Giugno 2009

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Sotto un cielo di macerie

Aldo Bello

 

 
 

Pare sia stato il terremoto di Lisbona del 1775 a segnare in qualche modo l’inizio dell’epoca moderna, in cui ogni evento è condiviso e si percepisce che non è possibile restare indifferenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo strappo cardiaco che ha spaccato la terra in due batteva a cinque chilometri sottoterra: pochi centimetri che si allargavano a dismisura – scossa dopo scossa, boato dopo boato – ai piedi della città di Onna, in direzione di Monticchio, lungo una stradina che porta al greto del fiume Aterno, in realtà un torrentello angusto e minaccioso che a sua volta divide in due la vallata; e dalle parti di San Demetrio ne’ Vestini, con una linea di frattura parallela all’Appennino, da nord-ovest a sud-est, lunga più di quindici chilometri.


La faglia partiva proprio da lì, attraversava il corso d’acqua e si allungava su su verso le montagne. Era l’unica traccia visibile lasciata dal sisma, la sua tragica impronta. Era l’immagine visiva e nello stesso tempo tattile del collasso che aveva sprigionato un’immensa energia, facendo detonare il terremoto: trenta o quaranta centimetri di larghezza, in cui si poteva infilare un braccio e farlo scendere fino al centro della terra. O, se si preferisce, fino alle soglie dell’inferno.
Le “dirette del dolore” avevano riservato ampi spazi mediatici all’Aquila, a Onna, a Coppito, a Paganica, a Villa Sant’Angelo, a Civita di Bagno, a Tornimparte, a Poggio Picenze, a decine e decine di centri devastati in tutto o in parte, molti non appartenenti più ai loro abitanti. L’intero Abruzzo delimitato dalle montagne della Duchessa e dal Piano di Campo Felice, dal Parco Sirente-Velino, dal Parco del Gran Sasso e dall’Altopiano delle Rocche era stato ghermito, e non tutto è stato raccontato. Crolli, evacuazioni, tendopoli facevano parte di un’odissea corale, lancinante, vissuta in luoghi che erano piccoli scrigni di tesori architettonici, sparsi quasi dalle coste adriatiche ai confini con il Lazio, con un impressionante elenco di monumenti inagibili o danneggiati.
Fra i più colpiti, quelli ai piedi della Majella, con le diverse situazioni sommariamente descritte: a rischio crollo la splendida abbazia romanica di San Clemente a Casauria; a Bussi sul Tirino, il centro storico chiuso, e transennata la chiesa di Sant’Eufemia a Majella; a Rocca di Cambio, 1.434 metri sul livello del mare, ai piedi del monte Cagno, crepe come ragnatele alla Collegiata di San Pietro, al culmine dell’abitato, con un cedimento verso il monte e altre fenditure sulla facciata, e il torrione del XIII secolo cinturato con cavi d’acciaio; due chilometri più in là, l’abbazia di Santa Lucia, con gli affreschi di scuola giottesca segnati da vistose smagliature; analoga storia per i luoghi di culto di Manoppello, Lettomanoppello e Pescosansonesco; inagibili le chiese di Caramanico, Collecorvino e Brittoli; gravemente compromesso il centro storico di Penne, gioiello con vista del mare sulle colline pescaresi; in rovina la straordinaria chiesa di Santa Maria a Fossa, così spoglia nella rusticità dei muri esterni, quanto stupenda nei freschi interni, grazie ai quali è nota come la Cappella Sistina del Medioevo, con composizioni che avrebbero ispirato persino alcuni passaggi della “Commedia” di Dante; chiuso il duomo, chiuso il convento di Colleromano, chiusa la chiesa della Santissima Annunziata; neanche un edificio di culto agibile a San Valentino; danneggiate le chiese di Roccamorice, un nido aggrappato ai fianchi della Majella; gravissime lesioni alle chiese di Torre de’ Passeri. Piange ancora la sua arte perduta la Terra del Romanico, delle pievi rustiche costruite con la pietra bianca dei monti, dei conventi che ospitavano i pastori lungo i percorsi tra i monti e il mare. Il Gran Sasso aveva fatto da spartiacque, attutendo la forza distruttiva del terremoto. E tuttavia i piccoli centri del versante teramano non si erano salvati del tutto: sgomberi a Isola Gran Sasso, Montorio, Pietracamela, Castelvecchio Subequo e Goriano Sicoli, evacuata Fagnano, danni ad Avezzano, Castellafiume e Castel di Ieri, a Celano interdetti gli edifici sacri e il castello che domina la Valle del Fucino…

