Dicembre 2009

La “torcia numero Uno”

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Il Muro e le macerie

Aldo Bello

 
 
 

Il tuo Hus.
Passò sulla riva
sinistra, ricordano i suoi compagni. Andò verso
l’antico cimitero ebraico, sfiorò
la casa di Kafka, entrò in un
negozietto
e acquistò
una cartolina
panoramica.

 

 

 

Aveva poco più di vent’anni, lo studente di filosofia Jan Palach, quando il 16 gennaio 1969 si cosparse di benzina e si diede fuoco in piazza San Venceslao, centro nevralgico di Praga. Gentile, timido, introverso, con buone letture e riflessioni profonde, così volle protestare contro l’invasione sovietica che aveva stroncato le riforme e le speranze della “Primavera”, e contro la passività di una nazione che si era rassegnata alla sconfitta: il sacrificio estremo, consumato in una piazza che in realtà è uno splendido boulevard, per purificare il popolo, quasi come in una tragedia greca.

Quarant’anni dopo, oggi, la Città d’Oro che lui sognava, insieme con i suoi compagni di studi, reduci dal Sessantotto praghese, è la capitale prospera e libera di un Paese – la Boemia – che si è separato consensualmente dall’altra capitale, Bratislava, nella quale altrettanto liberamente sventola la bandiera della Slovacchia.
Era un giovane fuori dell’ordinario. Lo chiamavano “lo studioso”, o “il ricercatore”: estremamente intelligente, ma schivo, modesto, privo di ambizioni, lontano dalle ribalte politiche. Così lo ricordano ancora oggi i suoi amici. Faceva un gran freddo fuori dall’elegante Café Slavia, di fronte al Národní Divadlo, il teatro nazionale, quando «sopraggiunse Jan, ai primi giorni del gennaio 1969, invitato da noi a un party. Venne col viso scuro e ci disse: “Come fate a festeggiare, in tempi come questi?”».
Correvano tempi cupi. Il 21 agosto 1968, seicentomila soldati, seimila carri armati e centinaia di aerei da combattimento del Patto di Varsavia avevano stroncato con un’invasione l’esperimento democratico di Alexander Dubcˇek, all’epoca leader riformatore del partito comunista cecoslovacco: il “socialismo dal volto umano”. La notte neo-staliniana era nuovamente scesa sulla magica Praga. Nidi di mitragliatrici controllavano Staré Meˇsto, la Città Vecchia, il Piccolo Quartiere, Malà Strana, e il Ponte Carlo IV che scavalcava le acque della Moldava. Un’aria di piombo avvolgeva la Torre delle Polveri, il nobile Palazzo Reale, le chiese e i campanili di San Vito, di San Giorgio, di Santa Maria di Ty´n…
Passò sulla riva sinistra, ricordano i suoi compagni. Andò verso l’antico cimitero ebraico, sfiorò la casa di Kafka, entrò in un negozietto e acquistò una cartolina panoramica. La spedì a Hubert Bystrican, suo compagno di studi: «Ti porge i suoi saluti il tuo Hus». Firmò proprio così, Hus: Jan Hus, l’eretico riformatore religioso cèco che finì sul rogo. Mancavano poche ore al suicidio, quando scrisse una lettera ad altri due amici e all’Unione degli scrittori: «La situazione disperata rende necessario che qualcuno si sacrifichi per salvare il nostro popolo. Ho avuto l’onore di essere scelto per primo, altri seguiranno, potranno essere i vostri amici o i vostri cari». Firmato: «La torcia numero uno».
Il vento soffia a nove gradi sotto zero, e allo Slavia suona il pianista, mentre Hubert Bystrican e l’altro grande amico di Jan, Stepán Bittner, rivivono il preludio della tragedia: «Jan era serissimo, un placido giovane che scelse di morire in nome dei princìpi. E non era un rivoluzionario, né ambiva a diventare un leader, sembrava piuttosto un filosofo, amava Kant e Nietzsche, aveva una gran passione per gli studi e per l’impegno sociale. Detestava l’ingiustizia…».
Erano i giorni a cavallo tra il 1967 e il 1968. L’arcigna, esausta dittatura dello stalinista Antonín Novotny stava tramontando, i giovani riformatori erano sul punto di espugnare il partito comunista: via la censura, libertà di stampa e di movimento all’interno e all’estero, dibattito aperto sul futuro tra potere e società. Erano tutti sostenitori del nuovo corso. Jan restava in disparte, in seconda fila: osservava, approfondiva gli studi, analizzava la situazione.
Il primo grande slancio d’impegno lo ebbe nel ‘67, quando partecipò con funzioni direttive alle brigate giovanili volontarie di lavoro in Urss. Ripeté l’esperienza nel ‘68, fino a pochi giorni prima dell’invasione. Ma notò che l’atteggiamento dei coetanei russi era cambiato: l’anno prima, a Leningrado, avevano lavorato insieme in un clima fraterno; ora i russi prendevano le distanze, e il cameratismo dell’anno precedente sembrava tramontato. Influenzati dalla campagna contro la Primavera di Praga, i giovani sovietici diffidavano dei giovani cecoslovacchi. L’atmosfera amicale era andata a pezzi. I rapporti si erano induriti. Jan era sempre entusiasta della Russia, della gente comune, della natura di quel grande Paese. Non del sistema. Narrava spesso della bellezza selvaggia del Kazakhstan o della Siberia, della musica, delle tradizioni popolari di quelle terre. Ma qualcosa lo aveva ferito. Cominciò a confidare che non credeva più in un socialismo dal volto umano, finché il potere restava in pugno agli stessi personaggi.
Dopo l’invasione, andò ancora in una brigata di lavoro giovanile, ma questa volta in Francia, per aiutare nella vendemmia. E là i suoi occhi si aprirono del tutto: «Vide un Paese normale, diverso dalla Cecoslovacchia occupata. Vide una società libera di scegliere come vivere, come viaggiare, come scrivere e parlare. Il risultato fu un confronto amaro tra il destino dei francesi e quello dei cèchi e degli slovacchi. Una volta disse che per Praga un lieto fine era del tutto impossibile. Forse non sopportava la vista dei giovani soldati sovietici, spediti in armi dalle steppe dove lui aveva lavorato volontario a dettar legge nel suo Paese».

