Giugno 2009

Storie di liuti

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Malinconici violini
e geniali chitarre

Sergio Bello

 

 
 

Scultori.
In principio
sono stati due
meridionali,
anzi due isolani,
i più ricercati
liutai non soltanto della Penisola: il siciliano Scandurra e il sardo
Mancini, eleganti disegnatori di
chitarre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In un recentissimo saggio di Michela Landi, (Per un’organologia poetica. Gli strumenti musicali nella poesia romantica e simbolista – Tomo I: Aerofoni e Cordofoni), la qualità di rilievo, fra le altre, è il rovesciamento della relazione soggetto-oggetto nella simbiosi tra un musicista e il suo strumento: non è l’oboista che suona l’oboe, è l’oboe che fa suonare l’oboista; e una fanfara non è l’effetto di trombe e corni, bensì un festeggiamento in onore di corni e trombe.
Atteggiamento critico, questo, che dimostra come una buona ricerca gratificata da ottimi esiti richieda un indagatore che conosca linguistica e simbologia, lingue e letterature antiche (il greco antico e il latino classico e medioevale), e musicologia, poesia moderna e organologia.
Gli strumenti musicali, meravigliosi oggetti proprio perché costituiti da materia di per sé povera ma resa preziosa dal lavoro che l’ha torturata e dall’unicità del manufatto, sono in realtà “persone”, vale a dire esseri animati e pensanti: e gli esseri umani veri e propri che da essi traggono i suoni sono le loro “appendici”. L’arpa eolia prende molto sul serio questo punto di vista.

Caravaggio,
“Il suonatore di liuto”, olio su tela, 1595. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. - Archivio BPP

Caravaggio, “Il suonatore di liuto”, olio su tela, 1595. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage. - Archivio BPP


È noto che esistono una caratteriologia e una psicologia degli strumenti. Una tradizione poetica, su tutte, ha disvelato questa realtà. Ma non ci riferiamo alla poesia italiana moderna. Da qualche anno, al cospetto dello sconcio spettacolo di stranieri ritenuti “bravissimi”, che vengono da noi a spadroneggiare alla testa delle nostre istituzioni musicali, a sovrintendere ai teatri d’opera, a dirigere i Conservatori e le Accademie, siamo diventati accaniti difensori dei diritti degli italiani e della cultura degli italiani. Ma l’ignoranza dei nostri letterati in materia di musica è una colpa grave, imperdonabile. Stavamo facendo riferimento alla poesia francese, in modo particolare a quella romantica e simbolista. Da Hugo a Laforgue, a Verlaine, a Mallarmé, a Cros… È proprio quella l’età aurea in cui sarebbe stato incantevole vivere. In Francia, tra il 1870 e il 1914; anche se ci accontenteremmo della Germania del 1770-1832.

Fra i sommi esempi, il violino, «instrument triste», come non esita a definirlo Paul Verlaine nei Poèmes saturniens (Sezione “Melancholia” dedicata al violinista Ernest Boutier). Il violino è, fra gli strumenti, un personaggio lacrimevole. Nel verlainiano “Chant d’automne”, scrive l’Autrice, «il violino subisce il martirio, già nel taglio del legno, nella “coupe sur le vif”». E «les sanglots longs / des violons / de l’automne»che «blessent [ancora il martirio!] mon coeur / d’une langueur / monotone» hanno tanta forza simbolica da servire, nel giugno 1944, come messaggio cifrato che comunicava ai maquis l’imminenza dello sbarco in Normandia. Si troverà mai il coraggio di aprire un varco, qui da noi, alla personalità poetica degli strumenti musicali?

