Giugno 2009

il sud che diffida del mito del buon samaritano

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Il terremoto unisce,
ma resistono le due Italie

Marco Gardesani
Leonardo Di Fabio

 

Coll.: Emilio Antonini
Alberto Coroneo
Davide De Francesco
 
 

E siamo ancora qui, tutti qui,
guelfi e ghibellini,
bianchi e neri,
terroni e
polentoni, con le nostre sventure
e con la nostra pietà, indecifrabili e geniali cialtroni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La questione settentrionale aveva soppiantato da tempo, nell’agenda politica italiana, quella questione meridionale che a lungo aveva rappresentato uno dei cardini della cultura politica del nostro Paese. E già questo era stato considerato un segno del successo conseguito dagli argomenti (e dai lamenti) della Lega Nord, che avevano accreditato progressivamente l’immagine del Sud come palla al piede dell’Italia, come freno della sua dinamica economica, come elemento perenne di ritardo e di arretratezza. Una visione, questa, che ha finito per guadagnarsi spazio e consenso in certa opinione pubblica, fino ad essere legittimata da studiosi e da economisti che giustificavano la richiesta di un federalismo fiscale concepito soprattutto come strumento punitivo di un Mezzogiorno dissipatore di risorse. Visione come rappresentazione di una realtà, questa, che Gianfranco Viesti, profondo conoscitore dell’economia meridionale, fra i più acuti a coglierne i segnali di mutamento, ha messo radicalmente in discussione con un pamphlet, Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, che è un atto di sfida nei confronti degli stereotipi correnti. È vero che il Sud è cresciuto poco negli anni recenti – sostiene Viesti – ma ciò è dipeso dal fatto che è stata l’Italia nel suo complesso a crescere in misura insufficiente. In altre parole: la crescita lenta del Sud rispecchia le difficoltà di un Paese che non riesce a venire a capo dei suoi nodi strutturali e che non investe in quelle infrastrutture materiali e civili, in cui lo sviluppo economico deve essere inquadrato. Per di più, per quel che riguarda i trasferimenti operati dallo Stato a vantaggio dei territori meridionali, essi nel tempo sono diminuiti, e non aumentati, con l’effetto di deprimere la capacità di progresso dell’Italia e dello stesso Sud nel loro insieme. E tuttavia ancora oggi c’è chi scrive che il Sud deve liberarsi della sua mentalità “borbonica”, usando questo termine a casaccio, in un’accezione negativa di gladstoniana memoria che dovrebbe giustificare il pregiudizio storico complessivo nei confronti delle genti meridionali.

Il porto di Reggio Calabria, in una “veduta” di Jacob Philipp Hackert del 1791. - Archivio BPP

Il porto di Reggio Calabria, in una “veduta” di Jacob Philipp Hackert del 1791. - Archivio BPP

