Settembre 2009

immigrazione e multiculturalismo

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Miraggio Europa

Monica Marano
Giulio Faretti
Francesco Regis

Coll.: Ennio Foschini
Andrea Morelli
Carlo Stagno

 
 

Manipolazioni.
Sul banco degli accusati c’è la scuola pubblica dei Paesi africani, una scuola che, con programmi
eurocentrici,
istiga a salire su una piroga e a
sfidare l’oceano per inseguire un sogno.

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno dei problemi centrali legati all’accoglienza degli extracomunitari che provengono dalle aree povere dell’Asia e dell’Africa è che gli italiani – e gli europei – hanno perso la fede in alcuni elementi di quella civiltà dalla quale gli immigrati erano attratti. «Gli europei vorrebbero uscire dalla storia, dalla Grande Storia, dalla storia scritta in lettere di sangue», diceva il politologo francese Raymond Aron negli anni Settanta. «Altri, in centinaia di milioni, vorrebbero entrarvi». È difficile seguire le regole dell’Europa e abbracciare i suoi valori, come i nuovi arrivati si sentono talvolta dire, quando gli europei stessi stanno riscrivendo quelle regole e rivedendo quei valori.
L’Europa in cui gli immigrati iniziarono ad arrivare negli anni Cinquanta era sconvolta dagli orrori della Seconda guerra mondiale e impegnata a costruire delle istituzioni che impedissero il loro ripetersi. La più rilevante di queste istituzione era la NATO. L’Unione europea era la più ambiziosa. La guerra aveva dato ai pensatori europei tutte le loro categorie morali e i loro metri di giudizio. Evitare un altro conflitto significava purificare i Paesi europei dal nazionalismo, un termine che includeva tutte le vestigia del razzismo, del militarismo e dello sciovinismo culturale, ma anche il patriottismo, l’orgoglio e la competitività tra nazioni. In alcuni Paesi anche i semplici gesti di cantare gli inni nazionali e di sventolare le bandiere divennero appannaggio di hooligan e skinhead.
Spinta dagli Stati Uniti (che all’epoca stavano facendo i conti con i propri problemi razziali) e con la minaccia del comunismo al centro dei propri pensieri, l’Europa cominciò ad articolare un codice di “valori europei”, come l’individualismo, la democrazia, la libertà e i diritti umani. Anche se questi valori non vennero mai definiti con troppa precisione, essi sembravano comunque in grado di garantire la coesione sociale; e, di fatto, il loro riconoscimento coincise con sessant’anni di pace.

L’Europa era un luogo attraente per gli immigrati. Ma “attrazione” e “ammirazione” non sono sinonimi. Anche l’Impero Ottomano e la Cina avevano esercitato una “forza d’attrazione” sugli occidentali nel XIX secolo, ma non era stata certo l’ammirazione per i loro sistemi di governo o i loro ideali sui diritti umani a spingere gli europei a firmare dei trattati con queste due Potenze, a insediarsi nel loro territorio e a scombussolare le loro vite nazionali. Era stata invece la loro ricchezza, coniugata alla loro incapacità di difendersi.
Pur non essendo stata progettata pensando agli immigrati, l’Unione europea ha comunque finito per porre le regole sotto le quali essi sono stati accolti. L’Europa post-bellica è stata edificata su un’intolleranza verso l’intolleranza, un atteggiamento che è stato elogiato come antirazzismo e antifascismo, ma anche ridicolizzato come pura e semplice correttezza politica. In questa sede, non ci interessa né difendere questa posizione riconducendola al senso comune, né respingerla come un vano sproloquio. Si tratta invece di comprendere innanzitutto a che cosa l’Europa stava pensando quando accoglieva un numero così alto di immigrati (una cosa che non avrebbe mai fatto in nessun periodo storico precedente); e, in secondo luogo, su quali basi ha potuto affrontare il problema dell’immigrazione in un modo spesso così ingenuo ed eccessivamente indulgente.

