Settembre 2009

I rischi del nostro patrimonio archeologico

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Chi protegge i tombaroli

Tonino Caputo
Cesare Carabellese
Ferruccio Dimitri

 

Coll.: Ercole Di Maio
Franco Maggi
Olindo Rea

 
 

Clandestino.
Il dio Mitra
per mesi è rimasto in una masseria alle porte di
Roma, nascosto dietro alcune balle di fieno, in attesa di
esser venduto per 500 mila euro a un
collezionista giapponese.

 

 

 

 

Secondo Salvatore Settis, uno spettro si aggira da anni per ministeri, aule parlamentari, studi legali, musei e corridoi dei passi perduti: si tratta del cosiddetto “archeocondono”, che «appartiene alla famiglia un po’ losca dei condoni edilizi e fiscali, delle sanatorie paesaggistiche e ambientali, insomma dell’italico vizio di legiferare per poi incoraggiare chi viola le leggi».
Che cosa vuol dire? Vuol dire che chiunque abbia in casa materiali archeologici di provenienza illecita, da una semplice anforetta a una vera e propria collezione di decine (o diverse centinaia) di vasi greci da scavi clandestini, ne denuncia l’esistenza, e viene ipso facto assolto da ogni reato commesso, compresi quelli penali. Anzi, può acquisirne la proprietà, pagando allo Stato un cinque o al massimo un dieci per cento del valore (da lui stesso stabilito); oppure, facendo ricorso a una versione più furbesca, può diventarne depositario in perpetuo, mentre la proprietà nominale rimane dello Stato.
Il principio giuridico (già nel Settecento valido a Roma e a Napoli) in nome del quale il patrimonio archeologico è un bene comune diventa, dopo secoli, «una sorta di optional per ingenui». Come giustificare le assoluzioni che coinvolgono tombaroli, trafficanti e collezionisti senza scrupoli? Semplice: non di condono si tratta, bensì di una benemerita «riemersione di materiali archeologici»: improvvisamente solleciti delle ragioni della scienza archeologica, parlamentari e legulei al seguito escogitano il modo per far “riemergere” un patrimonio nascosto, promuovendo gli studi e salvando l’onor proprio e quello della patria.

Manifesto per
il 40° anniversario del Comando. - Archivio BPP

Manifesto per il 40° anniversario del Comando. - Archivio BPP

Il primo tentativo in questa direzione si deve riconoscere a Veltroni, in un suo disegno di legge (AC 3216/1997) piuttosto timido e reticente, che restò nei cassetti, ma venne ripreso con ben altra estensione da alcuni deputati del centro-destra nel 2004, con una proposta di sanatoria per legge (n. 5119) che l’allora ministro dei Beni culturali – Giuliano Urbani – e il sottosegretario all’Economia – Vegas – (e sia annoverato tra i loro meriti) riuscirono a bloccare. Da quel momento, gli stessi deputati hanno provato tre o quattro volte a infilare all’ultimo minuto questa norma eversiva in una Finanziaria oppure in una qualche leggina apparentemente inoffensiva, nella speranza che nessuno scoprisse la marachella.
Finora, senza successo. Ma c’è da scommettere che ci riproveranno ancora. Nel nome, si capisce, dei cittadini esemplari i quali, come sostiene la Relazione presentata al Parlamento dall’on. Gianfranco Conte il 7 luglio 2004, «certosinamente raccolgono» all’estero preziose collezioni archeologiche, al solo nobilissimo scopo di riportarle in Italia; e fa, l’on. Conte, nome e cognome di uno di questi eroici personaggi: Edoardo Almagià.
Commento che sorge spontaneo: peccato che proprio questo cittadino esemplare sia uno dei protagonisti di un libro-inchiesta del giornalista e scrittore Fabio Isman, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in Italia, pubblicato di recente; peccato che lo stesso personaggio sia stato colto sul fatto dai carabinieri nel 1992, a Guidonia, e che abbia venduto reperti di provenienza italiana a New York, e che il Pubblico Ministero Ferri abbia dichiarato nell’aula del processo Getty che su di lui erano in corso importanti indagini.

