Settembre 2009

Rileggendo la storia

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Il sogno fallito
del Sud

Cristina Baltieri
Orlando Ranucci
Ornella Sabatini

 

 
 

Ci sarà pure una ragione per
vergognarsi della mancata
pacifica rivoluzione al di qua di Eboli.

O no?

 

 
Rosa Pugliese © alla Notte della Taranta di Melpignano (Lecce).

Rosa Pugliese © alla Notte della Taranta di Melpignano (Lecce).

Prendiamo le celebri Cinque Giornate di Milano. Secondo le più recenti interpretazioni storiche, esse non rappresentarono soltanto l’insurrezione dei milanesi in quella che fu la più importante rivolta urbana di tutto il Risorgimento, destinata a dare il via alla Prima guerra d’Indipendenza; furono molto di più: costituirono un momento nodale per definire in anticipo cosa il Risorgimento sarebbe stato, per decidere sotto quali equilibri politici si sarebbe svolto, a quali rapporti di forza avrebbe obbedito. In altre parole: che cosa sarebbe stata l’Italia unita, e che ruolo avrebbe avuto Milano nel nuovo Paese.
Esito e conseguenze della rivolta ci aiutano a comprendere una frase scritta da Carlo Cattaneo come bilancio finale di quell’esperienza che aveva visto la provvisoria incorporazione delle province lombarde nel Regno di Sardegna: «L’esercito e il paese non furono più nostri; le sostanze nostre, la vita e l’onore furono in arbitrio altrui». Parole pesanti come macigni, che esprimono l’intuizione che a Milano nelle giornate della rivolta si fosse giocata quella che potremmo chiamare una partita per l’egemonia, per l’egemonia su un’intera fase storica, e che questa partita era stata vinta da “altri”. Esattamente com’era accaduto a Napoli nel ‘99, nel Sud con le insorgenze post-unitarie, ancora a Napoli con le Quattro Giornate, e nella battaglia di Montecassino, decisiva per le sorti dell’Italia contemporanea.
Anche nel Mezzogiorno, come nel capoluogo lombardo, ai furori del popolo corrispose la miopia delle classi dirigenti, la cui pochezza non riuscì mai a prendere il segno di una rivolta egemonica, di indipendenza territoriale, o almeno di forza contrattuale nei confronti del predominio piemontese-toscano. Di qui, storicamente, il rapporto conflittuale con la statualità italiana e, dopo le “pacificazioni” attuate sia con le repressioni sia con il coinvolgimento negli impieghi pubblici di vasti strati di elementi moderati, l’emergere della dimensione politica subalterna e del ruolo secondario che il Sud ha avuto, e continua ad avere, nella gestione “alta” del Paese. Non solo e non tanto rispetto ai governi e agli equilibri politici nazionali, quanto soprattutto rispetto allo spirito che pervade le istituzioni pubbliche dell’Italia, al tipo di personale che le gestisce, alle regole e alle prassi di queste.
Il ‘99, il ‘48, il ‘43 dei tre secoli trascorsi ci ricordano che nella costruzione della nazione il più grande Stato italiano, quello delle Due Sicilie, non ha avuto una parte corrispondente al suo rilievo. Perciò continua a rivendicare una vocazione alla protesta. Ma non fa ancora un severo esame di coscienza.

Servirebbe a qualcosa, oggi, una rivoluzione violenta, dopo che il mattatoio della Storia ha imbrattato con il sangue di tante e tante vittime anche le mani di coloro i quali si ritengono, o si fanno passare per i più puri? È stato scritto che la ghigliottina è uno dei simboli per eccellenza della violenza della Storia, come se il Terrore rivoluzionario e la sua ideologia fossero il suo unico volto, o il volto più vistoso.
Nel revisionismo storico che caratterizza da tempo il dibattito politico-culturale, la Rivoluzione francese, fino a ieri considerata matrice della modernità e delle sue libertà, è sempre più bollata quale madre dei totalitarismi e di tutto ciò che vi è stato e vi è di illiberale negli ultimi due secoli.
Pochi appellativi appaiono screditati come quello di “giacobino”, esteso fino a diventare quasi sinonimo di rivoluzionario in generale; le violenze perpetrate dalle rivoluzioni cancellano o fanno sbiadire quelle contro cui esse sono insorte. I pellegrinaggi in Vandea, a cominciare da quello di Solzenicyn alcuni anni fa, non sono soltanto l’espressione di un più equilibrato giudizio, che – come ha sostenuto Claudio Magris – «rettifica la rigidezza settaria di tanta storiografia progressista, né una doverosa pietas nei confronti dei vinti di allora, dimenticati o denigrati dalla memoria dei vincitori, ma sono un gesto simbolico che vuole negare tutto ciò che nasce dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, l’idea di democrazia e di progresso, l’utopia di riscatto sociale e civile», che invece si ritengono frutto della Rivoluzione americana, cui non seguì alcun Terrore.
La violenza rivoluzionaria si illude di metter fine al male della Storia, di essere l’ultima violenza, dopo la quale un orizzonte di pace perenne renderà felice la terra. A screditare l’idea di rivoluzione è stato il fallimento di questa utopia messianica e rigeneratrice, la consapevolezza che né il mondo né un solo Paese possono essere redenti una volta per tutte: «Ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandola». Fra l’altro, la violenza è una ciliegia che tira le altre: inizia a tagliare teste per amore dell’umanità, e finisce per trovarci gusto.
La fine del mito della Rivoluzione e del Grande Progetto di cambiare il mondo potrebbe venir vissuta come l’ingresso dell’umanità nella maturità spirituale, in quella maggiore età della ragione che Kant scorgeva proprio nell’Illuminismo. L’assoluto non è realizzabile sulla terra, nel Tempo e nella Storia; riconoscerlo non comporta necessariamente smarrimento né dileggio di quei sogni di redimere il mondo. Questi ultimi non sono fantasie adolescenziali né astrazioni ideologiche, come ritengono i disincantati realisti che non capiscono la realtà, perché ne vedono solo una superficiale facciata, e non le forze che operano in profondità. Quei sogni sono insopprimibili esigenze dell’animo umano, che non possono mai realizzarsi pienamente, ma non vengono mai messe a tacere.