Gli europei post-bellici si sono comportati come se nessuna cultura fosse migliore delle altre. Nel 1996, il governo olandese ha asserito che «il dibattito sul multiculturalismo deve essere condotto a partire dal principio che le culture hanno eguale valore». Lo Stato avrebbe dovuto confrontarsi con le questioni dell’immigrazione e dell’etnicità mantenendo un atteggiamento scrupolosamente neutrale, aiutato da un insieme di “valori universali” ritenuti comuni a tutte le culture. Sembrava inappropriato costringere – o anche solo convincere – gli immigrati ad abbracciare quelle vecchie fedeltà nazionalistiche che gli europei stessi stavano abbandonando.
Il semplice fatto che gli immigrati fossero venuti in Europa, però, non significava che essi avessero accettato, compreso o anche soltanto notato il progetto europeo di lasciarsi alle spalle «la storia scritta in lettere di sangue». Al contrario, molti di loro – e molti dei loro figli e dei loro nipoti – si ritenevano in dovere di gridare dai tetti la loro aspirazione alla creazione di uno Stato palestinese, di una patria kurda o di un’Algeria islamica. Essi coltivavano dei sogni di gloria culturale, nazionale e persino razziale che sfuggivano alla comprensione degli europei.
Nel nome dell’universalismo liberale, molte delle leggi e dei costumi che avevano tenuto assieme le società europee sono stati gettati dalla finestra. La tolleranza è diventata una priorità superiore ad ogni altra tradizionale preoccupazione dello Stato e della società (ordine, libertà, correttezza e chiarezza), ed è stata perseguita a loro spese.
Per descrivere le contorsioni logiche richieste dall’universalismo europeo, è stata ripresa dai dibattiti americani l’espressione “correttezza politica”, che non è mai piaciuta troppo a nessuno. Essa, forse, è un modo eccessivamente duro di descrivere quella sorta di bugie pietose e di futili travisamenti che un tempo venivano chiamati “parlare a vanvera”.
In ogni caso, la correttezza politica è spesso ridicola. La società olandese “Onore e riparazione” ha condotto una campagna contro Zwarte Piet, l’aiutante nero di Santa Claus che, secondo una tradizione folcloristica pluricentenaria, mette i bambini cattivi in un sacco e li porta in Spagna. In Inghilterra, la cittadina di Dudley ha messo al bando dagli uffici municipali determinati giocattoli e immagini dopo che una dipendente musulmana si era lamentata perché vicino alla sua scrivania c’era un quadretto del maialino “Pimpi”, (sic, nella versione italiana), uno dei personaggi di Winnie the Pooh. Storie come questa sono dei pezzi forti per i media: alcune sono autentiche, altre più o meno inventate.
Tuttavia, anche nei casi in cui la correttezza politica ha mostrato la tendenza a scadere in eccessi autoritari, i suoi presuntuosi paladini erano più simili ai personaggi di Gilbert e Sullivan, che non ai seguaci di Stalin.
Ciononostante, al volgere del secolo l’immigrazione era ormai diventata un ambito dove anche un moderato dissenso contro lo status quo poteva suscitare aspre condanne. La gamma di opinioni che si potevano esprimere sull’immigrazione e sull’etnicità era senza dubbio drasticamente ristretta. Ma questo restringimento era qualcosa a cui gli europei avevano assentito con convinzione, o qualcosa a cui si erano sottomessi? Erano stati persuasi, oppure costretti? Stavano diventando più beneducati, oppure meno liberi? Si tratta di alternative tra cui è sempre difficile tracciare una linea di demarcazione netta.

Italia quarta sponda

Per ora sono solamente o rifugiati, o clandestini, o morti in mezzo al mare, come nel caso dei due barconi partiti da Sid Belal Janzur, carichi in gran parte di nigeriani (e nigeriane destinate al mercato italiano della prostituzione), spezzati dal mare grosso e colati a picco a trenta chilometri dalle coste libiche, senza che nessuno muovesse in soccorso. Seicento vite perdute, tante quante in una battaglia campale.
Poi verrà la notte tra il 5 e il 6 maggio 2009, quella con la prima operazione di pattugliamento italo-libico che riconduce a Tripoli 228 migranti in viaggio verso Lampedusa. È il frutto dell’accordo firmato con la “Quarta sponda” al tempo in cui presidente del Consiglio era Romano Prodi, ministro degli Esteri Massimo D’Alema, ministro dell’Interno Giuliano Amato, col trattato definitivo con Muhammar Gheddafi ratificato da Camera e Senato con i voti favorevoli di Pdl, Lega e Pd.
La parola ai numeri, che sono eloquenti. Amato stimava che in soli tre anni, dal 2005 al 2007, fossero partiti dalle coste libiche in 60 mila. Solo a Lampedusa, in quegli anni, ne sono arrivati 45 mila. Altri 30 mila nel 2008. Il quadro nazionale? Anno 2007, governo Prodi in carica: 20.455 sbarcati clandestinamente; stranieri rintracciati: 74.762; rimpatriati effettivi: 26.779; non rimpatriati: quasi il doppio, 46.983. Anno 2008, governo Berlusconi in carica: sbarcati, 36.951; stranieri rintracciati: 70.625; rimpatriati: 24. 234; non rimpatriati: quasi il doppio, 46.391. Primi cinque mesi 2009: sbarcati, 6.388; rintracciati: 20.503; rimpatriati: 6.727; non rimpatriati: quasi il doppio, 13.776.
Quanto costa la gestione di tutto questo? Fra centri di identificazione, accertamenti di identità, pratiche burocratiche e rimpatri, il Viminale stima una spesa tra 110 e 120 milioni l’anno, in crescita costante. L’Europa partecipa con una ventina di milioni per le operazioni di soccorso in mare. Malta riceve poco meno, ma ai barconi che rischiano il naufragio (e non solo a questi) nega persino l’entrata in porto.

