Settembre 2009

cinquant’anni fa, 1959

Indietro

“Miracolo”.
Ma per l’altra Italia

Aldo Bello

 
 
 

La lagna paga.
Il piagnisteo
è un segnale della debolezza della cultura nazionale:
un mondo pieno
di pentiti e di
ravveduti, un
universo mediatico pieno di lacrime. Come reagire?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’espressione fu coniata a Londra dal quotidiano “Daily Mail”: «Il livello di efficienza e prosperità del sistema produttivo italiano costituisce uno dei miracoli economici del continente europeo». Era il 25 maggio 1959, mezzo secolo fa. Da quel momento fino al 1963 l’economia del nostro Paese crebbe a ritmi mai conosciuti. Il Prodotto interno lordo si impennava al 6,2 per cento. Se ne accorsero, gli italiani? Il termine “miracolo” non entrò nell’uso comune, anche perché ebbe la meglio il termine “boom”. Forse anche perché nella Penisola non ci si fidava molto di quel riconoscimento che ci veniva fatto da un popolo un po’ perfido, che non per niente ci definiva “miracolati”. Eppure, non si trattava dell’unica constatazione fatta dai britannici. Nello stesso 1959, infatti, la nostra divisa, la lira, si guadagnava sul “Financial Times” la corona di moneta più stabile d’Europa.
Non avevano sbagliato nella definizione, gli inglesi, visto che quella crescita fu realmente imprevista e improvvisa. Ma gli italiani se ne accorsero? Certamente sì, e quella consapevolezza servì da fattore euforizzante: in quegli anni l’Italia aumentò vertiginosamente i consumi, le famiglie si indebitarono per comprare gli elettrodomestici, l’auto o la casa. Si realizzò una modificazione radicale dello stile di vita collettivo, tant’è che ancora adesso possiamo considerarci figli nostalgici di quel salto di qualità. Abbiamo attraversato crisi, recessioni, obnubilamenti della ragione, ma non ci siamo mai dimenticati di quella stagione abbagliante, e fino ad oggi abbiamo inutilmente cercato di riviverla. Probabilmente perché i miracoli non si ripetono.
Era stato un processo spontaneo, anche in virtù di una congiuntura internazionale favorevole, che determinò una sorta di età dell’oro del commercio. Sta di fatto che nell’Italia del boom ci furono una straordinaria tensione morale, una forza corale di ricostruzione, una fiducia e un’energia che non abbiamo più recuperato. Ci fu voglia di fare, di riuscire, di migliorare. Il primo totem della modernità, per un’Italia che aveva conosciuto la fame durante la guerra, (ma per alcune aree potremmo dire dall’Unità in poi), fu il frigorifero: una porta magica che si apriva, si illuminava e faceva vedere il cibo. Il televisore verrà dopo. Ma il primo feticcio, il primo focolare fu per tutti solo ed esclusivamente il frigorifero.
Li produceva persino la Fiat. Gli inviati dei giornali sbarcavano a Pordenone per scoprire i segreti del “Rex” con il “tropic system” che funzionava «nei Paesi tropicali e da noi risparmia energia». Ai Caroselli televisivi la gran fabbrica era filmata dall’alto: veniva presentata in tutta la sua mole grandiosa, mentre una voce scandiva lo slogan: «Tutto questo non nasce dal nulla». Anche chi fabbricava lavatrici era attento ai consumi. Per la pubblicità tv, «la Candy automatic lava 4 chili di biancheria con soli 17 litri di acqua». Dietro ai nuovi “elettrodomestici bianchi” c’era da conquistare un nuovo modo di vedere la casa e le donne: gli strumenti tecnologici che facilitavano i compiti tradizionalmente femminili erano visti con sospetto, ma finirono per avere la meglio. Entrarono di prepotenza nelle case il burro, i telefoni, gli scaldabagni. Si consumavano più carne e più medicinali.

Dürer, “L’avarizia”, 1507. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

Dürer, “L’avarizia”, 1507. Kunsthistorisches Museum, Vienna.