L’Aquila. La città delle 99 cannelle (tante, quanti i castelli che diedero origine alla città) e delle 55 chiese ha ingaggiato a più riprese il corpo a corpo con la terra che trema. Il maglio dei terremoti fu implacabile nel corso del Medioevo, ma la città – ricostruita e ampliata da Carlo I d’Angiò – seppe risorgere, vivendo una magnifica fioritura mercantile tra il XIV e il XVI secolo, quando prese l’aspetto che per larga parte l’aveva segnata fino alla notte del sisma. Ebbe momenti di crisi con l’infeudazione dell’età vicereale, fino a un altro tremendo terremoto, quello del 1703. Risorse ancora. Come dovrà risorgere adesso.
Nel nostro immaginario, questa città era tutta raccolta dentro una luminosità che non ci era estranea: era la stessa luce che avvolgeva quasi con trepidazione Lecce: Santa Croce di qua, Santa Maria di Collemaggio di là. Ne scrisse Piovene, nel suo viaggio attraverso le città italiane. Ne parlò Cesare Brandi, celebre pellegrino di Puglia. La descrisse Raffaele Carrieri, rimirando le tele di Domenico Cantatore: «Mi sembra ancora udire la cicala fare un buco nella luce come se la luce fosse una pietra e tutte le ombre assetate. La luce di Puglia: comunica le sue improvvise effusioni, la caduta dei raggi apre precipizi in mezzo al cielo: una specie di teatro delle tempeste in continua fermentazione. Le nuvole che si scontrano come bastimenti iridescenti; le nuvole che si ammassano in una serie di naufragi silenziosi. E da tutti questi scontri ecco prodursi i vuoti, le grandi ribalte dove la luce inventa delle banchise, dei crateri, dei pesci spropositati. Le pigne scoppiano nella luce come nelle antiche poesie greche».

Le strade e le case di San Francisco divorate dagli incendi, dopo il sisma del 1906. - Archivio BPP

Le strade e le case di San Francisco divorate dagli incendi, dopo il sisma del 1906. - Archivio BPP


L’Aquila ha un’anima severa, che impudicamente era stata messa a nudo dagli sfregi provocati dal sisma. Ce la descriveva, con speculare sobrietà, Bruno Vespa, nel suo percorso tra le vie della città, indicando le ferite più profonde: la basilica quattrocentesca di Collemaggio, (ma iniziata, poco oltre le mura, nel 1287, da Papa Pietro da Morrone), gioiello di insuperata raffinatezza artistica, rosone gotico e facciata rettangolare risparmiati, Porta della Perdonanza per le indulgenze plenarie annuali miracolosamente scampata, ma una voragine sul tetto e rovine nella parte absidale, dal transetto al fondo, compromesso gravemente l’organo seicentesco, faticosamente messo in sicurezza nella cappella in cima alla navata di destra il sepolcro di Celestino V. In piazza Duomo, scomparsa la cupola a corona della chiesa del Suffragio, e sbaraccato Sant’Emidio, protettore dai terremoti. Frantumata la torre della chiesa di San Bernardino, fondazione rinascimentale, magnifica facciata dell’architetto e pittore Cola d’Amatrice, scampato per miracolo il grande organo barocco. Danni alla chiesa di Sant’Agostino, testimonianza del barocco aquilano: pianta centrale, sorta sul sito di un complesso del XIII secolo, arricchita con nuove cappelle a metà del Seicento, trasformata alla fine del secolo da Francesco Bedeschini, crollata per sisma nel 1703, ricostruita dall’architetto Giovan Battista Contini. Terzo piano crollato e varie lesioni alla fortezza spagnola, del 1534, sede del Museo nazionale d’Abruzzo, con una delle più importanti collezioni di sculture lignee italiane dei secoli XII e XIII, e con alcune rare tavole del Duecento abruzzese, con mura, opera di Pirro Aloysio Scrivà, spesse fino a dieci metri al piano di fondazione, con fossato e ponte a quattro campate, l’ultima delle quali sostituiva l’originale tavolato a ribalta in legno. Diruta Porta Napoli, eretta nel 1548 in onore dell’imperatore Carlo V, su disegno del salentino Giangiacomo dell’Acaya, superbo architetto militare…
«All’Aquila occorre ricostruire un centro storico più importante, sotto il profilo artistico e monumentale, di quelli distrutti da un terremoto nell’ultimo secolo. Né Messina né Avezzano, che piansero insieme 130 mila morti, avevano le chiese e i palazzi dell’Aquila. E non li avevano, negli ultimi decenni, il Friuli e l’Irpinia. Solo i danni alla Basilica di San Francesco di Assisi, con gli affreschi di Giotto e Cimabue, sono di gravità artistica superiore a quelli subiti dall’Aquila […]. Qui occorre stare attentissimi: il centro storico dell’Aquila è un’ampia struttura tardobarocca, perché la splendida città medievale fu in larga parte distrutta dal terremoto del 1703».
(Camminava fra le macerie, Vespa, illustrando a braccio i monumenti ghermiti, parlando con passione dei luoghi che gli erano familiari, dominando la commozione che gli stringeva la gola al cospetto delle strade svuotate, delle case implose e squassate in sezione, delle memorie storiche civili religiose artistiche offese dal demone che si era rivoltato nelle oscure latebre dell’Appennino. Aveva a vista uno Spoon River con un numero ignoto di croci, ogni croce una storia spezzata, tutte le storie di tante vittime sacrificali scritte in un tempo tragicamente troppo breve.