Del resto, la fortezza Europa è sotto assedio, e qualche avamposto si è blindato da tempo, come in Spagna, Paese che ha respinto fino alla fine del 2008 ben 645 mila migranti. Le due enclave spagnole in terra marocchina, Ceuta e Melilla, oggi sono difese da barriere alte da quattro a sei metri, e le coste al di là di Gibilterra sono monitorate con un complesso sistema radar. Nel 2007 il socialista Zapatero ha firmato con Rabat un accordo che prevede il rimpatrio forzato dei minorenni non accompagnati e il loro smistamento in centri di detenzione amministrativa a Tangeri, a Nador e a Marrakech. Nello stesso anno, la Francia, molto distante dai centri d’imbarco, ne ha respinti 26.593, la Germania 11.697, la Polonia 32.188, l’Ungheria 11.198, la Slovenia 11.497, la Romania 9.753. Malta, abbiamo detto, si è chiamata fuori, e forse è bene che sia stato così: l’arcipelago dispone di un territorio limitato, gli immigrati vengono rinchiusi come carcerati, anche per un anno e mezzo, in centri di accoglienza con dormitori che hanno i reflui delle latrine, con una sola doccia ogni cento e più persone, le quali fra l’altro hanno scarsa assistenza e sono a rischio di malattie. Questo è l’inferno dei disperati, mentre Cipro, che non si è ancora chiamata fuori, è sommersa dai clandestini.
I principali Paesi di provenienza dei clandestini che vogliono sbarcare sulle coste italiane sono la Somalia (19,3 per cento di migranti), la Nigeria (17,62 per cento), l’Eritrea (11,76 per cento), la Tunisia (9,05 per cento), il Ghana (7,13 per cento), l’Algeria (6,73 per cento), l’Egitto (5,68 per cento), il Marocco (4,46 per cento), la Costa d’Avorio (2,21 per cento), l’India (1,76 per cento). Prima della firma degli accordi con Tripoli, l’Italia aveva messo in moto le diplomazie, per aggiornare alcuni dei 30 patti già sottoscritti, 15 con nuovi e vecchi Stati dell’Unione europea, 7 con altri Paesi europei, 8 con Paesi extraeuropei (Algeria, Egitto, Filippine, Georgia, Marocco, Nigeria, Tunisia e Sri Lanka), in buona parte risalenti all’epoca pre-Schengen.
Italiani mala gente? Tutt’altro. Il nostro è il Paese col più alto accoglimento di domande di asilo e protezione, 31 mila richieste nel 2008: ne abbiamo accolto il 40 per cento. Roma ha dunque fatto la sua parte, e sarà anche per questo che tutti sognano di toccare terra nel Belpaese. Ora spetta all’Unione europea fare la sua.

