Giugno 2009

Un prete verseggiatore Tra Ottocento e Novecento a Taurisano

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Il sacro e il profano
di Papa Tore Casto

Gigi Montonato

 

 
 

Discorso aperto.
Negli anni
della crescita
diseguale, Papa Tore Casto seppe svolgere, anche con la poesia,
il duplice ruolo
di parroco e di
mediatore sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il testo più notevole di quest’area è un da me ricostruito poemetto epistolare comico-burlesco, Giovan Cinquanta all’Olimpo. Si tratta di frammenti, centocinquanta endecasillabi a rima baciata, raggruppati in distici, di un componimento che doveva essere più ampio, raccolti da fogli sparsi e sistemati in un percorso narrativo plausibile 10. Il testo, mutilo e frammentario, non consente di scorgere l’intento motivale dell’autore, che si esprime a tratti in una vuota autoreferente versificazione, in cui termini afferenti la sfera fisiologica cadono a sorpresa, quasi in un infantile gusto della parola trasgressiva, e altri ripresi dalla quotidianità più banale.
È stato possibile individuare fra le cartuscelle sparse un’architettura espositiva elementare: esordio, alcune parti centrali e un commiato. Esordio e commiato convincono della forma epistolare. La forma narrativa è omodiegetica. L’autore immagina che il protagonista, Giovan Cinquanta, sia morto e scriva un’epistola all’amico Carmelo, che è la persona con la quale era stato in vita, per raccontargli quanto gli è successo dopo essere spirato; e conclude dicendogli che se vuol sapere il resto della vicenda glielo deve chiedere in rima, indirizzando la lettera «all’organista di Taurisano», con la raccomandazione di affrancarla, in caso contrario «dal procaccio verrà poi rifiutata».
Si tratta di uno scherzo nei confronti di persona viva. Difficile dire chi e perché. A momenti sembra un divertissement, per il gusto liberatorio di dar sfogo ad un anelito di uscire dalla formalità sacerdotale, asfittica e deprimente. Le persone coinvolte nel racconto costituiscono un triangolo: Giovan Cinquanta, Carmelo e l’organista, altrove indicato col nome di Francesco Rizzello. Poi ci sono due altri personaggi minori: il falegname Arturo, che gli ha confezionato la bara, e la Sossi, che gli ha fatto la camicia; e altri due che non chiama con nome: la maestra e il sagrestano. Due le località citate: Gallipoli e Taurisano. Giovan Cinquanta viene dalla bottega di un fabbro, dove ha tirato per anni il mantice della forgia, poi attiva il meno faticoso mantice dell’organo, consentendo all’organista di suonare, e insieme canta.
È un tipo burlone e usa un linguaggio estremamente fisico e volgare. Ma è un falso ignorante, perché dimostra di essere istruito: cita Attilio Regolo e l’episodio della botte, Giobbe, Santa Cecilia, i personaggi mitologico-ovidiani di Procne e Filomela. È evidente che si tratta di una trasposizione.
L’autore si immedesima in lui e si serve del suo linguaggio, compiacendosene. È cosciente di non avere un pubblico e, in una sorta di intima ribellione trasgredisce perciò, i canoni poetici e linguistici, né più né meno di un banale gesto che in casa da soli lo si compie, in pubblico o in presenza d’altri no. Una sorta di caricatura della stessa poesia, che all’autore altra soddisfazione non dà, nella sua solitudine, se non di parlarsi addosso. Psicanaliticamente interessante è l’insistenza del linguaggio scurrile, che se per un verso si adegua ad una concezione popolare e godereccia della vita, da “mancia e caca”, per un altro sconfina nella coprolalia e nel grottesco, con le inevitabili inferenze critiche.

Ecco un florilegio lessicale decisamente rivelatore: orinale, sculacchiato, ano, pitale, cacai, sterco, deretano, pisciava, orina, cesso; e ancora espressioni: sembrerebbe una trippa di magliato, Fa’ coraggio, minchion, l’Olimpo è questo, risuonaro tutte le budella, sotto l’ano avea un bel trono, E se il sono scappommi in mi bemolle / Fu sol perché odorai ieri cipolle, e il dantesco Facendo da trombetta l’orifizio.