La misura della Vita e della Storia è un terreno che diviene fecondo se si trapiantano in esso, come semi in un campo, quei fermenti di assoluto e di riscatto, quell’esigenza di migliorare il mondo che l’idea di rivoluzione ricorda continuamente alle coscienze. In questo senso, le utopie rivoluzionarie e le fiammeggianti rivolte che determinano sono un lievito che da solo non basta a fare il pane, contrariamente a quanto hanno creduto molti ideologi, ma senza il quale non si fa un buon pane.
La critica al giacobinismo d’ogni tipo è legittima, se animata da quelle esigenze di umanità e di giustizia da cui esso nasce, e che esso così spesso ha tradito (e tradisce), negando se stesso. Dunque, è giusto rendere omaggio alle violenze patite dai vandeani, dai sanfedisti e dai lazzaroni, a patto che non si considerino con indulgenza quelle che essi hanno inflitto. È giusto rispettare i loro sentimenti e il loro coraggio. Ma, come ha scritto Giuseppe Galasso, rimane un’incolmabile differenza di fondo tra i rivoluzionari della Repubblica Partenopea del ‘99 e i lazzaroni, tra il sergente Radoub del battaglione repubblicano e il marchese di Lantenac che guida la rivolta vandeana nel Novantatré di Victor Hugo: gli uni si battono per una libertà rivolta, nel loro sentire, a tutti gli uomini, considerati pari nella dignità e nei diritti; gli altri si battono per difendere o ricostruire barriere fra gli uomini, discriminazioni, disuguaglianze e forme subdole di schiavitù introdotte con leggi – appunto – caine.

Un momento
dell’Urnia, la processione dei Misteri della Settimana Santa gallipolina. - Angelo Mangione

Un momento dell’Urnia, la processione dei Misteri della Settimana Santa gallipolina. - Angelo Mangione

Forse tutte le rivoluzioni, anche quelle giunte ai trionfo, sono un «esperimento non riuscito», come scriveva Croce a proposito di quella partenopea, effimera, magnanima e gloriosa nel fervore dei suoi pochi e difficilissimi mesi. Ma Croce ha sottolineato anche la «grandissima efficacia» nella Storia dell’esperimento non riuscito. Il sentimento e la convinzione di questa efficacia possono aiutare a vincere lo scoramento disilluso di tanti che hanno dedicato la vita a quei progetti di riformare il mondo e oggi ritengono di trovarsi al cospetto di un cumulo di macerie. In realtà, se un esperimento è efficace, vuol dire che esso non è fallito, o non è fallito del tutto. Certo, tutto crolla, prima o poi, perché la morte vince ogni cosa: se ha fatto cadere l’Impero romano, non può stupire che abbia fatto ingiallire le pagine del Capitale di Marx, e certamente consegnerà ai tarli anche le pagine dei neo-monetaristi, come ha consegnato all’oblio, o all’abbandono dell’impegno intellettuale e politico, gli splendidi capitoli scritti dai meridionalisti. C’è solo da augurarsi che, a parte i malinconici Trionfi del Tempo, i Grandi Progetti di mutare il mondo, (il nostro mondo, l’Universo Sud), sebbene abbiano lasciato un’eredità di errori e di malaffari da ripudiare, abbiano anche proiettato conquiste da conservare e ideali e valori che, come un fertile humus, continuino a fecondare – anche carsicamente – la Storia.
L’eclissi delle violenze e delle spinte autoritarie, fortunatamente, non ha trascinato con sé, nel proprio fallimento, le istanze di libertà, di riforme, di giustizia sociale, perché in fondo continua a prevalere lo spirito di resistenza ai Leviatani palesi o mascherati che imperversano ancora, cioè sempre, nelle aree opulente del Paese. Le catastrofi degli ultimi sessant’anni hanno messo a dura prova ogni ottimismo e molte utopie di redenzione sociale; la nuova mediocrità ha due volti, ormai standardizzati in massa: quello del cinico pessimista, compiaciuto della propria pretesa estraneità aristocratica alla volgarità della Storia, e quello degli esaltatori della tribù valliva e pedemontana, dell’ottusa cultura locale, yuppies tronfi e giulivi esondati in pianura, che credono soltanto alla pacchia del proprio benessere. La minaccia illiberale ha assunto forme di condizionante dominio, di un livellamento gelatinoso e apparentemente indolore, che risucchia, esautora e asservisce l’individuo. L’Italia di oggi non ha bisogno di giacobini né di lazzaroni, ma ancor meno di partigiani filistei del localismo. E questo dovrebbe esser sufficiente a ridar voce a chi ha la tentazione di starsene zitto, in disparte.