La notizia arrivò d’improvviso: «Qui Radio Praga, oggi un giovane si è dato fuoco in piazza San Venceslao». Che si trattasse di Jan, i suoi amici lo appresero nel tardo pomeriggio del giorno seguente. Ebbero la conferma con l’arrivo delle lettere, firmate dalla “torcia numero uno”.
Esisteva, oppure no, un “gruppo di torce”, una task force di kamikaze della libertà? Il dubbio faceva tremare il regime. Furono interrogati gli amici di Palach, noti alla polizia segreta per le loro corrispondenze con Jan. Tutti ebbero la possibilità di sopravvivere, ma svolgendo lavori umili, col divieto di studiare e di fare qualsiasi carriera.
Fu punito in questo modo anche Olbram Zoubek, uno dei più celebri scultori praghesi del tempo, lontano parente di Palach. Costui si offrì volontario per fare la maschera mortuaria e il monumento tombale di Jan. Riuscì a fatica a entrare nella morgue dove la salma era custodita. Racconta l’artista: «Mi occupai da artista della memoria di lui, e di Jan Zajíc, il primo dei ragazzi che lo seguì nell’esempio del suicidio col fuoco». Il 25 gennaio, i funerali di Jan paralizzarono Praga: «Tutta la città in lutto. Una folla immensa, come mai prima. Molti piangevano. Dominava il silenzio. Quando la bara passò davanti all’Università fu cantato l’inno nazionale. Temendo provocazioni, si era organizzato un servizio d’ordine degli studenti. Bohdan Mikolás˘ek, un celebre cantautore dell’epoca, scrisse Il silenzio, una canzone per Palach. Da allora, gli fu vietato ogni concerto».