Perché un prete fa ricorso a simile turpiloquio? Se si vuole escludere la più facile e semplice delle ipotesi e cioè che fosse ebbro, allora la spiegazione diventa più complessa e problematica e bisognerebbe chiedere soccorso a Freud. Ma del vissuto del soggetto si sa talmente poco che qualsiasi interpretazione freudiana sarebbe avventata. Più opportuna è l’analisi antropologica applicata alla letteratura. «Tale lingua – osserva Bachtin – è caratterizzata dall’originale logica del “mondo alla rovescia”, “all’incontrario”, dalla logica delle permutazioni continue dell’alto e del basso (“la ruota”), del volto e del deretano, dalle forme caratteristiche più diverse di parodie e travestimenti, di abbassamenti, profanazioni, incoronazioni e detronizzazioni burlesche» 11. «Sotto l’aspetto propriamente corporeo, che non è mai del tutto separato con precisione dall’aspetto comico – precisa Bachtin – l’alto è il volto (la testa), il basso gli organi genitali, il ventre e il deretano» 12.
L’interpretazione bachtiana di certa letteratura evidentemente ha referenze più vaste e generiche. Ma non v’è dubbio che aiuta a capire anche il mondo di don Salvatore Casto, che è piccolo e statico ed esclude le permutazioni e la “ruota”. Nel Nostro domina l’autocompiacimento, sotteso ad un gusto genericamente vendicativo per una condizione alienante. C’è in lui una sorta di intima indignatio, che fa pensare a letture giovenaliane, quasi una rivalsa nei confronti del prete che è: in pubblico deve rispettarsi per ciò che rappresenta per gli altri, mentre in privato si può finalmente vendicare, insultandolo e insultandosi.
L’intento, caricaturale, si risolve in realismo linguistico esasperato, un compromesso dialetto-italiano, non solo per l’italianizzazione di termini dialettali, come magliato da majatu (caprone), atavuto da chiaùtu (bara), complotto da cumbulottu (assembramento di persone vocianti); ma anche per la scelta lessicale più vicina al dialetto: coccoveggia da cuccuvascia (civetta), pitale da pitale (vaso da notte).
 
Il protagonista del poemetto, Giovan Cinquanta, è un povero uomo, che ha trascorso una vita di stenti, alla fine trova in chiesa un’occupazione, lui che ha sempre «soffia[to] dei fabbri nella gran fucina» diviene «dei mantici dell’organo enfiatore». Quando muore, secondo un classico della poesia popolare, finisce nell’aldilà; nel nostro caso addirittura all’Olimpo, dove, trovandosi di fronte a Giove e agli altri dei, manifesta impaccio e col suo racconto fa contorcersi dalle risa tutti gli astanti; i quali, a dispetto della loro divinità, offrono uno spettacolo indecoroso: «…Vulcano / E si volea con me farsi ruffiano», «Giove che sotto l’ano avea un bel trono», «…Minerva per incoraggiarmi / venne alla coscia manca a pizzicarmi», «Fur tante e tali in cielo le risate / Che le divinità s’eran crepate», «Mentre si sganasciava in quel complotto / Veggo Giunon che si pisciava sotto».
Indipendentemente se Giovan Cinquanta fosse persona reale – il riferimento a Taurisano ci dice che il poemetto risale al periodo taurisanese – è un’evidente trasposizione dell’autore in chiave autobiografico-liberatoria, una parodia omerico-dantesca. Nel pagano Olimpo, anacronistico mondo ultraterreno, il protagonista si concede tutte le libertà impedite in vita, fino a trasformare la sede degli dei nella casa di Trimalcione o forse soltanto per dimostrare che anche gli dei, metafora dei signori, sono come tutte le altre persone: mangiano, bevono, ridono, e via di seguito.
Quotidianamente prosastiche talune espressioni: «Apprestarmi una tazza di caffè», «Che stava a pettinarsi alla finestra», «Dammi permesso per soffiarmi il naso», «Gallipoli non ha tanti balconi / Quante fessure s’hanno i miei calzoni». Né poteva mancare la nota misoginica, vero prezzemolo di ogni minestra satirica popolare: «Di purga in questo mondo non ho voglie / Ché l’ebbi all’altro mondo con la moglie, // Che era soverchio ruvida e molesta / Sicché più volte le rompei la testa».
Siamo in presenza di un “realismo grottesco”: «Il tratto caratteristico del realismo grottesco è l’abbassamento (snizenie) cioè il trasferimento di tutto ciò che è alto, spirituale, ideale e astratto, sul piano materiale e corporeo, sul piano della terra e del corpo nella loro indissolubile unità» 13. Passatempo degli studenti sguaiati ma anche di persone serie. Per Bachtin si tratta di licenze che gli ecclesiastici si concedono per gioco, probabilmente per esorcizzare la noia del chiostro. «E non soltanto gli studenti – scrive – ma anche i chierici, gli ecclesiastici d’alto rango e i dotti teologi si concedevano delle gaie distrazioni durante le quali essi abbandonavano la loro serietà religiosa e si dedicavano ai Joca monacorum – come si intitolava una delle opere più famose del Medioevo. Nelle loro celle essi componevano dei trattati dotti semiparodici e altre opere comiche in latino» 14.
Fuori del contesto religioso, di clausura e di noia, la ricerca del comico ha, secondo Henry Bergson, una motivazione sociale. «Il riso nasconde sempre un pensiero d’intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie. […]. Il riso deve avere un significato sociale» 15.