Implacabile indagatore, come i giornalisti di razza che diventano sempre più rari, Isman ha seguito nella sua inchiesta questa e parecchie altre piste, pedinando gli imputati e i colpevoli tra le aule giudiziarie, nei musei, nei magazzini clandestini, dalle cantine e dai garages ai porti franchi di Ginevra e di Basilea. Così nelle sue pagine incontriamo involontari protagonisti delle cronache, dallo straordinario volto di avorio di Cesano alla triade capitolina di Guidonia, dal celeberrimo vaso di Eufronio trafugato a Cerveteri, approdato al Metropolitan newyorkese e infine restituito al nostro Paese, ai marmi dipinti imboscati ad Ascoli Satriano e riemersi ancora una volta al Getty. Vi incontriamo (aiutati da un quanto mai opportuno indice dei nomi) la dubbia aristocrazia dei trafficanti, fino a una sorta di “organigramma dei predatori” sequestrato dal nucleo dei carabinieri nel 1996! Ce n’è per tutti: dall’italiano Giacomo Medici all’inglese Robin Symes, all’americano Bob Hecht: nomi che dal sottobosco dei mercanti di antichità fanno la spola con le caserme dei carabinieri e dei finanzieri, e con i tribunali: e che comunque irresistibilmente tornano sul luogo del delitto, facendosi persino fotografare trionfanti – una galleria davvero incredibile – accanto agli oggetti depredati, nel museo straniero che li ha acquistati.
Ogni oggetto illecitamente scavato ha una storia particolare, sicché l’indagine di Isman è – come sostiene nella prefazione Giuseppe De Rita – una sorta di conferma di quanto già si sapeva: i nomi dei predatori sono sempre gli stessi, sempre gli stessi i musei stranieri indotti all’acquisto, e sempre gli stessi gli investigatori italiani (il Nucleo dei carabinieri per la tutela del patrimonio artistico è considerato il migliore al mondo).
In ultima analisi, una Grande Razzia di cui è rimasta vittima innanzitutto la scienza archeologica (un oggetto decontestualizzato “narra” molto meno, non riesce a raccontare compiutamente la propria storia); ma siamo stati defraudati anche tutti noi, privati di qualcosa che ci appartiene, di un diritto di proprietà e di fruizione, di un titolo di civiltà, che ci spettano.

È finito il Grande Furto Clandestino? Alcuni indizi sono incoraggianti, a partire dalle recenti restituzioni americane. La tenacia dei nostri magistrati e delle nostre forze di polizia si è finalmente incontrata con l’evolversi della coscienza professionale degli archeologi, soprattutto negli Stati Uniti. Due o tre decenni fa, curatori di mostre e direttori di musei potevano impunemente – e cinicamente – vantarsi di attingere al mercato clandestino: illuminante, in proposito, Il re dei confessori, di Thomas Hoving, già direttore del Metropolitan. Oggi, nessuno si permetterebbe di farlo più. Nei convegni dell’American Archaeological Association la priorità del contesto si è venuta affermando come un principio non soltanto scientifico, ma anche etico e deontologico.
Ma si domanda De Rita: siamo proprio sicuri che «la stagione nera di cui questo libro dà così bene conto» sia alle nostre spalle? Vorremmo crederlo. Ma che cosa succederà se il partito dell’archeocondono finirà per spuntarla, depenalizzando (come nella proposta Conte) ricettazione, riciclaggio e acquisto di “pezzi” illeciti o sospetti, e persino sospendendo i procedimenti penali in corso? Se quei “pezzi” così sdoganati potranno esser venduti in Italia e all’estero? Che cosa succederà se, come alcune voci irresponsabili vanno dicendo, i reperti “superflui” che giacciono negli scantinati dei nostri musei finiranno con l’esser prestati come arredi di salotti e tinelli, o esportati in qualche Emirato?
Ripetiamo: i musei stranieri hanno finalmente cominciato a restituire opere trafugate; e lo hanno fatto sulla base del principio, etico e culturale prima che giuridico, che i beni archeologici, in quanto testimonianza di civiltà inerente a contesti non segmentabili, sono di pertinenza pubblica. La civiltà giuridica e la cultura italiana, prima al mondo, ha affermato questo principio da secoli. Se, dopo aver convinto persino i più recalcitranti musei americani, dovessimo abbandonarlo, con quale faccia potremmo chiedere altre restituzioni? Dopo aver legittimato il saccheggio dell’archeologia in Italia, depenalizzando chi ne è colpevole, quale argomento avremmo per richiedere vasi e statue esportati illegalmente? Vogliamo essere cultori della tutela del nostro patrimonio artistico, o non vediamo l’ora di allearci con i predatori e i trafficanti?