Camminava e scavalcava dune di pietre, rasentava muri crollati che aprivano scenari scomposti e interni senza più l’intimità che era stata misura della sobria antropologia delle genti d’Abruzzo. Andava avanti e si allargava il deserto di rovine, senza voci e senza echi. Fino al momento in cui, forse dalla chiesa delle Anime Sante, il bronzo delle campane scandì incredibili rintocchi ondulari, freschi come un grido adolescente che trasvolava uomini e terre e si innervava nel cuore e nella testa di tutti come una misteriosa, insopprimibile speranza: risorgeremo anche noi, risorgeremo ancora una volta, risorgeremo per noi stessi, per i nostri figli, per gli angeli che ci hanno salvato. Per il futuro di questa schiva, orgogliosa terra gentile.
La sventura era lì, a vista, con la ferocia ribadita dai sussulti degli assestamenti. La morte era lì, sotto le travi diventate prigioni quasi senza scampo. La fierezza era lì, nella forza d’animo che travalicava la paura e lo sgomento, il dolore e la solitudine, espressa negli sguardi muti, tra lutti silenziosi, a farci vedere come dovrebbe essere il mondo, anche lontano dalle tragedie. Il desiderio prepotente di riscatto era lì, a dire a chiunque che non si poteva vivere senza ricostruire – appunto – lì, e non altrove, perché quelle città, quei paesi, quei borghi di montagna e di collina e di valle avevano bisogno del loro passato, e non intendevano rinunciare alla memoria, perché proprio in funzione della memoria, più che della funzionalità, erano sorti tutti i luoghi abitati dell’Italia, indissolubilmente legati a identità storiche e culturali uniche. Memoria, storia, appartenenza sono un patrimonio irrinunciabile, radici che riemergono come parte di una realtà autenticamente viva, sincera, creativa anche in tempi di indistinte e fredde globalizzazioni. Per questo i superstiti frugavano tra le macerie fumanti: per ritrovare le testimonianze della propria intimità, per riappropriarsi con accortezza commovente di un documento, di un libro, o soltanto di una foto che aveva fermato un attimo di felicità che in quel momento sembrava preistoria, di un oggetto qualsiasi, infine, normalmente banale, se si vuole, ma che comunque prometteva una parziale restituzione alla vita.
“Immota manet”: non a caso era – è – questo il motto non proprio o non del tutto paradossale dell’Aquila: sarà anche un procedere per contrari, ma è certamente una resistenza al destino che ne rivela decisamente la negazione. È l’immobilità attiva che respinge ogni fatalismo ladro d’anima).