Don Salvatore – ovvio! – non poteva conoscere Bachtin e quasi sicuramente neppure Bergson, ma poteva conoscere i celebri personaggi rabelaisiani di Gargantua e Pantagruel, oltre ai testi dei più noti autori della letteratura comico-realistica italiana, dai toscani del Due-Trecento fino ai più recenti delle atmosfere tardo-scapigliate alla Lorenzo Stecchetti e stecchettiani, ancora molto alla moda in Italia ai tempi del Nostro. Un modo di far poesia realistica che secondo Felice Cavallotti non rispondeva al vero spirito civile, «riassunto schematicamente – scrive Donato Valli – nella dispregiativa quadrilogia: “il letto – il cataletto – la latrina – e la cantina”; temi pur veri, ma afferenti ogni “divina febbre dei sensi”» 16. Il suo, tuttavia, appare un caso assolutamente di comico-caricaturale spontaneo, non indotto e non pretenzioso, proprio perché in difetto di una destinazione immediata e consapevole, specialmente per tutta quella produzione da “latrina”.
Ci sono, nell’ideazione della scena di Giovan Cinquanta al cospetto degli dei che pranzano comodamente (sculacchiati), conoscenze classiche importanti, come il concilio degli dei di Omero, e per ambientazione scenica letture come Petronio del Satyricon e Seneca dell’Apokolokintosis. Il breve poemetto di don Salvatore si risolve in una sorta di satira menippea, in cui il poeta, questa volta dalla parte del popolo, si prende una rivincita sui signori, i cui comportamenti non differiscono da quelli degli altri esseri umani. Di qui l’insistito uso di termini licenziosi e afferenti oggetti estranei al mondo della poesia, con un gusto tutto materico e plebeo.
Significativa la scelta dell’Olimpo e non del Paradiso, per non confondere il sacro col profano, i santi coi padroni, che come arciprete don Salvatore doveva riverire; utilizzando l’Olimpo nella fabula egli si prendeva gioco due volte, degli dei pagani e dei signori. Ma, ancora una volta, va sottolineato che l’atteggiamento di don Salvatore nei confronti del popolo, che evidentemente egli temeva, è paternalistico e, nell’intento giocoso e rabbonitore, tende a sdrammatizzarne i bisogni e ad esorcizzarli con lo scherzo piuttosto che lasciarli esplodere nella protesta pubblica. Ce l’ha coi fomentatori, che, benché consiglieri comunali, in un sonetto, “Pantaleo in Consiglio”, ammonisce: «Non sapete che la plebaglia unita / Su voi riversa l’ira e il mal’umore / Dalla fame vedendosi sfinita?».