Sennonché, il terremoto abruzzese ha rivelato che esiste un Sud sorprendente, fiero di sé, orgoglioso, attivo, pulito, quale mai è stato immaginato al di là dei confini del continente meridionale. E ciò ha finito per rimettere in discussione molte cose. In primo luogo, la visione distorta che ha inquadrato senza soluzione di continuità l’antropologia civile e culturale dei popoli del Mezzogiorno nelle griglie della vocazione criminosa, dell’inadattabilità al lavoro, del parassitismo sociale. Ora, se si studiano bene le vicende storiche italiane, soprattutto dall’Unità ad oggi, si può riflettere sul fatto che la lacerazione delle forme di convivenza e dei rapporti interpersonali o comunitari inerisce a una cultura dello Stato, cioè al “bene comune” eclissatosi di fronte all’avanzare sempre più arrogante degli egoismi particolari, dei corporativismi codificati, della prepotenza delle oligarchie. E questo non è un fenomeno propostosi alla nostra attenzione negli ultimi tempi, ma risale alla caduta del senso dello Stato, in virtù della quale hanno avuto la meglio politiche dedite al perseguimento di un utile immediato per alcuni a scapito di altri. Se è vero che non manca la pietà, sentimento che ancora non è stato travolto dal profitto senza regole e senza etica, dunque privo di umanità, è altrettanto vero che nel cuore dei più deboli si sono radicati un odio sociale e un disprezzo dell’altro che è la visione astratta di un popolo senza radicamento, e di conseguenza asservito a prerogative e a logiche particolaristiche: il che è esattamente il contrario del concetto di “popolo”, e significa anche che tra non molto, passate le emozioni per le vittime e i danni provocati dal sisma, riemergerà l’Italia che non ci piace, quella di sempre, frutto malsano dell’affermazione di una cultura edonistica che ha stravolto il modo di essere anche delle popolazioni più sobrie e più umili del Paese.
È Storia che si ripete. Agli albori della Repubblica, riconquistata la libertà, ci fu chi si chiese cosa ne sarebbe stato di una nazione priva di una sua intima grandezza. Siamo ancora oggi in attesa di risposta. Intanto, tutto è precipitato, e nel gorgo della miseria sono finiti anche quei sentimenti pubblici che sembrano dagherrotipi ingialliti di un Paese senz’anima. E a chi si meraviglia perché riusciamo a sopravvivere, sopportando le tragedie e le emergenze continue e montanti che si abbattono su di noi, diciamo che la risposta la stiamo cercando almeno dai tempi di Dante, secondo il quale anche allora lo Stivale era «nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello». E siamo ancora qui, tutti qui, guelfi e ghibellini, bianchi e neri, terroni e polentoni, con le nostre sventure e con la nostra pietà, indecifrabili e geniali cialtroni legati alle nostre risorse di fantasia e alle nostre contraddizioni che non siamo in grado di risolvere. Al punto che diventare un popolo, nel senso di una nazione identificata da una Patria è ritenuta, da noi, e non visti dall’esterno, pura fantascienza.

Il terremoto d’Abruzzo sembra avere unito l’Italia. È svanita ogni polemica quotidiana che divide e scava fossati. Non sono esplose, salvo qualche prevista eccezione, le accuse che in altri momenti hanno caratterizzato le reazioni sui tempi e sulle forme dei soccorsi.
Non è stato sempre così. Il terremoto del 1980, che devastò una parte ampia (assai più ampia) del Mezzogiorno, fu occasione immediata di aspre divisioni, e contribuì perfino a disegnare nuove strategie politiche, nel segno dell’indimenticabile grido di protesta di Sandro Pertini, dopo il quale soltanto vennero avviati i soccorsi, (una campagna mediatica indegna di un Paese civile diffuse allora la notizia di «59.000 miliardi di lire spesi per l’Irpinia».
Niente di più falso. Per la ricostruzione dell’Irpinia furono stanziati 6.500 miliardi, più altri 2.500 per il ripristino delle infrastrutture: complessivamente, la metà di quanto era costato il sisma del Friuli! Il resto delle somme stanziate interessò marginalmente la Puglia e la Calabria, poi la Campania e la Basilicata. Fra l’altro, il terremoto friulano aveva ucciso mille persone, quello del Sud continentale ne aveva annientate circa tremila).