Di Laszlo Marton, la statua del poeta ungherese Attila József, di fronte al Parlamento di Budapest. Segnata dalla miseria e dalla sofferenza, la sua vita fu rischiarata solo dall’amore per la libertą del suo Paese. Morģ suicida nel 1937, sognando un nuovo ordine sociale. - Dario Carrozzini

Di Laszlo Marton, la statua del poeta ungherese Attila József, di fronte al Parlamento di Budapest. Segnata dalla miseria e dalla sofferenza, la sua vita fu rischiarata solo dall’amore per la libertà del suo Paese. Morì suicida nel 1937, sognando un nuovo ordine sociale. - Dario Carrozzini

Eccolo, il testo che terrorizzò la pavida nomenklatura praghese: «Nella strada fluiscono
il silenzio e la gente. E in pochi, solo in pochi hanno riso.
Il marciapiede inerte
si è tolto il berretto
e il silenzio, il silenzio continua
la sua corsa in avanti.

Sfila nei ranghi il silenzio, e qualcuno
ha posto la serietà negli sguardi. Come la sete sospinta verso l’acqua
il silenzio, il silenzio continua
la sua corsa in avanti.

Nella strada fluiscono
il silenzio e la gente
e tutti hanno rinunciato al riso.
Ma il silenzio è soltanto
una linea divisoria.
Poi viene il grido – ed è venuto,
divampata la fiamma.

Fuoco, luce e fumo,
e con essi una breve vita
hanno arso a lungo
e a lungo arderanno.
Fiamma delle altrui colpe –
e io come voi tutti conosco la notizia:
un uomo vivo è morto
e i morti sono rimasti in vita.

Sono rimasti in vita, ma tutti un po’
sanno il perché –
perché chi giaceva ora è in piedi.
Ma io, io chiedo anche perché
perché mai costò così caro
quel fuoco.

Perché mai per pensare
alla vita si aspetta
di vedersela morire dinanzi agli occhi.
Il perché incalza e non dà tregua
perché, perché mai costò
così caro quel fuoco.

Poi sulla piazza San Venceslao
/ di quel silenzio
ognuno s’è portato via un frammento.
E il museo nazionale, con gli occhi
già orbati dal fuoco degli spari,
vede il silenzio continuare
la sua corsa in avanti.

Che nessuno l’applauda,
questa canzone,
che ognuno tacendo digerisca
il silenzio.
E che il silenzio –
solo il quieto parlante silenzio
prosegua sommesso il racconto».

Praga, due statue nel Memoriale delle Vittime del Comunismo, dedicato a Jan Palach, e realizzato dallo scultore cčco Olbram Zoubek.

Praga, due statue nel Memoriale delle Vittime del Comunismo, dedicato a Jan Palach, e realizzato dallo scultore cèco Olbram Zoubek.