Damiano Malorzo

Damiano Malorzo

Nell’area encomiastica troviamo tre componimenti scritti probabilmente nel 1912, in occasione della vittoria elettorale di Filippo Lopez y Royo, tornato ad essere sindaco dopo la crisi del 1905-1906, in contrasto coi fratelli Luigi e Alessandro: Post nubila Phoebus, Si vis pacem pete bellum, Et nunc cur tibi. È in questa importante circostanza che don Salvatore tradisce la sua debolezza politica o forse il suo totale disinteresse per questioni che non riguardano la sua specifica funzione di parroco o più semplicemente la sua prudenza. L’intento è dichiaratamente encomiastico-adulatorio: «Lieto bevo e cerco scusa / Se alla grande aspettativa / Fa mestiere la mia musa; / Ma sincero è stato il cor» (Et nunc cur tibi). Ma pur nell’adulazione egli non poteva prescindere del tutto dal dato politico. Sfiora appena appena le ragioni della crisi che sette anni prima aveva portato alle dimissioni di Don Filippo, che l’autore esemplifica in “tasse e balzelli”, quando invece furono i gravi incidenti dell’Immacolata del 1905, il «torbido uragano / Che la gente scompigliò» (Post nubila Phoebus).
Impossibile che don Salvatore non conoscesse le vere ragioni della crisi, che s’inscrivono in quel contesto di scontro fra giolittiani e antigiolittiani o più schematicamente tra filogovernativi e antigovernativi indipendentemente da chi ci fosse al governo, che caratterizzava in quegli anni tutto il Mezzogiorno d’Italia. I notabili dell’epoca avevano un comportamento politico ballerino, appoggiavano volta per volta schieramenti diversi e trovavano la ragione della scelta nel candidato con cui si sentivano più prossimi. Non era infrequente che le stesse persone da un’elezione all’altra si trasformassero da liberali in socialisti, da giolittiani in antigiolittiani, da governativi in antigovernativi: spesso solo per trovare una ragione per la contesa politica locale.

Un murales a Ugento - Nello Wrona

Un murales a Ugento - Nello Wrona


A Taurisano Don Filippo era contro il governo, che nel dicembre del 1905 era guidato dal giolittiano Alessandro Fortis, la famiglia invece era filogovernativa lato sensu. Nelle elezioni del 1904 il candidato giolittiano, il tranese Nicola Vischi, aveva battuto il candidato locale, Carlo Lopez y Royo, avvocato e magistrato a Lecce, il secondogenito della famiglia ducale. Il modus vivendi con la Spagna fu l’occasione per l’Amministrazione comunale di Taurisano per attaccare duramente il governo, il quale continuava a fare una politica in favore del Nord e contro il Sud, già penalizzato 17. Obiettivamente l’accordo per l’importazione del vino spagnolo aggiungeva elementi di crisi economica alla già sofferente economia locale. Erano anni molto difficili, di fame nera, di diffusa piccola criminalità; circolava poco denaro perfino fra i signori e i possidenti. Da qualche anno il Consiglio Comunale faceva pressioni perché fosse istituita una Caserma dei Carabinieri, per le continue rapine, i furti, le minacce, le estorsioni e altre forme di delinquenza che continuamente si segnalavano.
I signori ma anche i piccoli possidenti si sentivano direttamente minacciati da chi nel paese versava in condizioni misere e cercava in ogni modo di sopravvivere. «I ladri – si legge in una delibera del Consiglio Comunale dell’8 aprile 1905 – con audacia inconcepibile, di notte in vie frequentatissime aprono le porte dei magazzini di granaie, e indisturbati se ne appropriano; penetrano nelle case dei privati, che saccheggiano; […]. Impunemente si accoltellano nelle vie pubbliche per futilissimi motivi, e spesso si verifica che onesti cittadini non possono attendere in piazza al disbrigo dei loro affari, perché disturbati per diletto dai malviventi» 18. Ora che perfino il governo infieriva con un trattato che avrebbe ancor più stretto nella morsa il paese, sono proprio i signori che si fanno promotori della protesta popolare.
Fin dalla mattina dell’Immacolata alcuni facinorosi, fra cui Don Annibale Pennetta, fratello dell’avvocato Antonio, consigliere comunale e assessore nella giunta di Filippo Lopez y Royo, si erano portati nelle strade e nelle piazze, dove avevano sversato intere botti di vino, provenienti dalle loro cantine, messe all’uopo a disposizione. Qualcuno aveva arringato il popolo pressappoco così: – Che dobbiamo fare noi del nostro vino se il governo favorisce l’importazione di quello spagnolo? Ecco, siamo costretti a buttarlo! Altre testimonianze riferiscono che addirittura ai contadini si diede da bere vino a volontà, dicendo loro: – Vedete come è buono il nostro vino? Ora che arriva il vino dalla Spagna, col nostro ci possiamo lavare i piedi.
La manifestazione proseguì per tutto il giorno, approfittando anche della festa, e la sera, quando gli animi erano eccitati, anche per il vino tracannato in abbondanza, degenerò. I manifestanti si riunirono nei pressi del locale dove c’erano i militari all’imbocco di via Roma dalla piazza gridando «Fori fori u Vischi / e fori lu scubbatu / intra don Carlucciu / lu nostru deputatu» e, all’invito della truppa di disperdersi, iniziarono la sassaiola contro la forza pubblica, mandata, come usava Giolitti, per riportare l’ordine. Questi, spaventati per l’aggravarsi della situazione, spararono lasciando sul terreno un morto e qualche ferito.