“Worst practice”: in inglese si dice così, se un’esperienza del passato è stata tanto negativa, da non dover essere riproposta in circostanze analoghe. Definizione da dedicare all’Irpinia, a 29 anni dal sisma del novembre 1980, che causò 2.735 morti. Lo Stato varò 27 leggi specifiche, stanziando 32 miliardi e mezzo, ottenendo risultati discutibili, dietro una cortina di complicità che hanno orchestrato malversazione, mala politica e cartelli del crimine, per cui dal 1992 al 1994 sono finiti in galera ben 554 personaggi, con indagini che toccarono border line un po’ tutta la nomenclatura politico-amministrativa locale.
O da riferire alla memoria del Vajont, in Cadore, quando la guerra della natura non riguardò la diga, che stava al suo posto, intatta al centro della gola montana, scudo enorme dalla potenza disumana, e arco superbo che brillava sempre nel sole. A cadere era stato il Monte Toc, alle sue spalle: crollando nell’invaso, aveva creato un’ondata colossale (l’espressione “tsunami” non era ancora di moda), precipitata su Longarone. Un affare di qualche minuto. Risultato: 1.899 morti. Tra fischi e lanci di pietre erano giunti da Roma molti politici, compreso il capo del governo balneare dell’epoca, Giovanni Leone, il quale aveva gridato: «Gente del Vajont, avrete giustizia!». Al processo, otto imputati: cinque assoluzioni, tre condanne lievi. Del collegio di difesa faceva parte lo stesso Giovanni Leone, che aveva brandito – fremente tra le vittime – la spada di latta dell’italica giustizia. Avrebbero voluto ricostruire Longarone da un’altra parte. Furono costretti a rinunciare al progetto, per evitare una rivolta della popolazione.
O da differenziare da altre “ricostruzioni”, che sono state spesso soltanto macchine mangiasoldi, per non ripetere l’errore compiuto nella Valle del Belice, in paesi come Salemi, Poggioreale, Santa Margherita, dove deliri di architetti hanno imposto soluzioni irrazionali, creando borghi fantasma, col risultato che ancora oggi qui il terremoto non è finito: a Poggioreale, ad esempio, la “new town” è talmente estranea alla sua caricaturale ispirazione con il barocco romano, che i cittadini indirizzano i turisti verso la città abbandonata in rovina oltre e dopo i danni del terremoto.
O da tener presente, infine, nel – presumibilmente – tempo lungo del dopo-terremoto, per non ripetere l’esperienza proprio di Gibellina, che secondo l’architetto Stefano Boeri fu «il simbolo della presunzione di cui può essere capace l’architettura italiana». Il borgo siciliano, raso al suolo dal sisma del 1968, venne ricostruito come “new town” votata all’arte e all’utopia, con progetti firmati da Gregotti e Quaroni, e con opere d’arte di Paladino e Melotti, ma è rimasta anch’essa città morta, perché la maggior parte degli abitanti, piuttosto che vivere in un irriconoscibile museo, è andata a vivere altrove, nelle vecchie frazioni.

Manifesto di solidarietà per le vittime del terremoto del Sichuan, che l’anno scorso sconvolse una vasta regione della Cina sud occidentale.

Manifesto di solidarietà per le vittime del terremoto del Sichuan, che l’anno scorso sconvolse una vasta regione della Cina sud occidentale.


Il “modello Brasilia” (le new towns che secondo Massimiliano Fuksas rappresentano «un modello ormai solo letterario, che non funziona più») non sembra valere nel Belpaese. Funziona in Oriente. Com’è accaduto a Balakot, in Pakistan, distrutta nel 2005 da un terremoto, con 73 mila vittime: al suo posto, fu realizzata la Nuova Balakot. Com’è accaduto a Kobe, (1995), in Giappone, del tutto rifatta in tre anni, a 22 chilometri dalla città vecchia. Oppure col Grande Sisma di Kanto, (1923), che distrusse Tokyo e fece 100 mila morti. Tutto regolare, dal momento che «nei popoli orientali la memoria è quel che si vede, dunque va bene anche ricostruire in stile». Ma funziona anche altrove. Come a San Francisco, che dopo essere stata devastata dal sisma e dagli incendi nel 1906, fu velocemente ricostruita come “new town”: nove anni dopo l’evento fu in grado di ospitare l’Esposizione internazionale di Panama e del Pacifico, e adesso attende, con tutta la California, il “Big One”. O come a Sichuan, cancellata nel 2008, ma rimessa su con le linee guida del governo cinese («priorità alla sistemazione temporanea delle famiglie che hanno perso la casa»), poi tradotte nella costruzione di brutti grattacieli, simbolo della più redditizia speculazione post-terremoto estremo-orientale.