In principio sono stati due meridionali, anzi due isolani, i più ricercati liutai non soltanto della Penisola: il siciliano Scandurra e il sardo Mancini, eleganti disegnatori di chitarre e raffinati scultori di legni diversi per stagionatura, per provenienza, per qualità sonore. Due classici. Che con tutta probabilità furono ispirati da un avanguardista noto con lo pseudonimo di Wandrè: nome proprio, Antonio Pioli, di Cavriago, in quel di Reggio nell’Emilia, nella stessa Penisola genio assoluto quanto misconosciuto.
Oltreconfine, i cultori di strumenti musicali vintage si accapiglierebbero per un Wandrè, per ottenere un modello Bb, uno Scarabeo, un Oval, o quell’incredibile basso che è l’Etrurian, che sembra scaturito da una falla del continuum spazio-temporale. Come è stato descritto: metà bucchero nero e metà chitarra marziana.

Ford Perfect

Ford Perfect

La sua avventura ebbe inizio nel 1956-‘57. Interrotta negli anni Settanta, quando si dedicò al design di abiti in pelle e ad altre performance. Avvolge la sua figura un alone di mistero, quasi fosse una sorta di apprendista stregone che, fondendo gli elementi della sua magmatica fantasia, tramutava prototipi sperimentali in improbabili prodotti commerciali. Si è detto che dalla sua fucina sono venuti fuori autentici gioielli di rabdomanzia estetica. Tant’è che alcuni suoi pezzi avrebbero meritato di essere accolti subito in un museo d’arte contemporanea. E invece su questo personaggio è calato un silenzio tombale. Non per faziosa rimozione, ma per colpevole ignoranza, e per la mancanza di interdisciplinarità che affligge storicamente i nostri intellettuali.
Se negli Stati Uniti c’è addirittura chi produce in serie repliche fedeli dei suoi modelli, da noi non esiste alcuna bibliografia (eccezione per pochi studiosi e collezionisti, un sito sulle chitarre elettriche eclettiche italiane: www.fetishguitars.com), mentre Wandrè meriterebbe ben altro, essendo stato soggetto di quella contaminazione fra arte e design che negli anni del Secondo dopoguerra ha dato il meglio di sé con manufatti d’eccellenza (dalle tripoline di Bruno Munari al tavolo di Carlo Mollino: sculture da usare).
Le sue chitarre e i suoi bassi sono prodotti di un precursore, di un innovatore, di un ingegno che, seppure di provincia, tuttavia ha assorbito futurismo, surrealismo, metafisica, astrattismo, ricavandone una personalissima cifra. Le sue forme bislacche, sghembe, sconosciute nel passato, rappresentano il tentativo riuscito di coniugare le esigenze dell’avanguardia con quelle dell’impresa. Sono il frutto di uno spirito scapigliato. Purissimo beat.

Dario Carrozzini

Dario Carrozzini


Il modello Rock, con i suoi vuoti e i suoi pieni, non ha nulla da invidiare a una scultura di Moore, mentre il Bikini è un eccellente esempio di arte concreta. Poi, gli esemplari dipinti a olio, quasi fossero quadri, influenzati sia da Paul Klee e da Wassily Kandinskij sia dalla Bauhaus Immaginista del Gruppo Cobra e di Pinor Gallizio. Persino nei dettagli, nei battipenna, nelle palette, nelle chiavette, il suo estro si scatena inventando soluzioni estreme, senza nulla togliere alla funzionalità dell’oggetto.
Care a Mina e a Celentano (tanto quanto a studiosi e collezionisti come Marco Ballestri, Luciano Biasibetti e Lorenzo Pallotti), le sue creazioni portano in sé il colore del tempo, il gusto dell’epoca in cui Picasso fantasticava su Brigitte Bardot, Lucio Fontana disegnava gioielli per il décolleté di Sophia Loren, i cinegiornali ci aggiornavano sulle modelle che Yves Klein faceva rotolare sulle tele impiastricciate di tempere, e Salvador Dalì flirtava con la pubblicità. Erano i giorni in cui la modernità non disdegnava il versante popolare. Senza paura della contaminazione, nei contatti col profano. Ma con leggerezza. Con felicità.

 



 

 

 

 

 

   
   
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