Jacob Philipp Hackert, Veduta del Porto di Gaeta, 1790. - Archivio BPP

Jacob Philipp Hackert, Veduta del Porto di Gaeta, 1790. - Archivio BPP


Tornando ad oggi. Il Mezzogiorno, scomparso dall’agenda politica del Paese, è dunque riemerso con il dramma dell’Abruzzo, ha coinvolto la volontà di un Paese, e ne ha mostrato forse sentimenti effettivi e reso magari superficiali gli altri pensieri, quelli che giorno dopo giorno hanno disegnato l’insofferenza per un Sud dichiarato parassitario e assistito. Come se d’improvviso venti di secessione, forme di senso comune che danno per sepolto il sentimento dell’Unità d’Italia, si fossero mostrati posticci, magari buoni in tempi di bonaccia, ma non prevalenti in momenti di emergenza, quando prevale invece la storia di un Paese che sa, nel profondo, di condividere un destino. «Qualsiasi attenuazione del vincolo unitario segnerebbe l’inizio della comune perdizione», aveva scritto profeticamente Giustino Fortunato. Si potrebbe dire: e come potrebbe essere diversamente, in presenza di tanta tragedia? Risponde il filosofo Biagio De Giovanni: il senso della solidarietà, l’afflusso da tutta Italia di migliaia di volontari, la diffusa generosità son sembrati costituire la base di quel plebiscito continuo che, secondo una celebre espressione rimasta solidamente nella coscienza europea, di volta in volta ridà senso all’unità di una nazione.
Poi, al di là di tutto questo, i territori devastati. La visione dello “sfascio idrogeologico”, cui si sono aggiunti lo sfacelo edilizio, le speculazioni che hanno costruito sui vuoti pur di riempire gli spazi, i palazzi che si accartocciano nel nulla, il cemento armato che non arma, le mani allungate dei cartelli italiani del crimine organizzato (che non abita soltanto a Sud, e non è costituito soltanto da cosche meridionali), e l’immagine di classi dirigenti colluse, di un territorio violentato, nel quale il “nuovo” non regge, e nessuno ha pensato di mettere in relativa sicurezza il “vecchio” che sta lì, sempre sull’orlo di un abisso che ogni tanto si apre sotto i piedi.
Torna alla memoria il fatto che un terremoto di uguale o anche maggiore intensità, in Giappone o in California, non causa alcuna vittima, mentre la vita continua grazie ad armature resistenti, opera di classi dirigenti responsabili che hanno costruito e collaudato con onestà civica, senza speculazioni o corruzioni di sorta. Si tratta di cose che abbiamo già visto.

Perché da noi è diverso? Che cosa non ha funzionato nella nostra storia, perché anche la tragedia – soprattutto nel Sud, (ricordiamoci del Belice, prima, e del Molise poi), ma anche al Centro, (come in Valnerina) e nello stesso Nord (il Friuli, ma anche le esondazioni in Polesine) – abbia caratteristiche anomale rispetto a ciò che la rivoluzione tecnologica è riuscita ad apprestare in termini di sicurezza e di difesa della vita dei cittadini?
Noi abbiamo coscienza di quel che si è verificato, ed è bene che ce lo diciamo con assoluta chiarezza: in tanti paesi e città del Sud si ha la netta impressione di vivere sull’orlo di un abisso che si può spalancare da un momento all’altro, d’improvviso, e che aiuta certo a comprendere la finitezza della vicenda umana, ma la colma di assai inumane e cupe responsabilità. Chi ha dissipato denaro pubblico? Perché si è rinunciato al governo del territorio? Sarebbe necessario gridarlo, chiederlo, ricordarlo. Giacché normalmente si parla d’altro, si esaltano miti fondativi dell’Italia repubblicana, ma nessuno svolge un autentico esame di coscienza su come si è sviluppata, concretamente, la nostra storia politica e civile, e sulle ragioni della sua anomalia.
La scissione silenziosa dell’Italia di cui tanto si parla per stigmatizzare il sentimento leghista è qualcosa che viene da lontano e ha al suo cuore, da molto prima che la Lega nascesse, l’irresponsabilità di classi dirigenti che non possono piangere sulle occasioni perdute, ma che dovrebbero prendere coscienza di quali siano state le loro effettive, inescusabili colpe politiche, riflettendo su un fenomeno che già prima del terremoto abruzzese, ma con maggiore intensità subito dopo, sta prendendo piede nel Sud: la voglia di secessione sta crescendo proprio al di qua della Linea Gotica. Ed è con questa nuova situazione che si dovranno fare fra non molto i conti.