Dice Zoubek, lo scultore: «Io costruii la sua lapide tombale. Diciotto giorni dopo, la polizia segreta inviò a Libuse Palachova, la mamma di Jan, l’ordine di rimuoverla subito. La lettera arrivò tardi. Una notte, un commando speciale rimosse il monumento dal cimitero, non avevano rispetto neanche per i morti». La tomba fu profanata senza pietà, tale era la paura che anche da morto quel giovane timido e introverso incuteva al regime. Gli agenti speciali portarono via la lapide-monumento forgiata dall’artista e la fecero fondere. Di Jan doveva sparire ogni ricordo. Lo scultore fu brutalmente interrogato dalla Stb, la polizia politica, che voleva sapere se dietro il suicidio ci fosse un “gruppo antistatale” pronto ad agire. Stesse domande, poi, a tutti gli amici e i compagni di studi di Palach.
Vennero gli anni più bui. Mamma Libuse si assunse il ruolo della madre del martire, resistendo alle pressioni del regime e anche a quelle del secondo figlio, deciso a non procurarsi grane con la dittatura. Libuse morì a sessantaquattro anni, non ebbe la gioia di vedere la svolta democratica dell’89. La profanazione di Stato della tomba continuò: la salma di Jan fu traslata e cremata in segreto. Solo quattro mesi dopo le ceneri vennero restituite alla famiglia, e inumate nel villaggio natale, Vs˘etaty. Là rimasero fino al 1991, quando, sopraggiunta la democrazia, furono riportate al cimitero praghese di Ols˘any.
(Mario Pinzauti, firma di prestigio di Apulia, che allora dirigeva il Gr3 della Rai, nella storica via del Babuino, aveva lanciato l’interessantissimo concorso “I giovani incontrano l’Europa”, che premiava gli studenti vincitori con un viaggio attraverso alcuni Paesi del Vecchio Continente. Proprio il ‘91, credo, fu l’anno in cui si andò a Vienna, poi a Monaco di Baviera – con visita del campo di concentramento nazista di Dachau – poi ancora, prima di raggiungere Mosca e Leningrado-San Pietroburgo, a Praga. E qui, in piazza San Venceslao, sul punto in cui Jan Palach aveva sacrificato la vita nel nome della libertà, Pinzauti commemorò il giovanissimo eroe, a ventidue anni dal “giorno del fuoco”: «Per i cèchi quello fu un gesto grande, una luce nel buio dei tempi. Svegliò il popolo, dimostrò che il dolore e il sacrificio personale potevano incunearsi nella storia e farsi memoria in grado di indirizzare poi il destino di un popolo». Lasciammo in quel cerchio, che era stato ribalta di un dramma potente, un fascio di fiori bianchi e rossi.
Osservavo la gente. Ammirata, e sorpresa dagli italiani che si ricordavano di Jan, il ragazzo bruciato due volte, da vivo e da morto, come mi disse un boemo che, dentro lo Slavia, mi aveva dato il suo biglietto da visita – che lo presentava come “Imprenditore”; in realtà tuttofare con tanta fantasia, quanta ne bastava per sfangare al meglio la vita.
Meravigliata, sì, quella gente, che poi – come ebbi modo di verificare ritornando in quella città – si lasciò riprendere dalla rassegnazione, determinata dallo spirito di pigrizia astuta del “buon soldato Svejk”. Quello spirito accidioso in virtù del quale oggi, a quarant’anni dal fuoco della torcia numero uno, nella libertà che Jan sognò ma non visse, i giovani, di lui, sanno poco o nulla).

Vent’anni dopo, 1989. «L’episodio-chiave si ebbe ai primi di novembre, nelle vicinanze dell’ambasciata della Germania Ovest a Praga. Il Muro non era ancora caduto, ma migliaia di tedeschi orientali erano fuggiti cercando rifugio da noi. Ho visto centinaia di praghesi che distribuivano tè e coperte, questa volta indifferenti alla presenza della polizia segreta. Quell’atmosfera mi disse chiaramente che non sarebbe passato molto tempo e qualcosa di epocale sarebbe finalmente accaduto».

Praga, due statue nel Memoriale delle Vittime del Comunismo, dedicato a Jan Palach, e realizzato dallo scultore cèco Olbram Zoubek.