Per la cronaca degli ultimi tempi. Nell’androne romano del Comando del Nucleo carabinieri che tutelano i nostri beni artistici, abbiamo scorso il catalogo del mercato archeologico illecito: affreschi bizantini, buccheri, vasi, bronzi, fibule, urne ceratane, ex voto ancora ricoperti di terra, conservati in cassette per la frutta. C’erano anche dei falsi, e persino alcuni utensili abitualmente utilizzati dai “tombaroli”.
Si tratta soltanto di alcuni dei reperti, del valore stimato di oltre tre milioni di euro, recuperati in Italia e all’estero, frutto di scavi clandestini, che sono in calo – sostengono gli investigatori specializzati – dal momento che sono stati 238 in tutto il 2008, e 7 nei primi mesi del 2009: un dato confortante; se il trend venisse confermato, alla fine dell’anno la diminuzione potrebbe essere molto significativa.
Tra le cause possibili di questa grande inversione di tendenza, oltre all’intensificazione dei controlli, la minore domanda del mercato dovuta all’effetto virtuoso della campagna di recupero lanciata in questi ultimi anni dall’Italia e agli accordi siglati con musei e governi stranieri.
L’operazione più eclatante, che ha portato al recupero di ben 250 reperti scavati in Etruria meridionale, in Campania, in Puglia e in Calabria, si è conclusa ai primi dello scorso mese di maggio. Fra gli oggetti, un vaso falisco di Capodimonte (lago di Bolsena), una coppa tipo Siana, una serie di statuette simili a quelle asportate nel 1996 da un deposito votivo del santuario di via Scrimbia, a Vibo Valentia. Questo successo ha indotto gli inquirenti a proseguire le indagini, che hanno portato alla scoperta di un altro furto: questa volta i tombaroli avevano scavato una galleria sotterranea completa di binari, con tanto di carrellino da minatori. Tutti questi oggetti sono stati restituiti da due antiquari svizzeri di origine libanese, già indagati nel 2000, all’epoca delle inchieste sul trafficante Giacomo Medici. Erano stati individuati nel corso di una perquisizione nei magazzini del porto franco ginevrino. Anche se il procedimento nei confronti dei due antiquari era caduto in prescrizione, hanno preferito fare un bel gesto, in linea con la nuova filosofia.
Risponde alla stessa logica il recupero della stupenda anfora attica a figure nere della collezione Casuccini, rubata dai depositi del museo Salinas di Palermo. L’opera era stata immessa sul mercato antiquario francese e acquistata da un collezionista elvetico, il quale, una volta scoperta la provenienza, non potendo più venderla, l’ha restituita al nostro Paese.

Ha avuto un respiro internazionale anche l’operazione “Grotta delle Formelle”, che ha portato al rientro dalla Grecia di due affreschi bizantini strappati nel 1982 dalla parete rocciosa della chiesa rupestre di Cales, uno dei siti più depredati d’Italia, dopo Cassino. Grazie alla documentazione fotografica dell’autorità giudiziaria di Atene, che indagava su trafficanti internazionali, è stato possibile riaverli.
Una particolare operazione, denominata “Iside”, collegata ad abusi edilizi nelle aree Tiburtina e Nomentana, ha portato al ritrovamento di un’epigrafe sepolcrale romana e di una testina egizia in granito grigio di età tolemaica (IV secolo avanti Cristo) proveniente dalla frazione Casali del territorio di Mentana, dove sono state trovate le rovine dell’antica Nomentum. Quest’ultimo reperto ha un valore enorme e attesta che quell’area dell’antica Roma era legata a culti egizi.
Altra vicenda, per fortuna conclusa positivamente. Per mesi è rimasto in una masseria alle porte di Roma, nel Parco di Veio, nascosto dietro alcune balle di fieno, in attesa di esser venduto per 500 mila euro a un collezionista giapponese. Scoperto da un contadino, sfregiato dal braccio meccanico di una gru, trasportato senza riguardi nel deposito clandestino da operai al soldo di un faccendiere svizzero, in contatto con i trafficanti internazionali di opere d’arte: un pezzo unico, senza precedenti, una tauroctonia risalente al II secolo dopo Cristo, all’epoca dell’imperatore Marc’Aurelio; un rilievo marmoreo da quindici quintali, raffigurante il dio Mitra, la divinità adorata dai soldati delle legioni romane, che uccide il toro. La cessione clandestina è stata bloccata all’ultimo momento, poco prima che prendesse le vie dell’Estremo Oriente, dalla Guardia di Finanza. Ora è al museo di Valle Giulia.
Nel corso della stessa operazione sono stati recuperati altri 51 reperti, tutti di epoca etrusca, che avrebbero fatto la stessa fine del dio Mitra, probabilmente ceduti a un Emirato Arabo.

   
   
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