«La secessione? In forma dolce è già in atto, per l’affievolimento delle istituzioni nazionali», sostiene Gianfranco Viesti. Mentre l’ingegnere Luca Montrone, il proprietario della televisione privata più grande d’Italia, (visibile in buona parte delle regioni del Sud continentale), accusa la Confindustria nazionale, che «da un secolo fa soltanto gli interessi del Nord», in un Paese che di per sé «è già a pezzi»: piccole e medie imprese – sostiene Montrone – generano oltre il 70,8 per cento della ricchezza italiana, ma hanno poco potere; e il Sud, che non ha grandi aziende, vale appena il 7,5 per cento. Del Consiglio di Amministrazione di Confindustria, uno solo, su diciassette consiglieri, è del Sud, sicché quando si tratta col Governo si pensa solo ed esclusivamente ai grandi, che stanno al Nord. E il Sud è penalizzato due volte. Si può dar torto a Montrone, se tifa per una Confindustria del Sud, oppure a un ex ministro di AN, la senatrice Adriana Poli Bortone, se, anche di fronte al check up del divario Nord-Sud, misurato intorno al 42 per cento, mette su un “movimento per il Sud” che si opponga agli espropri dei fondi destinati alle aree meridionali ma “deviati” verso quelle settentrionali?
Altre centrali anti-meridionali? Il “duopolio Rai-Mediaset” e il ministero dell’Economia. Mettiamo da parte la prima, dal momento che l’ingegnere è coinvolto in pieno; che c’entra Tremonti? È quello che sponsorizza con inusitata sollecitudine la Banca per il Sud: capitale, cinque milioni di euro per una perfetta operazione di fumo negli occhi! Sostiene Viesti, (e impressiona, nel suo libro che abbiamo citato, l’elenco, tratto dai bilanci ufficiali, dei fondi “annunciati” per il Sud e spesi al Nord, senza che le sibille leghiste si sentano in gramaglie): «Tremonti è il più astuto e acerrimo avversario del Sud». E prosegue l’economista, citato da Pino Aprile: perché con i soldi per le infrastrutture in Calabria e Sicilia abbuonò l’Ici a tutt’Italia? «Erano 1,8 miliardi di euro. Lui al Sud, finora miliardi ne ha tolti 16,6 dal Fondo per le aree sottoutilizzate. Poi si fa una legge per ridurre il prezzo della benzina, ma solo ai veneti. È passata l’idea arcaica, medievale, della Lega, che politica sia: più a me, meno a te. Così, non è mai cresciuto nessuno. A questo, una risposta del Sud, da Sud, può starci: i parlamentari coi disegni di legge, gli imprenditori con Confindustria, io con i libri; sapendo che l’Italia non si salva senza il Sud, né il Sud senza l’Italia: l’Europa è progredita abolendo frontiere e la ex Jugoslavia è regredita ripristinandole. Ma sono rimasti in pochi a ragionare così: l’ex Presidente Ciampi, il Governatore della Banca d’Italia, Draghi […]. Il livello della nostra classe dirigente è molto calato. Soffre di “cortoplacismo”, dicono in Sud America: di pensiero a breve». Ma davvero il nostro Paese è ridotto così, alle soglie della scissione? «Dipende dal debito pubblico: chi lo paga? Il Belgio è ancora intero, perché non hanno trovato ancora la risposta».

Jacob Philipp Hackert, “Caccia alle folaghe sul lago di Fusaro”, 1783. Napoli, Museo di Capodimonte. - Archivio BPP

Jacob Philipp Hackert, “Caccia alle folaghe sul lago di Fusaro”, 1783. Napoli, Museo di Capodimonte. - Archivio BPP