Ad un certo punto hanno scoperto l’Abruzzo come terra santa. Hanno fatto i conti, e sono rimasti esterrefatti: questa regione occupa il sesto posto nella graduatoria dei beni artistici d’Italia. E tra questi, celebri nel mondo, la chiesa di San Francesco a Lanciano, dove si narra il miracolo eucaristico della Particola sanguinante; il santuario di Manoppello, che custodisce il Volto Santo, un’immagine del viso del Nazareno su seta che, come vuole la tradizione, era stata affidata da un angelo a un signore del luogo, e che somiglia in modo così fedele a quella della Sindone da esserle perfettamente sovrapponibile; l’abbazia di San Clemente, a Casauria; Santa Maria del Lago, a Moscufo, con un pulpito del XII secolo che è di incomparabile bellezza e che manifesta ascendenti longobardi nelle figure-simbolo degli Evangelisti che sbalzano nel loro prorompente rilievo; il duomo di Atri, al confine con il Piceno, facciata quadrata che ricorda Collemaggio e la cattedrale di Teramo, ma dell’una e dell’altra diversa per l’aurorale rudezza e la disadorna energia che si diffonde dalla pietra d’Istria, cangiando col variare della luce; la Basilica Valvense, a Corfinio, dedicata al vescovo e martire del IV secolo, San Pelino; l’abbazia di San Giovanni in Venere, a Fossacesia, adagiata su un terrazzo naturale prospiciente il mare di Vasto; Santa Maria Assunta, a Bominaco, incantevole esempio di edificio sacro dell’XI secolo; Santa Maria in Valle Porclaneta, capolavoro arrampicato alle falde del Velino, nel territorio di Rosciolo, gremito di stupendi capolavori marmorei, raggiungibile soltanto a piedi, per una strada sterrata invasa dalle pietre che qui come altrove sono elemento essenziale dell’aspro e grandioso paesaggio abruzzese; e ovunque i portali di marmo lavorati con la finezza delle trine, al modo dei pulpiti e dei cibori che arredano gli interni…

(Se mai càpita di passare per piazza della Maddalena, dalle parti del Pantheon, credenti o no che si sia, si può comunque entrare nella chiesa, spettacolare capolavoro dello stile barocco-rococò romano, ma anche luogo di preghiera per antonomasia degli abruzzesi immigrati nella Città Eterna. Qui è sepolto San Camillo, nato a Bucchianico, in provincia di Chieti, da sempre considerato protettore dei malati e degli ospedali. Incassate nelle pareti della chiesa, sei grandi statue di donna, sei nobili figure che allegoricamente rappresentano l’umiltà, la commozione, la semplicità, la discrezione, la fedeltà, il pudore: virtù universali ed eterne, forse mai così attuali e necessarie come nei giorni della pena e dello smarrimento, della dignità e del coraggio opposti alla notturna violenza omicida del Mostro).

Storie di ordinaria pietà. Un cumulo di macerie nascondeva una bimba di tre anni e tutta la sua famiglia. Rimossi i blocchi, erano comparsi un piccolo materasso e una copertina bianca, chiazzata. Poi il minuscolo corpo straziato. Non c’erano più bare, neanche “bodybag”, i sacchi per trasportare le vittime delle emergenze, che l’Italia aveva regalato alla Libia qualche anno prima. Un giovane Forestale prese la copertina e la ripiegò fra le pietre, facendone una barella di lana. Avvolse delicatamente la bimba e portò quel batuffolo fuori dal portico che sembrava bombardato.
Memoria di anni lontani: «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa […]. La sua andatura era affaticata […], gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa al collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio…». È lo spettacolo tragico, ma venato di pacatezza pietosa, di poetico sentimento religioso, che apre una parentesi di gentilezza e di umanità nei “Promessi Sposi” di Manzoni. È la solenne pagina dedicata all’innocenza sventurata di Cecilia, che nella controra malinconica dell’Aquila si riproduce in uno scenario angoscioso e solenne.
Le donne della mal’aria, delle acque impazzite, delle terre scosse! A Udine (1976) cercavamo di rubare un po’ di calore al sole albale, riuniti in desk su uno spicchio di roccia appena illuminata, quando sopraggiunse una terremotata con dei caffè: – Per voi, che state lavorando tanto per tutti noi –, disse. Lei soccorreva noi! Come un’altra, che premurosamente ci offrì una forma di pane caldo, appena sfornato, e un tubetto di aspirine, caso mai ci si fosse raffreddati per via dell’escursione termica! E in Irpinia (1980), dove un’anziana avellinese che parlava una stretta lingua locale sosteneva che a dar fuoco alla casa sprofondata dal secondo al primo piano era stata una lampadina accesa, e che essa stessa era precipitata dalla finestra Dio sa come, scagionando così la figlia che, con la mente sconvolta, aveva incendiato la camera da letto e spinto nel vuoto la madre paralizzata dalla paura! E dove una giovane donna col suo corpo (e il bacino incrinato) aveva fatto da scudo al suo bambino, nato da poco, allattandolo per tre giorni sotto le macerie che minacciavano di ucciderla, fino a che avevano estratto suo marito (morto) e poi finalmente lei e la sua creatura!