Sul banco degli accusati c’è la scuola pubblica dei Paesi africani, più che degli asiatici; una scuola che, con programmi assurdamente eurocentrici, istiga a salire su una piroga e a sfidare l’oceano per inseguire un sogno. E poi: la diaspora africana che vive, nelle città italiane e dell’Europa occidentale, nelle ristrettezze, molto spesso nella più desolante miseria, non può farlo sapere ai Paesi d’origine, alla gente del proprio villaggio, perché sarebbe un’onta. E ciò alimenta il mito di un paradiso che non c’è. Dito puntato anche sulle famiglie di provenienza, per i soldi che ricevono e che non investono, ma utilizzano per le loro esistenze a breve termine, moderna forma di assistenzialismo. Anche loro raccontano e si raccontano delle falsità, perché tutto questo continui. Omar Ba, ventottenne sociologo da cinque anni a Parigi, attacca tutta la costruzione di “menzogne” (così le definisce) che stanno dietro all’immigrazione clandestina: «Non dico che si possa fermare del tutto, ma almeno parliamo con sincerità delle sue cause. Coscienti che la maggior parte delle persone che riescono a vivere in Europa alla fine dicono: sarebbe stato meglio restare a casa».

Omar Ba, senegalese, chiarisce tutto in un libro, dal titolo Je suis venu, j’ai vu, je n’y crois plus: un testo scomodo, tutt’altro che politicamente corretto. Se a scriverlo fosse stato un uomo bianco, sarebbe stato accusato di razzismo. Se l’autore fosse stato figlio di ricchi africani, studente come tanti altri, non sarebbe stato credibile. Invece, secondo di nove figli, una famiglia povera alle spalle (ma a scuola studente modello), ha affrontato il mare per guadagnarsi la sua Europa. «Ho vissuto l’orrore. Per questo posso permettermi di scrivere di immigrazione clandestina senza tabù». Per lui va fermata, o almeno limitata fortemente. In alcuni casi giustifica persino i rimpatri forzati, che molti clandestini, senza volerlo ammettere, desiderano, per tornare a casa: ma non in Libia, perché i respinti non sono cittadini libici, dunque non ritornano in patria, sicché ci riproveranno.

La piroga, appunto. La vicenda l’ha raccontata nel suo primo, controverso libro, Soif d’Europe. Si imbarcò verso le Canarie nel 2000, ma naufragò sulle coste del Marocco. Percorse l’intero Maghreb, fino alla Libia. Raggiunse Lampedusa, «ma ci sono rimasto solo 48 ore: fui rispedito in Marocco». Da lì, di nuovo un viaggio della speranza, sempre in direzione delle Canarie. Era il luglio 2001. Una cinquantina di persone a bordo. Tre giorni dopo non avevano più nulla da mangiare né da bere. La piroga faceva acqua: qualcuno buttava i malati in mare, come sacchi di patate. Ci fu chi si suicidò bevendo quel che restava del gasolio nel serbatoio. E a bordo sempre più cadaveri.
Si salvò lui soltanto, grazie al suo fisico. Fu tratto in salvo da una nave spagnola. Dalle Canarie lo mandarono a Barcellona. Dopo varie peripezie, giunse in Francia. Tre mesi di clandestinità, poi espulsione: a Dakar. Lì progetterà uno stratagemma positivo: un visto ottenuto nel 2003 per studiare in Francia, dove si laurea. Vive in un buco in periferia, proseguendo il dottorato di ricerca. Ha scritto: «L’Africa oggi è un laboratorio gigantesco dove ogni sforzo è concentrato sulla creazione di un individuo-tipo: il candidato potenziale all’immigrazione. Chi va alla scuola pubblica è oggetto di una tacita manipolazione mentale che mostra il mondo in una maniera manichea. Da una parte, il paradiso: altrove. Dall’altra, l’inferno: qui».
Omar Ba ricorda che come studente ha dovuto apprendere la storia dell’Europa, la Grecia antica, l’Impero romano, perfino il sistema elettorale dell’Europarlamento, mentre le conoscenze sull’Africa si riducevano a qualche foglio fotocopiato, distrattamente distribuito alla fine dell’anno. È anche così che si crea un mito. E con Internet «l’Europa diventa vicina». Ma è un’Europa virtuale, dove tutto sembra facile. Solo che non è la realtà.
Due anni fa è ritornato sulla spiaggia dalla quale era partito la prima volta. C’erano ancora tanti ragazzi che per quattromila euro salivano sulle piroghe. Onde troppo grandi, il sole a picco, il vento del Sud. «Mi sono chiesto: ma come ho potuto farlo? Ho avuto più paura di quando sono partito. Perché il problema è che, in quei momenti, pensi solo a chi ce l’ha fatta. Parlare di morte è un tabù».
Dopo, la sete e la fame. I malati e i più deboli abbandonati in mare. I morti a prua. I miraggi. Perché?