Ma di chi siamo figli, del boom oppure dei “capelloni” che già all’inizio degli anni Sessanta contestavano la società dei consumi? In fondo, anche Guido Piovene nelle pagine di “Epoca” nel maggio ‘59 plaudiva alla “società doviziosa” di Kenneth Galbraith e approvava i suoi anatemi contro «un sistema economico che produce troppe cose inutili». Comunque, si era usciti da un’antica morta gora e si sfangava un’altra vita: per la prima volta nella nostra storia la responsabilità dello sviluppo si spostò dal secondo popolo (le élites) al primo (le masse), in un modello di Strapaese basato sulla famiglia, sulla piccola impresa, sui mille lavori sommersi che anche oggi consentono di contenere la crisi: e, forse, di venirne fuori.

Prima, durante e dopo il miracolo, le marce di trasferimento dei meridionali furono due. La prima riguardò le migrazioni in massa verso il Nord e i suoi tessuti industriali diffusi. Fu grazie a questo esodo, che giustamente è stato definito biblico, che l’altra Italia poté produrre beni e servizi a basso costo di lavoro, e sbaragliare la concorrenza sul piano internazionale. Va da sé che, stando così le cose, fu soltanto l’Italia del Nord a cogliere per intero i frutti del boom, che rimasero a lungo sconosciuti, o di diffusione molto limitata, nel Mezzogiorno, terra di espulsione demografica e di scarso sviluppo manifatturiero. La seconda riguardò, appunto, la presa di beneficio anche per le genti del Sud: ma faticosa, a pelle di leopardo, e con ritmi di tempo propri delle società arretrate.
Insomma, miracolo certamente fu, ma soltanto per una parte della Penisola. Il resto del territorio rimase agganciato alla “locomotiva” nordica, subendone gli scarti e i condizionamenti, con la velocità e le scelte fondamentali decise altrove. Eppure era uguale, ovunque, la voglia di darsi da fare, perché era opinione diffusa che il lavoro nobilitasse l’uomo. Le città erano vitali e sicure. Si riusciva a vivere con poco, nel vestire non si era schiavi delle mode, si spendeva di più in libri, si era orgogliosi delle tappezzerie alle pareti di casa, la domenica si andava al mare in Seicento. Ma al Sud la gente continuava a fuggire, mentre la malavita diventava impresa e la Cassa per il Mezzogiorno, dopo aver cominciato bene, proseguiva lavorando, come le streghe di Macbeth, ad un’opera senza nome.

Dürer, “Ritratto di Michael Wolgemut”, 1516. Norimberga, Germanisches National Museum. - Archivio BPP

Dürer, “Ritratto di Michael Wolgemut”, 1516. Norimberga, Germanisches National Museum. - Archivio BPP


I giovani provenienti da famiglie agiate, o quelli non è dato sapere se più coraggiosi o più spregiudicati, frequentavano università “remote”: Roma piuttosto che Napoli o Bari; e Bologna, Firenze, Pisa, Milano, Torino. Chi completava i corsi di studio, difficilmente tornava indietro. Lontano dal paternalismo di una società languente, o dal “fancazzismo” di chi ingannava l’attesa per scarse o nulle tradizioni e cultura dell’iniziativa individuale, imparava il mestiere di vivere e dispiegava oltre confine il proprio talento, misconosciuto quasi senza eccezione nella terra d’origine. Si perpetuava così la stratificazione di borghesie deboli e al limite dell’inettitudine, mentre emergevano a fatica e con indescrivibili sprechi di energie soltanto gli spiriti ostinati, determinati a costruire qualcosa, almeno qualcosa che scrivesse una pagina nobile nella storia più tragica che grande del Sud.
A rifletter bene, comunque, un miracolo, a modo suo, il Mezzogiorno lo fa da sempre: il miracolo di sopravvivere in qualche modo alle storture e alle deviazioni politico-economiche; di farsi cittadino del mondo – svuotando ancora oggi i centri abitati – per rompere la crosta del sottosviluppo; di opporre una valida resistenza ai rapporti induriti con l’altra parte del Paese; di non farsi gogoliana anima morta in vendita all’offerente di turno.

