Erasmo, si recitò una sua commedia. Da “I sogni muoiono all’alba” trasse, come regista, un film. Infine, nel 1974 fui chiamato a partecipare all’“avventura di libertà” del Giornale, come la chiamò il grande filosofo liberale Nicola Abbagnano. Nel suo bel libro Ombre rosse Enzo Bettiza ci definì «renitenti alla leva comunista».
La telefonata di quella notte del 1956 è il più bel ricordo che ho di Montanelli. Nel 1990 mi capitò di andare a Budapest e volli godermi il piacere di visitare il nuovo Hotel Duna (il vecchio era stato demolito), portando poi un fiore nella via Pal in omaggio ai ragazzi favolosi del romanzo di Ferenc Molnar, e infine recandomi al cimitero per rendere onore alle tombe di Imre Nagy e Pal Maleter, che i sovietici impiccarono.

Indro fu un direttore assai diverso dall’archetipo classico. Racconta nel libro-intervista curato da Gastone Geron, compagno nell’avventura del Giornale: «Non avrei mai creduto, né voluto, fare il direttore. Io lo so, lo vedo, come dovrebbe essere fatto un giornale, ma mi chiesi, quando mi successe di dover fare un giornale e dirigerlo: saprei farlo? Sono due cose diverse. Io so che il mio strumento me lo suono bene, ma chi ha detto che Rubinstein sappia fare il direttore d’orchestra? Io sono uomo di impulsi, mentre il direttore deve avere i nervi saldi, vedere sempre la misura delle cose».

Budapest: la statua equestre di Santo Stefano, primo re d' Ungheria - Dafne Cimino

Budapest: la statua equestre di Santo Stefano, primo re d’Ungheria - Dario Carrozzini

Modestia artefatta, la sua, e un po’ di snobismo. In realtà, è stato un grande e vero direttore, a cui piacque tanto guidare quel gruppo di volontari nell’avventura più rischiosa del giornalismo italiano. Racconta in quell’intervista di Geron: «Ho scoperto che anch’io posso dirigere un giornale se sono circondato da amici. E infatti abbiamo fondato, unico caso in Italia, una società di redattori, avendo eletto unicamente il lettore a nostro padrone».
Nei miei bei ricordi di quel lavoro “in società” ci sono i racconti dei pomeriggi e delle serate trascorsi insieme attorno al tavolo di Indro: il suo fascismo giovanile degli anni Trenta, la collaborazione all’Universale, il quindicinale di Berto Ricci, il giovane intellettuale toscano che riunì attorno a sé intelligenze come Ottone Rosai, Mino Maccari, Ugo Spirito, Romano Bilenchi e altri spiriti indipendenti che nel conformismo del regime cercarono spazi critici. Nel 1941 Berto Ricci immolò le sue illusioni sul fronte libico. Fu in quegli anni che nacque l’amicizia di Montanelli con Leo Longanesi, che a Bologna dirigeva L’Italiano, dove andava affinando quel suo genio di controcorrente e preparò lo sfavillio delle sue battute, delle sue trovate e delle sue straordinarie vignette.
I racconti di Montanelli di quei giorni indimenticabili illustrarono, a me e ad altri più giovani, la storia di un’Italia poco conosciuta, nella quale Indro maturò esperienze e cultura: la collaborazione al Popolo d’Italia, voluta dallo stesso Mussolini; il suo soggiorno a Parigi, dove collaborò al Paris Soir; il praticantato all’United Press a New York; l’arruolamento volontario nel 1935 che lo portò in Eritrea come tenente di un battaglione indigeno, vicenda che visse come un racconto di Kipling e riversò nel libro XX Battaglione eritreo, che fece scrivere a Ugo Ojetti sul Corriere: «Non so se questa guerra in Abissinia ci darà un impero, ma intanto ci ha dato uno scrittore».
Tornato dall’Etiopia, fu assunto da Francesco Malgeri al Messaggero, che lo inviò in Spagna, da dove le sue corrispondenze anticonformiste gli crearono guai con generali e gerarchi fino al ritiro della tessera del Partito fascista. Da allora la sua storia culturale e politica fu tutta controcorrente: inviato in Estonia come lettore di italiano, assunto poi al Corriere da Aldo Borrelli, che lo spedì in Albania (Nuova Antologia, la rivista di Spadolini, pubblicò negli anni Sessanta un suo bel saggio sul mondo schipetaro), poi in Germania, Finlandia, Norvegia, Montenegro. Le sue corrispondenze, sempre tutt’altro che corrive, mai condiscendenti, gli guadagnarono l’ostilità dei tedeschi, creandogli fastidi.

un edificio crivellato dai carri armati  sovietici durante l’invasione del 1956. - Dafne Cimino

Budapest: un edificio crivellato dai carri armati sovietici durante l’invasione del 1956. - Dafne Cimino


Il resto della storia personale di Indro è noto: il carcere nel 1944, la condanna a morte, la fuga in Svizzera, quindi il ritorno e le nuove battaglie anticonformiste fino all’avventura del Giornale, la rottura con Berlusconi, l’effimera ventata de La Voce, il ritorno al Corriere. Di lui rimangono straordinari libri di storia, alcuni racconti (fu anche un bel narratore), e un’incomparabile lezione di vita. Anche il Giornale oggi è diverso da come lui lo volle. Ma il suo ricordo durerà a lungo.

   
   
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