Il cardinal Biffi, (riluttante a seguire l’esempio di Giovanni Paolo II, il quale – col brusco coraggio che lo distingueva – aveva chiesto agli uomini perdono per le colpe della Chiesa), aveva sostenuto che a chiederlo – quel perdono – dovrebbero essere piuttosto gli altri, soprattutto coloro i quali avevano perseguitato i Cristiani in nome dell’idolatria della violenza, che si arrogava il diritto di presentarsi come catarsi assoluta, con la blasfema protervia che ripudia il passato in nome dell’eterno divenire, scambiando un ordine sociale per la volontà di Dio. Esempio emblematico, questo, di tutti coloro che reclamano l’altrui mea culpa perché siano perdonati dal mondo.

Damiano Malorzo

Damiano Malorzo

Scendendo per li rami: l’autocritica è uno degli esercizi meno praticati dalle classi dirigenti italiane. Figuriamoci da quelle meridionali. In modo particolare nel girone della politica. Le colpe? Ovviamente, degli altri. Dello Stato, del governo, dell’anti-Stato e dei cartelli del crimine. Mai uno che si assuma responsabilità in proprio, che si guardi dentro prima di giudicar fuori, che si chieda come e perché sia scomparso dall’orizzonte il dibattito sul Mezzogiorno, come e perché il Sud sia finito fuori gioco, derubricato nello spazio d’un mattino dall’elenco delle questioni nazionali e considerato ormai un problema endemico. Irrisolvibile. Come e perché il baricentro dei rapporti di forza, e degli interessi che rappresentano, si sia spostato a favore delle terre del Nord, con una presa d’atto che si avverte anche al di là dei confini nazionali. Non per niente è stato osservato che la pressione della malavita organizzata è diventata capillare e sembra incontenibile, e solo i delitti e le vergogne di Gomorra sono in grado di riaccendere l’attenzione di un’opinione pubblica ormai assuefatta all’equazione Mezzogiorno uguale criminalità. Le isole di un’economia virtuosa, aperta al mercato, forte di eccellenti competenze, come le nicchie di pensieri forti (per i quali il Sud era una miniera), sono diventate talmente laterali che non riescono, neanche nell’attimo di una notizia, a rappresentare l’altra faccia della luna.

Pane al pane. In questo lento, continuo, inarrestabile scivolamento verso il basso, senza alcun appiglio cui aggrapparsi, le classi dirigenti meridionali hanno dato un contributo essenziale di irresponsabilità. Per esempio, a proposito della spesa pubblica, declinando critiche, spesso pretestuose e astratte, ai nuovi modelli fiscali, senza tuttavia essere in grado di spendere con efficacia e con trasparenza i fondi di cui dispongono le amministrazioni locali. Il primo spreco di un dirigente politico, che ha delle responsabilità negli apparati di governo, è proprio quello di non decidere secondo una scala di priorità, con una strategia e con una valida ambizione di cambiamento. Al Sud i soldi pubblici, a partire dai preziosi contributi che arrivano dall’Europa, restano la fonte del principale rubinetto con il quale si continua ad alimentare un circuito perverso di assistenza, di clientelismo e di consenso. Soldi per blindare un ceto sociale, non per creare sviluppo e opportunità.
Un’autentica autocritica dovrebbe partire proprio da qui, dalla chiara consapevolezza che un ceto politico sfarinato, e spesso incompetente, continua a coltivare una funzione di pura mediazione con la società. Senza una spinta vitale sul territorio, senza un nuovo orgoglio, che può nascere soltanto dal basso, senza uno sforzo che metta in campo analisi culturali e valori etici, le classi dirigenti della politica meridionale saranno trascinate sempre più ai margini. Diventeranno sempre più irrilevanti, al di fuori dei confini regionali dove il potere è esercitato ancora con le tecniche di un vicereame. E lasceranno sul tavolo delle scommesse perdute il conto più pesante: la rinuncia a un futuro non compromesso dai propri errori e dalla propria irresponsabilità.
Ci sarà pure una ragione per cui le aree depresse dell’Irlanda, ma anche della Grecia, della Spagna e del Portogallo, e persino della Polonia, hanno realizzato in pochi anni uno sviluppo sconosciuto nel nostro Sud dopo decenni di interventi straordinari, ed europei. Ci sarà pure una ragione per la quale le voci creative della “questione” si sono infiochite e poi spente. Ci sarà pure una ragione per vergognarsi della mancata pacifica rivoluzione al di qua di Eboli. O no?

 

   
   
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