“Ritratto di Hieronymus Holzschuher”, 1526. Berlino, Staatliche Museum. - Archivio BPP

“Ritratto di Hieronymus Holzschuher”, 1526. Berlino, Staatliche Museum. - Archivio BPP

Forse non poteva essere diversamente, malgrado tante opinioni contrarie in proposito. Sicché la domanda di fondo è: il destino del Sud era segnato fin dall’inizio della storia unitaria?
“La più bella impresa dei tempi moderni” era cominciata sulle rive del Ticino esattamente un secolo e mezzo fa, nel 1859. Non ci si deve sorprendere se un vecchio piemontese come Cavour pensò e disse queste parole all’inizio di quella che chiamiamo Seconda guerra d’Indipendenza, in virtù della quale si inaugurò la fase rapida e turbinosa destinata a fare dell’Italia una nazione. Retorica a parte, va detto che il nostro Risorgimento è sempre stato riconosciuto dalla storiografia internazionale come uno dei capitoli più significativi di quella grande e controversa Storia che l’Europa andava scrivendo nel secolo XIX. Ma per Cavour l’Unità era stata il sogno dei suoi anni giovanili: sogno collettivo, del resto, appartenente a più generazioni, perché dietro di lui, cinquantenne, agivano i nuovi ventenni romantici che si arruolavano sotto le bandiere di Garibaldi, giungendo dalle regioni più lontane, in attesa di una rivolta popolare.
Il suo alleato, l’imperatore francese Napoleone III, non la pensava in modo diverso: la guerra gli appariva l’opportunità attesa dai giorni seguiti all’esilio a Sant’Elena del suo illustre zio, il primo Napoleone, per spezzare il cerchio delle vecchie monarchie e dei loro pregiudizi, in nome delle nuove generazioni «con le loro passioni ardenti».
Ma quale Italia aveva in mente Cavour? Non sono pochi coloro i quali, in questi cento e cinquant’anni, non hanno mancato di sottolineare come il disegno cavouriano all’aprirsi della guerra fosse molto impreciso. Lo statista guardava, essenzialmente, alla costituzione di un Regno dell’Alta Italia sotto la guida di Vittorio Emanuele II, e ben poco chiariva su quale dovesse essere la sorte del resto della Penisola. Senza dubbio, c’era molto empirismo nella sua condotta politica, che simultaneamente mirò all’aiuto della Francia, al non intervento dell’Inghilterra, alla creazione di una trappola che attribuisse all’Austria la colpa del conflitto.

Dürer, “Ritratto di Elspeth Tucher”, 1499. Kassel, Gemäldegalerie.

Dürer, “Ritratto di Elspeth Tucher”, 1499. Kassel, Gemäldegalerie.


Superfluo dire che la maggioranza degli italiani che prese parte al conflitto era del Nord. E a scorrere l’elenco dei Mille che partirono volontari nel maggio 1860, diretti in Sicilia, si incontrano 163 bergamaschi, molti altri lombardi, 150 liguri, e appena un centinaio di meridionali, tra i quali i leggendari Cairoli, quattro su cinque dei quali caduti nelle battaglie risorgimentali.
Il Nord – un certo Nord – ci racconta oggi che le ragioni per le quali allora volle mettersi alla testa di un processo di unificazione della Penisola sono venute meno. È possibile, anche se le giustificazioni addotte non pendono sul versante della nobiltà politica, civile e culturale, essendo palesemente frutto di passioni (rare) e di interessi (moltissimi) del tutto differenti da quelli che spinsero la “meglio gioventù” di un secolo e mezzo fa a muovere contro Vienna, e in seguito – unilateralmente – contro gli Stati della Chiesa e contro le Due Sicilie. Sicché quella del 1859 sembra diventata una data in un certo senso imbarazzante, una pratica che il calendario obbliga a ricordare, ma di cui liberarsi in fretta. A questo ci sta portando l’ottuso negazionismo padano.
Da una certa antropologia meridionale i padani – quelli che rivendicano le gabbie salariali, per dire – hanno tatticamente assorbito una condizione sottoculturale: quella del lamento assurto a sistema totalitario. L’occasione per riparlarne ci è data da un libro di Julian Baggini, edito di recente con il titolo inglese “Complaint”, tradotto in italiano conIl potere della lagna”. È un testo che presenta una vera e propria fenomenologia storica e concettuale delle varie forme di lamentazione, e che offre anche un’ermeneutica e una morale della lagna, giudicandola non soltanto costante del genere umano (si potrebbe parafrasare Heidegger e dire che l’uomo è un essere-per-la-lagna), ma anche un valore positivo: in definitiva, la molla del progresso umano. Beata ingenuità! Ma tant’è, questo richiede un certo pubblico di lettori, che si dà l’aria di pensare, ma è privo della hegeliana “fatica del concetto”, che ama la filosofia, ma a patto che sia un tanto al chilo.