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Cronache di disperati italiani

 

Una famiglia di emigranti giunge al porto di Liverpool.

Una famiglia di emigranti giunge al porto di Liverpool.

«Dunque vorrei sapere come mai per il servizio militare il nostro governo si ricorda poi per farci stare bene all’Italia non si ricorda». Il pensiero sarà pure sgrammaticato, ma vi riecheggiano comunque le pagine verghiane deiMalavoglia”. Ad esprimerlo è Michele, da Braunschweig, negli anni Sessanta. Uno dei milioni di italiani che scelsero l’emigrazione in Germania per strappare qualcosa alla vita.
In quegli anni per molti di loro il conforto maggiore giunse dall’etere. Radio Colonia era la trasmissione in lingua italiana ascoltabile dalle frequenze della Westdeutscher Rundfunk (radio tedesco-occidentale). A volerla fu la politica, soprattutto il governo italiano, per contrastare quella Radio Praga che dall’Est trasmetteva anche nella lingua di Dante la più bieca propaganda stalinista, anti-italiana e anti-occidentale, (indimenticato radiocronista, Sandro Curzi, poi rientrato in Italia e destinato a una brillante e “democratica” carriera in Rai).
Tra le rubriche, riscosse particolare successo “L’esperto risponde”, condotta da Giacomo Maturi. Delle cinquantamila lettere pervenute in redazione, duecento sono state raccolte in un’antologia dai toni commoventi. Perché, se la stragrande maggioranza delle missive è scritta in un italiano sgrammaticato, i loro mittenti sono da considerarsi intraprendenti due volte: nell’aver deciso di emigrare, e nell’aver superato l’ostacolo della scrittura. Per chi ignora il tedesco e dell’italiano conosce solo il dialetto, la difficoltà di spedire una lettera inizia già dall’indirizzo. E così la “Funkhaus” (Casa della Radio) si trasforma in “Funcaos”, in “Funkakusi” e persino in “Funghi ausi”.
Un muratore lamenta la solitudine, «dato che in questo piccolo paesello dove abito, altri Italiani non ve ne sono». Per gli operai, invece, il problema è quello opposto: «barrache fatte ditavole», dove vengono stipati prima che le ditte tedesche si decidano a garantire loro pareti in muratura. E se qualcuno tenta la ricerca di un appartamento: «Questi signori Vichinchi, non appena sentono che ci sono figli, gli sbattono la porta in faccia, come se uno fosse un cane. Oppure uno Zingaro».
Ma insieme al risentimento contro il Paese ospitante non di rado vi è la consapevolezza dei propri difetti: «Sul lavoro i tedeschi ci ammirano e ci stimano, da una parte, e dall’altra hanno pienamente ragione perché noi dico noi italiani siamo molto scorretti maleducati ed anche un po’ prepotenti». Tra i “Gastarbeiter” (ospiti lavoratori) il politically correct non è la preoccupazione maggiore, come nel caso di chi chiede alla radio «un buon consiglio» perché la vicina è una «Tedesca signora che dorme con un Turco cioè un mantenuto».

Radio Colonia presto si emancipa dalle finalità politiche, fornendo un aiuto concreto per i mille problemi che la quotidianità tedesca pone ai lavoratori italiani e alle loro mogli, talvolta lasciate per correre dietro a una straniera.
Leggi incomprensibili, burocrazia ostile (tedesca e italiana), malattie e tragedie familiari: Radio Colonia ha un orecchio per tutto. L’antica patria talvolta è idealizzata, spesso avvertita lontana e disinteressata. I parlamentari italiani in visita all’estero? «Noi qui in questa zona non abbiamo mai visto nessuno, neanche un cantante!», scrive Remo dalla Svevia. Non mancano neanche i grandi temi, come le discussioni sul lavoro o gli auspici di pace universale. In molti si accontenterebbero anche solo di essere trattati un po’ meglio, perché gli stranieri sono spesso «vittime dell’infelicità e costretti al bisogno». Valeva allora per gli italiani in Germania, vale oggi per i disperati che mettono piede, anche avventurosamente, sul nostro suolo.

uno dei tanti monumenti agli emigranti minatori eretti in quasi tutta Europa.

uno dei tanti monumenti agli emigranti minatori eretti in quasi tutta Europa.