un’edicola
votiva a Giuliano, nel Capo di Leuca. - Nello Wrona

un’edicola votiva a Giuliano, nel Capo di Leuca. - Nello Wrona


Di tutto questo non c’è traccia nei versi e nelle carte di Don Salvatore, quasi avesse voluto rimuovere un episodio che faceva paura al solo ricordarlo. Egli fa riferimento generico ad una crisi dovuta alla rabbia della gente vessata da “tasse e balzelli”, che era costata le dimissioni a Don Filippo, che nell’occasione fu fortemente osteggiato dai fratelli: «E di più fu qualche vile / Con sarcasmi e smargiassate / Che nel popolo la bile / Tutta quanta risvegliò // Onde avvenne che del pondo / Caricato troppo il carro / Dalla cima fino al fondo / Nella scesa rotolò». (Post nubila).
Parla di una sorta di sereno dopo la tempesta: «Dopo un tempo nuvoloso / Che tremare fa il colono: / Dopo un mare burrascoso / Che minaccia il marinar… // Eccellenza! In Taurisano / Così par che sia successo / Dopo un torbido uragano / Che la gente scompigliò» (Post nubila).
E giunge a dire che la tempesta è stata utile per la quiete che ne è seguita: «Se infatti un disturbo – non fosse successo / Per tasse e balzelli – sarebbe concesso / Quest’oggi a noi tutti – sì grato piacer?» (Si vis pacem).
Nel tentativo di legittimare tutti e di pacificare il paese e soprattutto la famiglia ducale, lacerata da alcune scelte, anche private, di Don Filippo e non accettate dagli sdegnati fratelli, dice: «Non diam colpe ai tuoi Fratelli / Cui portiamo alto rispetto: / E neppur la diamo a quelli / Che adempiro al lor dover» (Post nubila).
“Quelli” furono i militari che spararono e uccisero. E conclude: «Sul passato un vel tiriamo: / Nel presente alla salute / Vostra o Sindaco beviamo: / Dio al futuro penserà».
Ecco, tutto per don Salvatore finisce nel piacere del vino e nella volontà di Dio. Né gli si può dare torto, ove si consideri il clima di violenza in cui versava il paese, per oggettive difficoltà economiche e finanziarie, ma anche per colpa di una classe padronale e dirigente arrogante e litigiosa, e soprattutto vendicativa. Come non avvertire in questi versi conclusivi del Si vis pacem la preoccupazione di dover subire la vendetta di qualche signorotto permaloso? Laddove si sente la voce di un don Abbondio vuol dire che nei paraggi c’è sempre un don Rodrigo: «Sappiate per certo – che a tutti rispetto / Io porto profondo – in modo più schietto / A gente che merta – per alte virtù. // E quindi ad alcuno – se offeso si sente / Per falsi rapporti – dirò francamente: / Offesa a nessuno – ho fatto finor».