Dürer, “Ritratto di Hans Tucher”, 1499. Weimar, Schlossmuseum.

Dürer, “Ritratto di Hans Tucher”, 1499. Weimar, Schlossmuseum.


Il fatto è che questo autore confonde il lamento con la rivendicazione sociale, la quale, se vuole essere efficace, come sapevano i marxisti del tempo che fu, più che essere un piagnisteo, una recriminazione, una lamentela, deve realisticamente armarsi di forza politica e materiale; e dimentica che una morale che non si fa politica finisce per essere astratta e ipocrita. Ed è qui che il caso italiano (che Baggini, nonostante il cognome tradisca le origini peninsulari, non tratta) è utile per farci capire come stanno effettivamente le cose. Qui dalle nostre parti, ma anche in quelle del mondo protestante.

Da noi, sul cosiddetto “vittimismo meridionale”, da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini tante pagine sono state scritte. Sostiene Giovanni Russo: «Lagnarsi in continuazione, dare sempre la colpa delle nostre deficienze agli altri e in particolare allo Stato, visto come un’entità astratta e lontana, non darsi da fare assumendosi le proprie responsabilità, è stato uno dei fattori della nostra arretratezza». Ma i padani non sono del tutto sprovveduti. Essi infatti denunciano vuoti di sviluppo causati da sprechi di denaro riversato oltre i loro confini, e fortemente si lamentano per difendere col coltello fra i denti quel che hanno messo su, anche sacrificando le aree meno evolute d’Italia, e per ottenere di tutto e di più, in nome di una rozza visione carsicamente secessionista. Allora il loro piagnisteo è un segno dei tempi.
Qualche anno fa venne pubblicato un libro contro “La cultura del piagnisteo”. In esso l’autore, Robert Hughes, osservava che le culture minoritarie, piuttosto che confrontarsi con le altre nel nome del merito e dell’eccellenza, tendevano ad autocommiserarsi, a rinserrarsi in un ghetto e ad esigere protezione; perpetuando, in questo modo, la loro condizione di inferiorità. «La lagna paga», osserva il filosofo Maurizio Ferraris, e questo è un segnale della debolezza della cultura nazionale che viviamo: un mondo pieno di pentiti e di ravveduti, un universo mediatico pieno di lacrime. Come reagire? Forse auspicando il ritorno a un’etica stoica, in cui il coraggio morale, l’autonomia e il disprezzo del lamento siano valori centrali.
Fossero più attenti ai risvolti culturali, e meno distratti dall’esasperata difesa dei privilegi, i padani figli e nipoti del boom rifletterebbero su ben altro, a proposito del Sud. Ad esempio, che qui la mala sorte non è vissuta come un fatto privato, con discrezione, con riserbo, ma è ostentata fino a trasformarsi in una sceneggiata. È il fenomeno del “pianto greco”, così detto perché era una figura essenziale della tragedia: una condizione che, in un popolo che ha teatralizzato la vita stessa, ha finito per diventare un carattere costitutivo e, dunque, antropologico. Difficile, se non impossibile, da scrollarsi di dosso. È a questo limite che intendono portare le magnifiche sorti e progressive della presunta patria padana i fautori del leghismo, come alibi della loro ideologia centrifuga?

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2009