Settembre 2009

Il CAPITALISMO dopo la crisi

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Torneranno antiche radici

Ralf Dahrendorf

 

 
 

Mentalità nuova?
Evidentemente non sappiamo
ancora dove porti la crisi né quanto durerà, e abbiamo soltanto una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita.

 

 

Chi oggi parla della crisi non ha bisogno di chiarire di che cosa si tratti. E le spiegazioni del crollo socio-economico sono tanto varie quanto le reazioni della crisi stessa. Vanno dall’eccessivamente specifico all’eccessivamente generale, e confondono più di quanto non spieghino.
All’estremo capo ultraspecifico di queste spiegazioni c’è la tesi secondo cui tutto quel che è successo nell’economia mondiale dal settembre 2008 è riconducibile alla decisione del Governo americano di non proteggere dall’insolvenza la banca Lehman Brothers. Una singola decisione avrebbe in questo modo scatenato un effetto domino che ha sconvolto dapprima la finanza e in seguito l’economia reale. Al capo opposto vi è invece chi parla di un crollo del “sistema”. D’altra parte, forse già Karl Marx non aveva profetizzato una brutta fine per il capitalismo? Tra questi due estremi è offerta ogni sorta di spiegazioni politico-economiche possibili.
Ma quando le spiegazioni di un fenomeno diventano così variegate, è bene mantenere la calma. Evidentemente non sappiamo ancora dove porti la crisi. Non sappiamo quanto durerà e abbiamo soltanto una vaga idea di come sarà il mondo quando sarà finita. La tesi che sosteniamo è che abbiamo vissuto un profondo cambio di mentalità e che adesso, in reazione alla crisi, siamo di fronte a un nuovo mutamento. Al cambio che abbiamo alle spalle si può dare un nome semplice: è il passaggio da un capitalismo di risparmio a quello di debito.

Il brillante scritto di Max Weber su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo ha i suoi punti deboli, ma rimane plausibile la tesi weberiana che l’origine dell’economia capitalista richiede una diffusa predisposizione a rimandare la soddisfazione immediata dei bisogni. L’economia capitalista si mette in moto soltanto quando gli uomini non si aspettano di godere subito i frutti del loro lavoro. Nel protestantesimo calvinista l’aldilà era il luogo della ricompensa per il sudore versato lavorando nell’aldiqua.
Da allora, tuttavia, si è verificato quel cambio di mentalità di cui scrive Daniel Bell in vari saggi del suo libro The Cultural Contradictions of Capitalism.
L’Autore parla dello «sviluppo di nuove abitudini d’acquisto in una società fortemente consumistica e della risultante erosione dell’etica protestante e del comportamento puritano». In altre parole, il capitalismo sviluppato esige dagli uomini elementi dell’etica protestante quando sono sul luogo di lavoro, ma al di fuori di esso, nel mondo del consumo, richiede esattamente il contrario. Il sistema economico in un certo senso distrugge le proprie premesse mentali.
Quando Bell scriveva questo, non si era ancora compiuto il nuovo cambio di mentalità economica, ovvero il passaggio dalla mania consumistica alla gioiosa abitudine di fare debiti. Quando è cominciato questo percorso? Di sicuro, negli anni Ottanta c’erano già persone che per un centinaio di marchi facevano un giro del mondo di sei settimane, pagando le ultime rate dei costi effettivi quando già più nessuno dei loro amici e conoscenti voleva vedere le diapositive scattate a Rio o a Bangkok. Giustamente Bell parla dei pagamenti a rate come del peccato originale. Allora il capitalismo, che era già mutato dal capitalismo di risparmio a quello di consumo, si avviò fatalmente verso il capitalismo di debito.
Ed è proprio qui il passaggio dal reale al virtuale, dalla creazione di valore al commercio dei derivati. Si diffuse un comportamento che permetteva il godimento non solo prima del risparmio, bensì addirittura prima del pagamento. “Enjoy now, pay later”, divenne una massima d’azione.
Ma il cambiamento di mentalità qui tratteggiato è instabile. Non si possono fare debiti all’infinito. Questa è proprio l’esperienza della crisi, nella quale cresce anche la tentazione di sostituire i debiti privati con quelli pubblici. Ci si pone così la domanda sull’aspetto che assumerà il mondo dopo la crisi.
 