La reazione è stata innescata da Mario Cervi, con una pistolessa su Il Giornale dei primi giorni di aprile, con cui invitava i “sudisti” a mandare in soffitta «la nostalgia per i Borbone». Propositi ed esito: «Pensavo fosse una buona idea quella di porre a confronto tesi opposte sul Risorgimento e sul Regno borbonico; idea suggerita sia dal crescere d’un revisionismo che dipinge l’Unità d’Italia a tinte molto fosche, sia dalla pubblicazione d’un saggio di Marcello Veneziani e d’un piccolo pamphlet antirisorgimentale di Felice Simonelli. In coerenza con questo disegno m’ero assunto – da vecchio estimatore dei Padri della Patria – il compito di difenderne la memoria. Lasciando al bravo collega Rino Cammilleri il compito di sostenere che i garibaldini e i piemontesi stesero sul Sud “un tetro sudario”. Mi pareva un’impostazione equilibrata. Invece mal me n’è incolto. Non un solo “nordista” ha protestato per la demolizione delle memorie o dei miti risorgimentali. Ma su di me s’è abbattuta una caterva di lettere “sudiste” indignate…».
Antologia delle missive. «Purtroppo il lombardo Mario Cervi ha dimostrato molto pressappochismo e anche una certa disinvoltura. Per una decina di anni in tutto il Meridione stazionò un esercito di 120 mila uomini con pieni poteri, per tenere sotto controllo la “colonia”. I militari che non si adeguarono furono mandati nei campi di concentramento del Nord, tra cui primeggia Fenestrelle. Il modesto fenomeno mafioso ebbe un trattamento di riguardo per l’aiuto che aveva fornito agli invasori». Italo Zamprotta.
«Egregio signore, nella sua “dotta e profonda” disquisizione manca una semplicissima domanda che taglia la testa al toro: perché solo DOPO che i “fratelli d’Italia” sono venuti (bontà loro) a “liberarci” (ma da che?) e NON PRIMA milioni di meridionali sono stati costretti ad emigrare. Anch’io so della correttezza amministrativa, tipicamente asburgica, lasciata nel Lombardo-Veneto, ma so pure che, dopo il 1860, qui, a Sud, lo Stato non c’è più stato! […]. Il Regno delle Due Sicilie non era un “dominio”, come il Lombardo-Veneto e come lei crede, ma un Regno autonomo e indipendente…». Erminio de Biase.
«Tengo a precisare che con i Borbone furono conquistati tanti di quei primati che Lei non conosce affatto […]. Noi siamo non nostalgici, ma orgogliosi di appartenere a quello che fu il Regno più importante d’Italia». Salvatore D’Auria.

Il cantiere navale di Castellammare di Stabia nel momento in cui si vara il mercantile “La Partenopea”. Incisione di Giorgio Hackert. - Archivio BPP

Il cantiere navale di Castellammare di Stabia nel momento in cui si vara il mercantile “La Partenopea”. Incisione di Giorgio Hackert. - Archivio BPP