Chi ricorda è Václav Havel, il dissidente leader della “Rivoluzione di Velluto” che pacificamente rovesciò il sistema comunista dell’ex Cecoslovacchia. «C’era molta tensione», prosegue il primo presidente post-comunista, «Il morente regime filosovietico non restava inerte. Arrestava, interrogava, tratteneva in prigione chiunque fosse sospettato di complottare contro lo Stato. Segno che i due Muri, quello berlinese e quello della Cortina di Ferro, si stavano già sgretolando. Erano gli effetti della valanga che si era staccata nel 1968, quando i sovietici tentarono di fermare il corso della storia invadendo il nostro Paese».
Sembra una leggenda metropolitana, e invece è una vicenda reale. La data: 9 novembre 1989. Il luogo: sede della Stampa Estera di Berlino Est. La circostanza: conferenza del capo del Politburo, Günter Schabowski, convocata per il tardo pomeriggio. Protagonista: il giornalista italiano Riccardo Ehrman, corrispondente da Berlino dell’agenzia Ansa. Il quale aveva ricevuto una misteriosa telefonata da parte di un collega tedesco-orientale, tale Poetschke: «Chiedi dei permessi di viaggiare», aveva detto costui. Ehrman giunse alla Moehrenstrasse, nel cuore della città, intorno alle sei. Sala Stampa gremita, domande lisce, risposte vuote, noiosa routine burocratese. Ehrman si sbracciava per avere la parola, e finalmente alle 18,53 la ottenne sul filo di lana, cioè per l’ultima domanda: «Lei ha parlato di errori. Non crede che la legge sui permessi per viaggiare che avete promulgato pochi giorni fa sia stato un grosso errore?». Schabowski tergiversò, imbarazzato. Poi tirò fuori dalla tasca un foglietto e annunciò, a braccio, un nuovo regolamento che consentiva «a tutti i cittadini della Repubblica democratica di andare all’estero attraverso i punti di frontiera della Ddr».
Perché Ehrman si rendesse conto che stava per sopraggiungere la libertà, occorreva una precisazione. Supplemento di domanda: «A partire da quando?». Schabowski esitò, poi rispose: «A quanto mi risulta, da subito». Nessuno, in Sala Stampa, capì. L’Ansa anticipò di 41 minuti su tutti la notizia della caduta del Muro. Uno scoop planetario scolpì nel libro della Storia un’ora memorabile, che poteva essere anticipata se in Italia, (o altrove nel mondo: la Cia e i servizi occidentali avevano captato la telefonata di Ehrman alla sua agenzia, a Roma) avessero creduto subito e senza riserve alla notizia. Che fu confermata dal caos che immediatamente esplose a Berlino, con la Friedrichstrasse percorsa da una fiumana di persone, cittadini che avevano visto in diretta tv la conferenza stampa, e che si dirigevano ad ovest, verso il Muro, dove i Vopos, inebetiti, non sapevano che fare.
«Che sta succedendo?», chiese un soldato a Ehrman. «Lasciateli passare tutti», rispose il giornalista sorridendo. La folla lo riconobbe, lo sollevò in alto e lo portò in trionfo. Qualche metro più in là, le gru cominciarono a buttar giù sezioni di Muro, creando i primi varchi.
L’incolpevole Schabowski venne subito defenestrato. Ehrman, che oggi abita a Madrid, venne insignito delle più alte onorificenze della Germania, unificata un anno dopo. Gli disse un giorno il Cancelliere della Riunificazione, Helmut Kohl: «Noi due sì che abbiamo fatto qualcosa per saldare le due Germanie!». Il giornalista italiano ricorda una frase di Oscar Wilde, secondo cui la vita è un brutto quarto d’ora con qualche buon momento. «E quel giorno era stato un buon momento».

Ancora adesso ci si interroga – increduli – su quell’avvenimento, sul mistero del crollo indolore e simultaneo dei Muri, delle Cortine e di un potere pietrificato da diversi decenni, senza alcuna estrema difesa, senza alcun arroccamento in una ridotta. D’improvviso il comunismo si spense come idea, per sopravvivere in seguito come apparato e per rigenerarsi come potere.
Quello di Berlino era «una spada piantata nel cuore dell’Europa», con 165 torri di guardia e 232 posti di tiro, lungo quindici chilometri tra le due zone della città e altri 130 lungo il confine tra le due Germanie. Una volta caduto, determinò non soltanto la fine del dramma tedesco (trascorso dalla Prima alla Seconda guerra mondiale, dallo smembramento imposto dal trattato di pace all’oppressione sovietica), ma anche quella del Muro del Tempo, per citare un’opera di Ernst Junger: esso rivelava l’anacronismo delle due parti tedesche: all’Ovest i giorni della modernità, del benessere, della libertà individuale e della democrazia; all’Est i giorni fermati all’epoca e agli scenari prussiani, riflessi nell’età hitleriana e in quella sovietica, versione regressiva e repressiva proprio della modernità.
Il crollo sincronizzò le Germanie, perché l’Est entrò nel tempo dell’Ovest. Il comunismo fu sconfitto sul suo stesso terreno. Aveva sfidato l’Ovest nel nome del materialismo e dell’ateismo, del progresso e della liberazione, dell’economia e della tecnologia, e venne sconfitto dall’Ovest sul medesimo piano, da un materialismo ateo meno pervasivo e consensuale, da una società più progredita, da una liberazione individuale più radicale, da un’economia più efficace e da una tecnologia vincente.