Case pericolanti a Conza della Campania, dopo il sisma che spezzò in due l’osso dell’Irpinia, nel novembre 1980. - Archivio BPP

Case pericolanti a Conza della Campania, dopo il sisma che spezzò in due l’osso dell’Irpinia, nel novembre 1980. - Archivio BPP

Pare sia stato il terremoto di Lisbona del 1775 a segnare in qualche modo l’inizio dell’epoca moderna in cui ogni evento è condiviso, e anche a migliaia di chilometri di distanza si percepisce che non è possibile restare indifferenti. Per dire: Voltaire scrisse “di getto” un poema di 234 versi, nel quale fra l’altro deprecava il fatto che mentre in quella disastrata città si piangeva, a Parigi si ballava. «Non tutto è predisposto a favore della nostra felicità, il male è sulla terra», vi scriveva Voltaire. «Il principio segreto della natura ci è sconosciuto, e tutti gli elementi di essa – animali, esseri umani, piante e minerali – sono in guerra».
La notizia del terremoto di Messina del dicembre 1908 arrivò a Roma circa una settimana dopo. Eppure era trascorso più di un secolo e mezzo dal poema di Voltaire e dall’inizio di quell’era (oltre che del villaggio globale). Rileggendo le cronache di allora, e di sismi ancora più lontani, a volte vien da rimpiangere che prime a scrivere di uno sconvolgimento non siano le grandi menti, come Silone, che raccontò la tragedia di Avezzano del 1915: «Un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe», (da “Uscita di sicurezza”, a proposito dell’infanzia e del terremoto della Marsica); come Jean-Jacques Rousseau: «La natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minore imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto», (da una lettera a Voltaire, sul disastro di Lisbona); come Haruki Murakami: «Per cinque giorni, aveva passato tutto il tempo davanti alla tv. Guardando in silenzio quelle immagini di banche e ospedali crollati, strade piene di negozi avvolte dalle fiamme, ferrovie e autostrade fatte a pezzi. Sprofondata nel divano, le labbra serrate, quando Komura le parlava non rispondeva», (da “Tutti i figli di Dio danzano”, dopo il terremoto di Kobe); come Orhan Pamuk: «Ho sempre pensato che le catastrofi rafforzassero il senso della comunità. Subito dopo i terribili incendi ad Istanbul della mia infanzia e il terremoto di due anni fa, il primo pensiero che ho avuto è stato quello di condividere i sentimenti che provavo, discutere con gli altri del disastro», (ricordo del sisma di Istanbul del 1999); come il cantore insuperato dei nostri immigrati umiliati e offesi negli Stati Uniti, l’inquieto cattolico John Fante, scrittore italo-americano, figlio di abruzzesi: «Davanti a me c’era la muta tranquillità della natura, indifferente alla grande città; oltre queste strade, attorno a queste strade, c’era il deserto che attendeva che la città morisse per ricoprirla di nuovo con la sua sabbia senza tempo. Fui sopraffatto dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, del terribile significato della sua presenza. Il destino era lì come un bianco animale paziente, in attesa che gli uomini morissero e le civiltà vacillassero come fiammelle, prima di spegnersi del tutto. Intuii allora il coraggio dell’umanità e fui contento di farne parte. Il male del mondo non era più tale, ma diventava ai miei occhi un mezzo indispensabile per tenere lontano il deserto» (da “Chiedi alla polvere”, sul terremoto di Los Angeles e di Long Beach del 1933).