«Il Giornale non è nuovo ad inveire contro il Sud attaccando la sempre più dirompente rivisitazione storica dell’era borbonica […]. La molla della storia borbonica sta invece funzionando come non piace agli sfiatati corifei della mala unità perché sta aprendo finalmente gli occhi dei meridionali sempre meno disposti ad essere irrisi da promesse, consigli e aiuti vari che scendono (come i barbari di una volta) dal Nord…». Ufficio Stampa dell’Associazione Culturale Neoborbonica.
«Da quando ho saputo come è avvenuta l’unificazione dell’Italia, me ne vergogno profondamente e non vorrei più essere “italiana”. I Borbone: si potrebbe dire “dinastia del fare”, per quanto hanno inciso nella società, nel diritto, nel commercio, nelle arti e professioni, nell’istruzione e formazione, compresa quella militare». Caterina Ossi.
«Il dottor Cervi non dice che quando i garibaldini-savojardi calarono come barbari dal Nord, oltre a massacrare quasi un milione di meridionali, rubarono tutte le nostre risorse e poi sfruttarono la “colonia” Sud. Ha anche omesso di spiegare perché, dopo quell’unità d’Italia, milioni di sudditi dell’ex Regno delle Due Sicilie furono costretti a lasciare la propria terra, dando luogo a una delle più forti migrazioni della storia che fu una vera e propria “diaspora”». Ubaldo Sterlicchio.
«Come cittadino delle Due Sicilie d’Italia, protesto contro l’articolo denigratorio del giornalista Cervi. Esso, volutamente anti-meridionalista, si fregia ancora nel declamare tesi ormai superate circa le origini storiche e socio-economiche dello Stato del Sud. Io sono orgoglioso delle mie origini meridionali (sono cittadino pugliese, salentino dello Ionio) e di tutta la storia moderna delle Due Sicilie, dal periodo normanno fino alla conquista piemontese». Antonio Edoardo Favale.
«Che il Sud stesse bene preunitariamente lo dimostra il fatto che nel 1856, alla Conferenza degli Stati Internazionali (e solo 5 anni prima dell’unità), fu premiato come Terzo (!!!) Paese al mondo per sviluppo industriale!!!; si legga Gramsci, Montanelli, Paolo Mieli, Lorenzo Del Boca, cosa dicono in merito, a dimostrazione che l’onestà intellettuale non ha colore politico!». Andrea Balìa.
«Quelli furono invasori e vincitori di quell’ambiguo periodo storico che fu chiamato “risorgimento”, che misero le mani sulle casse napoletane del Banco di Napoli, da cui lo stesso super eroe Garibaldi prelevò per se stesso circa duemila ducati. L’ultimo dei Borbone è andato via 150 anni fa, e da allora siamo a pezzi…». Carmen.
«Non capisco perché tutta questa paura di un passato che non potrà più tornare, e, visto come dopo l’unità d’Italia sono andate le cose, aggiungo: purtroppo». G. Guarino.
«Mi sono chiesto chi o cosa dia al sig. Cervi il diritto di giudicare con tanta spocchia e senso di razziale superiorità, dettata, ritengo, dalla sua cultura che affonda le sue basi in quell’illuminismo che, tra l’altro, è stato il brodo di coltura di quei grandi orrori della storia che sono il nazismo e il comunismo…». L. Dragone.
«Forse l’articolista dimentica che i veneti furono trattati da italiani, mentre noi da “beduini affricani”. E sfido qualsiasi popolo, dopo 12 anni di resistenza repressa nel sangue, dopo la spoliazione di ogni bene, di ogni onore, di ogni dignità, di ogni attività economica, sacrificata sull’altare dello sviluppo del Nord, dopo una diaspora di milioni di persone, le migliori energie, partite per l’America e per il mondo intero, dopo aver avuto innumerevoli riprove di essere diventato colonia interna di una patria matrigna, a pensare ancora al bon ton delle regole di civile convivenza tanto care ai nostri “compatrioti” padani o se non maturare invece una “coscienza” individualista dettata dalle necessità di sopravvivenza». Giovanni Palmulli.
 
Rino Cammilleri, sullo stesso quotidiano, fa da contraltare alle tesi sostenute da Cervi. Partendo dall’amoral familism deprecato alcuni decenni fa dal Banfield. Sostiene Cammilleri d’avere aperto il libro Sud, di Marcello Veneziani, soffermandosi – appunto – sul brano del «cosiddetto “familismo amorale”, tara del Mezzogiorno, che tuttavia, con i tempi di crisi che corrono, è anche ammortizzatore sociale e civile, dalla disoccupazione all’abitazione, dall’assistenza ai bambini, ai malati e ai vecchi, al sostentamento di nipoti…». Vale a dire: non c’è vizio che il Sud non sappia trasformare in virtù. E sostiene Veneziani: «Di quel torbido vincolo c’è da salvare il legame comunitario, per svegliare un modello di sviluppo compatibile con la storia e la tradizione del Sud. Quel legame è fondato su basi non disdicevoli: la cultura del dono che prevale su quella utilitaristica, anche se degenera nella cultura del favore e del privilegio; la convivialità e l’ospitalità come base del legame sociale, l’attaccamento al luogo natio […], la capacità di addomesticare il dolore, la morte e la solitudine con un sofisticato sistema di riti». Qualcuno ricorda che fu Cesare Musatti, decano della psichiatria, a dire che la sua materia era stata inventata da ebrei per convincere gli anglosassoni a vivere da italiani?
È proprio quello che va chiarito ai padani. Le statistiche dislocano al top dell’efficienza e del civismo Ginevra e Zurigo; Napoli e Palermo sono in fondo. Ma nelle due prime città si registra anche il massimo dei suicidi e del consumo di psicofarmaci, mentre le due capitali del Sud d’Italia sono anche all’ultimo posto per aborti, per divorzi e per ogni altro tipo di malessere. Veneziani conferma che non si vive di sola efficienza: «Più la globalizzazione coincide con la settentrionalizzazione del mondo, più il Sud diventa il luogo della vita autentica».
Apoditticamente sicuri delle proprie opinioni l’uno e l’altro, tant’è che Cammilleri – rimproverando gli eterni lamenti dei meridionali – ribadisce: «Da due secoli vi ripetono che il Nord è meglio del Sud e avete finito col crederci. Questa storia l’hanno inventata i Padri della Patria, i quali, stravedendo per l’ottocentesco Impero Britannico, crearono l’Italietta, ridicolo tentativo (ahimè riuscito) di applicare alla Penisola la Rivoluzione Francese facendola fare ai Piemontesi. I quali cenavano alle sette, figurarsi quando arrivarono al Sud, dove ancora si cena alle undici, se va bene. La città italiana più irradiata (dal sole) è Siracusa. Quella meno, Torino. E il sole, oggi lo si sa per certo, stimola le endorfine, molecole della joie de vivre. I plumbei piemontesi estesero al Sud il loro sistema, il quale era modellato sul giacobinismo francese. Non poteva non uscirne un papocchio. Il Sud emigrò in America, lasciando alla Patria Unita i “paglietti” e i parassiti della pubblica amministrazione. Poi l’America ci restituì la mafia con gli interessi. Cose risapute».