Nell’area polemica non emergono nei pochi frammenti che abbiamo importanti questioni e i pochi riferimenti fanno pensare a dissapori all’interno del mondo diocesano, in rivalità con la curia vescovile di Ugento. Obiettivi preferiti da don Salvatore sono Mons. Pugliese e Mons. Ponzetta e tutto il clero ugentino. È al nostro parroco che si deve per altro il detto “Ugento senza fede né sacramento”, che ricorre in una sua epistola in versi, probabilmente a due sacerdoti di Taurisano, don Cristoforo Parisi e don Leone Trono, che in quel periodo prestavano la loro opera pastorale in Ugento 19.
Alcuni componimenti polemici sono rivolti a non ben identificabili personaggi del suo tempo, probabilmente importanti se per prudenza non nominati o nascosti sotto nomi appena appena storpiati per l’occasione. Per un certo D. Prisca, forse un prete presuntuoso e a lui non amico, leggiamo una specie di progetto in prosa probabilmente per una successiva versificazione, in cui ricorrono le solite volgarità, come “orina”, “spruzzata” “escrementi”, che ironicamente possono «Risuscitare l’abbondanza, e dando un calcio / alla miseria intuoneremo Residunt saturnia regna» (Mio eccelso D. Prisca).
Per un certo Ponzante, probabilmente in occasione delle nozze, leggiamo prove epigrammatiche: «Che tanti nascituri coglioncini / Molestia ci daran quai Ponzantini», oppure «Innanzi ci vedrem Ponzantini nascituri / Molestia a noi daranno ed ai futuri»; e un sonetto “Leggo le Metamorfosi” che, dopo aver scomodato Ovidio, Dafne, Aracne, Mirra, Narciso e Adone, conclude aforisticamente: «Ma per ridurre il libro a perfezione / Parmi che vi dovrebbe essere aggiunto / Ponzante trasformato in un C…».
Notevole per la cifra politica il già citato sonetto a Pantaleo Manco, “Pantaleo in Consiglio”, in cui invita gli altri consiglieri comunali a seguire l’esempio del saggio consigliere comunale, peraltro di estrazione sociale modesta, piuttosto che aizzare il popolo: «Consiglieri illustrissimi, che fate / Coi vostri stralunati intendimenti? / Di Manco Pantaleo che non pigliate / Gli esatti che vi dà suggerimenti?»; e conclude l’apostrofe con versi che in qualche modo ne riscattano il piglio intimamente antipopolare della “plebaglia” che fa rima interna con “canaglia”: «E se del popol non v’importa un fico / E duri vi mostrate al suo dolore / Voi siete una canaglia e più non dico».

Nello Wrona

Nello Wrona


Per un non precisato sindaco, probabilmente di Alliste, abbiamo un lungo componimento, “Per il Sindaco Pulcinella”, di diciassette sestine di decasillabi a rima baciata, con cesura fissa fra la quinta e la sesta sillaba e con l’epifora Pulcinella, sicché la resa ritmica è la stessa del Giusti di tanti componimenti comico-giocosi. Così l’incipit: «Del nostro Sindaco – chi vuol sapere / Qual opinione – debba godere / Ne senta l’opre – Da queste impari / Che tali Sindaci – son troppo rari / Ed è una cosa – pur troppo bella / Sentir che è Sindaco – un Pulcinella».

In conclusione, ma nella circostanza il termine ci sembra decisamente improprio e inopportuno, don Salvatore Casto, verseggiatore, resta un’ipotesi; e lo è per almeno due motivi. Il primo, interno, è che non avendo egli una dimensione letteraria fuori dall’episodico quotidiano, anche per difetto di stimoli e di pubblico, si limita all’esercizio poetico in maniera occasionale, senza autentica ispirazione, in un ambiente asfittico e povero. I suoi versi, stilisticamente ibridi, si sviluppano su registri diversi, con un lessico a volte sciatto, e rivelano il malumore e il risentimento dell’autore, che ha nei confronti della poesia un rapporto metapoetico. A volte si ha quasi l’impressione che egli voglia fare la caricatura della poesia e, quasi compiacendosene, fa cadere la tensione stilistica adeguata al genere e al carattere buttando, così, un termine inopinatamente sconcio. Il secondo, esterno, è che i materiali, che siamo riusciti in qualche modo a ricostruire e sui quali abbiamo ipotizzato un profilo critico-conoscitivo, sono solo una parte del “prodotto” del Nostro e neppure da lui debitamente rivisto e licenziato.
Non credo che per don Salvatore si possano scomodare riferimenti letterari nobilitanti; ma va detto che egli era colto, padroneggiava la versificazione e nelle sue composizioni inevitabilmente usa calchi e movenze di poeti importanti delle letterature classiche e moderne.