I sopravvissuti di Balakot cercano segni di vita tra le macerie. Rasa al suolo nel 2005, la città pakistana è stata ricostruita a venti chilometri di distanza, prendendo a modello le architetture di Islamabad. - Archivio BPP

I sopravvissuti di Balakot cercano segni di vita tra le macerie. Rasa al suolo nel 2005, la città pakistana è stata ricostruita a venti chilometri di distanza, prendendo a modello le architetture di Islamabad. - Archivio BPP

Quand’è che gli italiani si sentono “popolo”? Di fronte alla tragedia abruzzese, la domanda diventava quasi ossessiva. Tornavano in mente le scritte cubitali che campeggiavano sulle pareti delle strade e dei paesi del Nord: – Forza Etna! –. E invece un evidente spirito di solidarietà, al cospetto di una vertigine luttuosa, questa volta ci faceva gridare al miracolo, avendo vinto sull’indifferenza e sulle lacerazioni di sempre. Ci ripromettevamo di tornare su questo argomento, che ci intriga. Intanto, riflettevamo con Gian Antonio Stella che questa è l’Italia, la terra dei piccoli egoismi e della dedizione fantastica, della sciatteria e dell’efficienza, dei ripiegamenti individualisti e dello straordinario altruismo di uomini e donne che erano accorsi da tutta Italia a dare una mano.
E intanto lo sciame sismico non dava tregua. Gli esperti dicevano che era stato sempre così, che secondo Diodoro Siculo pochi giorni prima che un sisma annientasse la polis ellenica di Elice, ratti, donnole e serpi avevano abbandonato la città. E aggiungevano che tre giorni prima della terrificante frustata che mise a soqquadro la cinese Mianzhu, uccidendo duemila persone, migliaia di rospi in fuga avevano invaso le strade della città; e che gli etruschi, per capire in anticipo, osservavano le vipere. Nessuno ci ha detto se, o che cosa, osservino i napoletani dalle case arrampicate a centinaia sopra i costoni vesuviani, sconquassati dall’ultima eruzione del 1944 che tappò alla fine la bocca del vulcano. All’epoca portarono in processione San Gennaro, che fece fermare la lava alle soglie di Trecase. E se quel tappo fosse soltanto provvisorio, il Santo e insieme con lui il resto degli italiani avrebbero un buon motivo per incavolarsi di brutto con i partenopei?

I giorni dell’ira divina

“Il Gran Maestro... considerando che quel Terremoto era stato un segnale della grande ira di Dio, provocato à sdegno dà peccati degl’huomini, e che per placarlo era necessario mutar vita, mandò fuori à 9 di Gennajo seguente una Bolla, con decreto del Consiglio per riforma della vita, e de’ costumi de’ suoi Popoli, facendo leggi rigorosissime contro la Superstitione, Incantatione, e Sortilegio, invocatione degli Spiriti maligni, contro le bestemmie di Dio, e de’ Santi, vietando à gl’Idioti di poter disputare della Fede, comandando l’osservanza delle Feste sotto pene rigorosissime. Ordinò una particolar Inquisitione contro coloro che commettevano volontari aborti, e guastavano le gravidanze, e contra l’usure, statuendo un bellissimo modo per estirparle. Levò affatto il gioco de’ dadi, e delle carte. Comandò che i Sodomiti vivi abbrugiati fossero. Severissime ordinationi fece contro l’adulterio, ratto, e violatori di Vergini, contra Ruffiani, e Concubinari, e così anche contra Falsari di monete, di scritture, e di testimonianze”.

(“Auto-da-fé” decretato a Rodi, dopo il sisma che rase
al suolo l’isola il 18 dicembre 1481,
riportato nel Seicento dal cronista Giacomo Bosio)


Aveva scritto un dotto economista meridionale, l’abate Ferdinando Galiani: «Molte volte le calamità distruggono le nazioni senza risorgimento, ma talvolta sono principio di risorgimento e di riordinamento di esse. Tutto dipende da come si ristorano». Dio salvi i “napoletani” e l’Italia.
   
   
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