Schiavi, anzi maiali

Kostheim, li 18/05/1968
... Sono da 8 mesi qui in Germania e seguo con attenzione il vostro notiziario... Lavoro presso una segheria e dormiamo nella stessa fabbrica. ci fanno pagare DM 40 a persona. abitiamo in una baracca. ci dobbiamo fare la polizia da soli. dormiamo 4 persone per una stanza di circa Metri quadrati 9 e ci campianno le lenzuole ogni 20 oppure ogni mese come stanno comodi... sul lavoro siamo trattati come dei schiavi... Vorremmo che queste Autorità italiane si facessino vedere così si convincono da sole... distinti saluti.
    Santo M.

Frankfurt A.M. 1967
Gentilissimo Signor Dottore Giacomo Maturi,
.... Enoi cia biamo le abitazione della fabrica stesso a partengono alla ditta e queste abitazioni che in cui abiamo. Sono barrache fatte ditavole e da quanto che ci abito io mia moglie e due bambini non sono mai state fatte apulitura cioè non sono mai state fatte con una passata di pittura cioè pitate dove specie che queste sono di tavole e nel stesso tempo ci hanno bisogno e si cista male io bonariamente gli sono chiesto un po di pittura alla persona che sinteressa ed e responzabile di queste abitazzioni e lui mia detto di no...
Giuseppe D.

Frankfurt A. 6-8-1968
Gendili Signori Italiani,
sono uno connazionale Italiano che vi scrivo queste poche parole per farvi sapere che in Francoforte sulmeno ci sta un compatriota tedesco che ci fa dormire in sei persone per ogni stanza e ci campia le lenzuole ogni quanda giorni e paghiamo bene cendo marchi Al mese ognuno ogni persone siamo senza frigorifero stiamo peggio dei maiali e bello questo?...

(dalle lettere a Radio Colonia)


Una tragica pagina di cronaca, per concludere. Il massacro di Aigues-Mortes del 17 agosto 1893 costò la vita a nove operai italiani linciati dalla folla inferocita; ci furono anche quattordici dispersi, quasi sicuramente ammazzati. Il fatto, nato da un banale incidente, accadde nella città francese delle memorie medioevali di San Luigi, diventata nei secoli la terra di produzione dell’oro bianco: il sale. Il lavoro nelle saline era durissimo; nell’Ottocento vi erano impiegati soprattutto operai emigrati dall’Italia, in particolare dal Piemonte, che subivano il razzismo di quelli d’Oltralpe.
I francesi del “Midi” avrebbero voluto cacciar via i piemontesi, chiamati con disprezzo “pimos” oppure “christos”, per la facile abitudine alla bestemmia. Anche una volta naturalizzati, gli immigrati italiani potevano ironicamente essere qualificati come “Français de Coni” (francesi di Cuneo). Ad Aigues-Mortes venne utilizzato il termine “ours” (orso) per designare l’italiano, un termine che oltre al razzismo esprimeva anche le paure che la bestia evoca nell’immaginario collettivo.
L’immigrazione straniera, per l’operaio francese, era una delle cause della crisi economica che viveva la Terza Repubblica: era ben radicato nella mentalità popolare il cliché dell’italiano briseur de salaires. Sono gli anni della Belle Epoque, che nascondono sotto una festosa immagine di eleganza i panni sudici, fin de siècle, zeppi di miserie e di turpi contraddizioni. I francesi pensavano alla “Revanche”: dopo la disfatta di Sedan c’è l’odio per il Reich tedesco, alleato dell’Italia nella Triplice Alleanza. Sono gli anni dell’espansionismo coloniale, con quel tanto di ideologia razzista che essa sottende. Gli italiani sono identificati come un popolo abituato a cantare e a mendicare; compare lo stereotipo dell’accoltellatore, riservato ai nostri connazionali almeno fino al 1940, data dell’invasione fascista, non a caso definita “coup de poignard”.
Questo campionario di pregiudizi razzisti, oltre a mettere in evidenza una certa immagine dell’Italia, la dice lunga sulla percezione di sé e degli altri da parte dei francesi. La Troisième Republique metterà in mostra tutto il suo potenziale razzista in occasione dell’Affaire Dreyfus, che esploderà l’anno successivo ad Aigues-Mortes, con un antisemitismo violento che supererà l’odio per gli italiani.

 

 

   
   
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