E oggi? I leghisti non hanno fatto in tempo a strapparsi le vesti per la meridionalizzazione dell’Italia padana, che sono stati subissati da un ben diverso Sud, musulmano, africano, albanese, romeno, cinese… Allora? Allora, a mali estremi, estremi rimedi: «Facciamolo a Eboli, il Muro…».
No, Cammilleri, va fatto più a nord, ovunque arte e cultura sono state grandi e neglette, e la storia stravolta, e la politica e l’economia funzionali al Nord e gestite dagli “ascari” di antica e recente memoria. Un Muro ideale, intendiamo dire, che ricucia e non strappi la Penisola, come un numero crescente di “sudisti” reclama a voce non più sussurrata.
Così davvero i meridionali potranno osservarsi meglio allo specchio, e scoprire come mai nei Paesi in cui sono emigrati hanno dimostrato di essere lavoratori durissimi e spesso geniali, perché il Sud fuori dal Sud primeggia, come primeggiavano i suoi antenati prima che vi si stendesse il sudario piemontese. Riscopriranno che le Due Sicilie potevano vantare «uno strabiliante elenco di primati mondiali in tutti i campi, dall’economico allo scientifico, senza contare arte & cultura (si legga utilmente il lavoro di Simonelli citato da Cervi)». Poi, il crollo, a causa di una classe dirigente ammaliata dall’ideologia del nazionalismo centralistico. Da allora il Sud diventò fastidiosa questione meridionale, e soprattutto palla al piede del Nord, orda in marcia di esseri inferiori, fonte di sprechi e di parassitismo, mafie che si moltiplicano per partenogenesi, e altre amabili variazioni sul tema.
È il momento di chiedersi: a che punto è la notte? Cioè: di che cosa stiamo parlando, quando oggetto del discorso è il Sud? Intanto, si sa che da un pezzo è del tutto improprio parlare di un solo Mezzogiorno, come se fosse una realtà monolitica. Ormai è necessario fare riferimento ai diversi Sud d’Italia.
I popoli del Mezzogiorno amano la loro specifica identità e si battono per la difesa della loro storia. C’è da chiedersi se in presenza di tanti “Mezzogiorni” abbia ancora senso parlare di un Sud, e di conseguenza di una questione meridionale. Forse la debolezza della riflessione nasce dalla distanza tra una proposta necessariamente globale, che riguardi il Meridione, e la sua concreta, fragile storia di frammentazioni che possono essere viste come ricchezza, ma anche provocare rischi dolorosi per la crescita della nazione. Salvemini aveva probabilmente ben letto il nostro vecchio e formidabile problema: «La malattia antichissima e del tutto speciale del Mezzogiorno è nella struttura semifeudale, che è, di fronte a quella borghese dell’Italia settentrionale, un anacronismo». Cambiano i nomi, ma la realtà resta e, in tempi di economia globale, la frammentazione da ricchezza possibile, da specificità da raccontare, diventa un macigno?
Ci troviamo di fronte un mondo del tutto diverso. Nell’89 cadde il Muro di Berlino, aprendo di fatto scenari nuovi. Il Sud ha perso antiche vocazioni, e ha rottamato la sua civiltà contadina e i tradizionali legami con la terra. L’uomo del Sud è però determinato a difendere l’identità, a riappropriarsi delle radici, e a crescere al passo con i tempi. In tempi che cambiano a velocità esponenziale, questo Sud non ha dimenticato alcuni dei suoi valori fondamentali, come la lealtà, l’amicizia, la famiglia, l’apertura al diverso, all’estraneo, il culto del lavoro…