Cadute le ideologie del Novecento, svaniti i blocchi contrapposti e la «divisione orizzontale tra Oriente e Occidente del mondo», tecnica e mercato aprirono gli scenari della globalizzazione. La storia cedette il passo alla tecnica, l’ideologia all’economia. Rovescio della medaglia della globalizzazione, la rinascita del localismo e l’indebolimento degli Stati nazionali, con un’ambiguità di fondo che tuttora rischia di radicarsi pericolosamente nell’Europa a 27, con l’Oriente continentale annesso dall’Occidente, e con la comparsa di un altro Muro, invisibile ma non meno insidioso: quello tra Nord e Sud, e tra Centro e periferie del pianeta. Mentre crescono nuove potenze economiche, (Cina, India, Brasile), il mondo si avvia a diventare multipolare.
In realtà, l’inizio della fine del “socialismo reale” aveva avuto inizio trent’anni fa, nei giorni della visita pastorale di Giovanni Paolo II in Polonia, nella quale il Papa, polacco fra i polacchi, affermò che il futuro del suo Paese sarebbe dipeso dal numero di persone capaci di «essere non conformiste». La sicurezza, l’orgoglio sereno, la “maestà” di questo Pontefice diedero speranza a milioni di esseri umani intrappolati nel vicolo cieco del marxismo. Già in quei giorni fu dato il primo colpo decisivo al Muro.
Il secondo colpo lo aveva dato Ronald Reagan, che definì il comunismo col suo vero nome: l’impero del male. Questo presidente americano voleva chiudere la Guerra Fredda, non contenendo la rozza violenza espansiva di Mosca, ma facendo prendere coscienza al mondo di due dati di fatto: lo svilimento dei diritti delle persone riduceva la vita dei popoli a un simulacro di se stessa; era solo questione di tempo, ma l’economia sovietica sarebbe collassata su se stessa. Già nel 1920 Ludwig von Mises aveva esposto la tesi secondo cui il socialismo era, sostanzialmente, impraticabile. Sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e, insieme, il libero mercato, sarebbe venuto meno il sistema dei prezzi, cioè la possibilità stessa del calcolo economico e di attribuire un valore alle cose. Ciò avrebbe reso impossibile a un’economia di evolvere, di adattarsi. In una parola: di vivere.


L’agonia ha avuto tempi lunghi, ma la storia concreta di settant’anni di socialismo reale è stata quella prevista da von Mises. L’allocazione delle risorse in regime di pianificazione è stata tremendamente inefficiente, e ha ballato al ritmo della politica. La fame, la carestia, il sottosviluppo caratterizzavano la realtà quotidiana di un Paese-guida e dei Paesi-satelliti, mentre Mosca faceva a gara con la Nasa a chi spediva per primo l’uomo nello spazio: inutili spettacoli di corte, che si consumavano nella moria dei servi abbandonati nel gelo oltre il ponte levatoio. A questo mondo che stava crepando come una melagrana Reagan lanciò la sfida finale quando in un celebre discorso disse: «Signor Gorbaciov, abbatta questo Muro!».
In pochi, in pochissimi, nella gran kermesse sulla bancarotta dell’89, hanno ricordato queste due figure gigantesche e pioniere. Nuovamente obnubilati dall’utopia malata di una libertà che non sia capitalistica, abbiamo ricominciato a fingere di non vedere. Ma in quegli anni cruciali Giovanni Paolo II non era sui monti Tatra a sciare, e Ronald Reagan non era in Florida a giocare a golf.