Parlare seriamente di ciò in pieno 2009 è un’impresa temeraria. E tuttavia una serie di sviluppi appare quanto meno molto probabile. Quanto durerà la crisi? Due anni? Tre anni? Le condizioni generali dell’economia e della società in molti luoghi, come appunto in Europa, non sono particolarmente gradevoli. Esse potrebbero però diventare la causa di un nuovo cambiamento di mentalità, il cui nucleo risiede in un rapporto nuovo col tempo.
Una caratteristica del capitalismo avanzato di debito era l’agire con il fiato incredibilmente corto. Nel caso estremo dei commercianti di derivati significa che essi avevano già passato di mano il denaro fittizio prima ancora di porsi il quesito su quanto esso realmente valesse. Ma un simile comportamento era soltanto parte di una frenesia più generalizzata. Degli sviluppi imprenditoriali si dava notizia non più con cadenza annuale, bensì trimestrale, e spesso a intervalli ancora più brevi. I top manager non presentavano più prospettive di lungo periodo; molti venivano congedati dopo pochissimo tempo con una stretta di mano milionaria. I politici si lamentavano di questo agire dal fiato corto, ma ne condividevano sempre più le debolezze.
Per questo motivo è dall’alto che deve iniziare un nuovo rapporto con il tempo. La questione dei compensi ai manager – uno dei motivi di rabbia popolare – diventa risolvibile solo nel momento in cui i redditi vengono agganciati a conquiste di lungo periodo. In tal modo si può riportare al centro delle decisioni anche un concetto che negli anni del capitalismo di debito è stato dimenticato, ovvero quello degli stakeholder. Con questa espressione si indicano tutti quelli che magari non hanno delle partecipazioni in un’impresa, ovvero che non sono shareholder, ma che hanno un interesse esistenziale alla sopravvivenza e al successo dell’azienda: i fornitori e i clienti, ma soprattutto gli abitanti delle comunità in cui sono attive le imprese. Per essi non è tanto importante la congestione, quanto il riconoscimento dei loro interessi da parte del management, e ciò a sua volta presuppone che i dirigenti sappiano guardare oltre il loro naso, anziché tenere sott’occhio soltanto i profitti e i bonus del trimestre successivo.

Nello Wrona

Nello Wrona


Anche il superamento delle questioni strettamente globali dipende da una nuova prospettiva temporale. Che l’agire venga determinato da un pensare a breve o, invece, a medio periodo lo si capisce anche da come viene attuata la politica di lotta ai cambiamenti climatici – o, meglio, alla mancanza di una tale politica. Forse sono necessari avvenimenti radicali per favorire un agire orientato al futuro. Probabilmente il Bangladesh o l’Olanda dovranno affondare nelle onde marine prima che si imponga il messaggio di Al Gore o di Nicholas Stern.
Il cambio centrale di mentalità che potrebbe nascere da questa crisi è quindi di un nuovo rapporto col tempo nell’economia e nella società. Ultimamente, d’altro canto, si fa un gran parlare di fiducia e di responsabilità. Sono necessarie entrambe, ma l’una e l’altra presuppongono che cessi il modo di pensare estremamente miope di chi ha in mano il potere. Perché ciò avvenga, il management deve scendere dai piani alti, affinché chi prende le decisioni si rapporti nuovamente in modo responsabile verso le persone di cui ha in pugno il destino. Per favorire questo cambio di mentalità sono necessarie misure in parte reali e in parte simboliche.

Si dovrebbe quindi verificare un ritorno all’etica protestante di beata memoria? È possibile un tale ritorno? La risposta all’ultima domanda non può che essere probabilmente no. In questo momento anche la prima domanda perde di valore. Ciò che non può essere, allora non sia.
Le nostre economie moderne non potranno tornare indietro, a Keynes, e dopo di lui il pensare all’eternità con la speranza di una ricompensa nell’aldilà ha perso la sua forza e la sua attrattiva.

Archivio BPP

Archivio BPP


Non ci sarà quindi nessun ritorno all’etica protestante. E tuttavia un ravvivamento delle antiche virtù è possibile ed è auspicabile. Il paradosso del capitalismo di cui parla Bell non potrà sparire del tutto: il motore del capitalismo moderno si fonda su preferenze che i metodi dello stesso capitalismo moderno non contribuiscono a rafforzare. Per formularla in maniera meno astratta: lavoro, ordine, servizio, dovere, rimangono i prerequisiti del benessere; ma lo stesso benessere significa piacere, divertimento, desiderio e distensione. Gli uomini lavorano duro per creare beni che in senso stretto sono superflui.
Non torneremo al capitalismo di risparmio, ma a un ordine in cui il soddisfacimento dei bisogni è coperto dal necessario valore aggiunto. Il capitalismo del debito deve essere ricondotto a una misura sopportabile. È necessario qualcosa come un “capitalismo responsabile”, sebbene nel concetto di responsabilità sia necessario che risuoni soprattutto la prospettiva di medio periodo, ovvero quella di un nuovo rapporto col tempo.
È importante che tra pacchetti congiunturali e schemi di salvataggio non si perda di vista il dopo-crisi, perché in questi anni si decide in quale tempo vivrà la prossima generazione di cittadini delle società libere.

Nato ad Amburgo nel maggio del 1929, Ralf Dahrendorf è scomparso a Colonia lo scorso mese di giugno. Aveva compiuto gli studi nella città natale. Si era dedicato con crescente impegno alla filosofia, alla filologia, poi alla sociologia che aveva perfezionato a Londra, e che insegnò ad Amburgo, a Tubinga e a Costanza. Sempre attento ai problemi della vita politica, era stato inizialmente socialdemocratico. Passato tra le file dei liberali tedeschi, era stato eletto deputato, aveva preso parte al governo Brandt, era divenuto Commissario europeo con l’italiano Malfatti, con l’olandese Mansholt e col francese Ortoli. Dal ’74, per un decennio, fu direttore della London School of Economics. Dall’87, amministratore delegato del St. Antony College dell’Università di Oxford. Nell’88 aveva avuto la cittadinanza inglese, e nel ’93 era stato nominato Lord dalla Regina Elisabetta. In anni recenti aveva insegnato a Berlino. In Italia ha pubblicato le sue opere soprattutto con Laterza.

 


   
   
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