Nello Wrona

Nello Wrona


Forse il pendant più significativo più che a qualche poeta è a tutto un ambiente, che per talune corrispondenze è la corte. A Taurisano non c’erano gli Estensi o i Gonzaga, tanto per stare nel paragone, ma c’erano i Lopez y Royo, coi quali il Nostro aveva un rapporto non proprio di sudditanza, ma di prudente e dignitosa dipendenza, secondo l’insegnamento di Tacito della via mediana. Se voleva opporsi alle minacce di chi con la Chiesa non aveva un buon rapporto, e a Taurisano ce n’erano, e di potenti anche, doveva necessariamente trovare protezione in chi, invece, con la Chiesa andava perfettamente d’accordo.
È significativo l’episodio della lapide vaniniana, voluta da alcuni signori (Ponzi, Stasi e Corsano in primis), i quali si erano rivolti a Giovanni Bovio per l’epigrafe; nella circostanza Don Salvatore fece stampare un libello a spese del Duca Lopez per impedire che quella lapide, peraltro già realizzata, fosse collocata 20. Né si può trascurare la sostanziale differenza anche di struttura e di composizione sociale del paese. A Taurisano, ai tempi di don Salvatore, i Lopez y Royo erano i signori più potenti, ma non avevano la signoria del paese, non più di diritto e nemmeno di fatto. Essi avevano conflitti all’interno della loro stessa famiglia e all’esterno con le altre famiglie della borghesia terriera e umanistica, che vantavano lauree e professioni importanti, mentre il paese nel suo insieme era piuttosto povero, socialmente disgregato e politicamente disordinato, con la gente bisognosa che stava coi ricchi piuttosto che porsi come parte antagonista.
In un simile contesto la Chiesa stava dalla parte dei signori, che favoriva svolgendo opera di rabbonimento nei confronti del popolo, che soffriva ogni sorta di difficoltà esistenziale. La Chiesa trovava in questo ruolo di mediazione e di ammortizzazione degli urti sociali una ragione importante nella difesa della fede minacciata dall’avanzare delle idee socialiste e atee e si poneva come un elemento di equilibrio, di cristiano quieto vivere. Il che non significa che essa misconosceva le ragioni della povera gente, ma che nell’impossibilità di andarle incontro fattivamente le sacrificava per non mettere in discussione la propria ragion d’essere e preferiva stare con la conservazione e con l’ordine, che in quel momento garantivano la pace sociale.
Erano gli anni in cui il processo di industrializzazione del Nord, promosso da Giolitti, si accompagnava a quello di democratizzazione di tutto il Paese, in una crescita diseguale; e la Chiesa, dopo il Patto Gentiloni e la vanificazione di fatto del non expedit, si avviava a diventare un soggetto politico importante. Papa Tore Casto seppe svolgere, anche con la poesia, il duplice ruolo di parroco e di mediatore sociale. Quanto bene e validamente non si può dire; per mancanza di prove sufficienti, resta un discorso aperto.

(2. Fine. La precedente puntata su “Apulia”, n. I / 2009)

Note

10: I salmi di Papa Tore: Giovan Cinquanta all’Olimpo, in “Presenza Taurisanese”, nn. di marzo, aprile e maggio 1984.
11: BACHTIN Michail, L’opera di Rabelais…, cit.,   pag. 14.
12: Ib., pag. 26.
13: Ib., pag. 25.
14: Ib., pag. 17.
15: BERGSON Henri, Il riso. Saggio sul significato del comico (1899), a cura di Federica Sossi, Milano, Biblioteca di Libero, 2003, pagg. 18-19.
16 CAVALLOTTI Felice, Anticaglie, Roma, Tipografia del Senato, 1879, pag. 27, in VALLI Donato, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella, 1985, pag. 52.
17 La politica bifronte di Giovanni Giolitti ha una vastissima letteratura storiografica. Notevole per carica polemica il libello di Gaetano Salvemini, Il Ministro della mala vita, uscito nel 1910 e poi più volte riedito e ristampato.
18 Archivio Storico del Comune di Taurisano, Registro delle Delibere del Consiglio Comunale, anno 1905, delibera dell’8 aprile.
19 In un’epistola in versi quinari senza titolo e senza destinatario si legge: «Se scriver vuoi / Per tua difesa / Di Taurisano / Scrivi alla Chiesa // Da questa in cielo / La relazione / Sale e discende / Con devozione // Mentre a quella / Chiesa d’Ugento / Non c’è fede / Né sacramento». Quest’ultima strofa ha la variante «Che come sai / Costà in Ugento / Fede non c’è / Né sacramento». Cfr. CASTO don Salvatore, Carte inedite, cit.
20 PONZI Luigi, Onoranze mancate per Giulio Cesare Vanini, in “La Zagaglia”, n. 38, Lecce, 1968; ZACCHINO Vittorio, L’epigrafe “contestata” di Bovio per Giulio Cesare Vanini, in “Il Galatino”, Galatina, 5 giugno 1969. MONTONATO Gigi, Per una tormentata lapide a Giulio Cesare Vanini, in “Voce del Sud”, Lecce, 17 ottobre 1970.

 

 



 

 

 

 

 

   
   
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