Jacob Philipp Hackert - Il porto di Barletta, 1790. - Archivio BPP

Jacob Philipp Hackert - Il porto di Barletta, 1790. - Archivio BPP

Le emergenze sono tante, sembrano non dare mai tregua. Alcune poi, più che restare emergenze, sono diventate mali endemici: lavoro che non c’è, criminalità organizzata, scandali economici, quasi tutti frutto della mancanza di una politica realmente incarnata nelle attese dei diversi territori. Sotto questo punto di vista, alcuni mali sono sempre attuali. La nuova, grande sfida, dunque, è quella di spazzar via il cupo pessimismo, se non proprio il disfattismo, di chi vede nel Mezzogiorno (nei Mezzogiorni) soltanto un problema, un peso, da cui tenersi alla larga. Ed è una sfida già in atto, con un Sud orgoglioso di sé, pronto a dare e a darsi frutti generosi, anche a costo di capovolgere i dati politici della situazione, giungendo alla conseguenza estrema di auspicare la secessione, finora predicata dal Nord padano. Le lettere di reazione all’intervento di Cervi su Il Giornale ne sono l’occhio di spia più emblematico e inquietante.
Vittorio Maglione, studente di seconda media in una scuola di Villaricca, paesone a nord di Napoli, intitolata al giornalista Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra, avrebbe compiuto tredici anni il prossimo mese di luglio. Vittorio Maglione aveva solo otto anni quando suo fratello Sebastiano, quattordicenne, colpevole del furto di un motorino sbagliato, perché appartenente a un qualche guappo del quartiere, fu inseguito, raggiunto, circondato da sei giovani su tre motorini e ucciso con tre colpi di pistola alla testa.
Il calvario cominciò da lì. Dal momento in cui nella sua mente e nel suo cuore si fa strada l’idea che l’origine del male sia suo padre, il quale con la malavita ha conti aperti dal 1978, essendo legato al clan dei Bidognetti, uno dei quattro capi del sanguinario clan dei casalesi.
Vittorio Maglione non accetta che la malapianta del crimine cresca anche in lui, e respinge con decisione la legge non scritta che la camorra debba ereditarsi con il cognome, perché sa che il mondo pulito gira in senso diverso. Vittorio Maglione manda un messaggio ai suoi amici di computer: «Chiedo scusa a tutti, tranne a mio padre che non sopporto»; scrive un biglietto ai suoi: «Non sopporto più mio padre. Saluto tutti i parenti e vi chiedo scusa. Lo odio». Il Venerdì Santo 2009 una corda passata al collo conclude la sua drammatica Via Crucis.
Vittorio Maglione è il Sud che rovescia la sua storia; è l’emblema che rinnega la brutalità cupa della sopraffazione spavalda e della violenza tollerata; è il sestante che indica con il suo olocausto la rotta di un possibile, decisivo riscatto. Non si dimentichi. Né a Nord, né a Sud.

   
   
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