L’Italia, dal canto suo, guardava altrove. Distratta e sprecona. Un computer abbastanza potente aveva una memoria Ram di 512 kb, e costava 799mila lire in offerta. Si comprava un’utilitaria 126 Fiat con 35 rate da 207mila lire. Si leggeva, di Stephen King, L’ultimo cavaliere, che non trattava dell’ossessione di Berlusconi, sopraggiunta dopo. La tv era ancora “per famiglie”, con i telefilm e gli sceneggiati (I Promessi Sposi), non con le fiction. Imperversava la lambada. Nelle librerie Eco lanciava il Pendolo, mentre Rain Man vinceva l’Oscar.
Si ballava sull’orlo dell’abisso, e nessuno ne aveva coscienza. Si compravano, serenamente, Cct pubblicizzati con rendimento lordo del 14,86%. L’inflazione volava. Mentre Mstislav Rostropovic suonava il violoncello tra le macerie pacificamente fumanti del Muro, da noi il faccendiere Umberto Ortolani finiva in galera; il terrorista nero Valerio Fioravanti dichiarava; Michele Serra dava alle stampe, con spirito predittivo (?!), Il nuovo che avanza, radiografia dell’immobilità italica mascherata dietro la finzione dell’oltrismo; Nanni Moretti montava proprio in quel torno di tempo Palombella rossa, mentre a Botteghe Oscure il segretario politico del Pci si struggeva: «Cambia la Storia. Ha vinto Hitler!».

Una famiglia del settore Ovest saluta i parenti che vivono nel settore Est di Berlino.

Una famiglia del settore Ovest saluta i parenti che vivono nel settore Est di Berlino.

Paesaggi crepuscolari, tutti quanti, di un’Italia che diceva ostinatamente di resistere, ma che in realtà, semplicemente, non esisteva. E intanto – ne citiamo uno per tanti altri – lo scrittore Angelo d’Orsi, nostalgico al modo dello storico Eric Hobsbawm, ma dalla caratura intellettuale di questi lontano anni luce, nel suo malmostoso 1989. Del come la Storia è cambiata, ma in peggio, ci rimprovera l’incapacità di mettere in piedi nuovi socialismi. Sostiene il Nostro: al netto del gulag e del terrore staliniano o brezneviano, delle torture e degli ammazzamenti negli scantinati delle polizie segrete, dell’abolizione dei minimi diritti democratici, nel mondo del socialismo reale c’erano società che meglio sapevano distribuire le risorse, creare occupazione, elargire sussidi e “social benefit”: ed era da lì che occorreva ripartire, anziché consegnarsi al pensiero unico occidentale che ci condurrà dritti a nuovi Muri, a coltelli alla gola, all’apocalisse. Pensieri, questi, che mi riportano alla mente, più che le analoghe agiografie dei vari Noam Chomsky, Michael Moore o Naomi Klein, le parole rivolte da John Kennedy a una sterminata folla berlinese: «Chi dice che oltre questo orrendo confine c’è libertà, venga a Berlino! Chi sostiene che il socialismo reale produce ricchezza e benessere per tutti, venga a Berlino! Chi afferma che col comunismo si costruisce il futuro, venga a Berlino!».
Non a Berlino, ma a Bonn c’era Kohl. E nella capitale della Repubblica Federale Tedesca si recò – metaforicamente: la raggiunse per telefono – Gorbaciov, che aveva già deciso di abbandonare la vecchia concezione ontologicamente antagonistica delle relazioni internazionali che presiedeva all’ideologia sovietica e si risolveva nell’idea della “guerra inevitabile”. Premier russo e Cancelliere tedesco parlarono a lungo. «Noi possiamo alzare tutti i muri che vogliamo – disse Kohl – ma alla fine le acque del fiume della Storia tracimeranno, anche contro la nostra volontà». I due leader diedero la terza spallata, l’ultima e decisiva, alla quale partecipò, nel suo piccolo, anche un coraggioso corrispondente italiano da Berlino Est. Che lo raccontò al mondo con una striscia telefonica di un folgorante endecasillabo: «Il Muro di Berlino è caduto». Benedetti poeti!

   
   
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